Il Nicaragua alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi politica e sociale
Un anno dopo
È passato un anno dall’esplosione, il 18 aprile del 2018, di un movimento pacifico di protesta che ha messo in luce le contraddizioni profonde e sino a ora non rimarginabili fra ampi settori della società nicaraguense da una parte e il governo della coppia Ortega-Murillo (presidente e vicepresidente, marito e moglie), espressione del partito FSLN, dall’altra. Non accenna a chiudersi la frattura fra coloro che contestano alla radice la legittimità del governo nicaraguense (considerato autoritario, familista, clientelare e inefficace per quanto riguarda un reale, strutturale sradicamento della povertà) e chi invece sostiene il governo, spesso essendo stato beneficiato dalle sue politiche.
Il Nicaragua non è più lo stesso di un anno fa e allo stesso tempo i cambiamenti che i moti dell’aprile 2018 auspicavano non sono avvenuti: il governo non si è dimesso, non sono state indette elezioni anticipate, non vi sono state aperture verso la riforma e la democratizzazione del sistema politico-elettorale (molte forze politiche rimangono prescritte, il Tribunale elettorale resta saldamente nelle mani del partito di governo), si mantiene uno stato di forte tensione con gli organi di informazione critici verso il governo (molti giornalisti sono in esilio, alcuni in carcere).
I fatti, le proteste dell’opposizione, la risposta del governo
Questo non significa che nulla sia cambiato. La possibilità di manifestare pubblicamente contro il governo è stata di fatto sospesa, tutte le manifestazioni per le quali le forze di opposizione hanno chiesto l’autorizzazione sono state sistematicamente vietate. Gli scontri di piazza hanno visto impegnate le forze di polizia e i gruppi paramilitari contro manifestanti quasi sempre inermi, provocando un numero di morti la cui stima oscilla fra circa 200 secondo la Commissione nominata dall’Assemblea Nazionale (parlamento) e molte centinaia riportate dalla commissione per i diritti umani dell’Organizzazione degli Stati Americani (oltre 500 per alcuni organismi indipendenti) con un rapporto di circa 85/15 fra dimostranti e agenti di polizia, paramilitari e militanti del FSLN. Oggi la repressione si è spostata sul piano degli arresti e dei sequestri. Anche il numero delle persone incarcerate con accuse di terrorismo e altri reati di natura politica varia a seconda delle fonti (il governo accusa l’opposizione di fornire dati gonfiati e di mescolare casi politici con criminalità comune), ma si tratta comunque di alcune centinaia. A questo si aggiungono i circa 60mila cittadini nicaraguensi che si sono rifugiati all’estero, soprattutto in Costarica e, in misura minore, negli Stati Uniti e in Spagna.
Da parte dei sostenitori del governo e del FSLN la realtà è descritta in modo completamente diverso: questi rivendicano la legittimità del risultato elettorale che nel 2016 ha sancito la rielezione di Ortega alla Presidenza della Repubblica (terzo mandato consecutivo dal 2006) e sostengono che il governo può contare su un vasto consenso sociale intorno all’idea di ricostruire la convivenza per lo sviluppo del paese e la riduzione della povertà. Da questo punto di vista, le accuse di aver demolito la democrazia e le libertà civili sono radicalmente respinte dal governo di Ortega, secondo il quale sarebbero proprio gli oppositori – spesso definiti “terroristi e golpisti” nel discorso ufficiale - il vero pericolo per la democrazia e la pace sociale. Gli organi di informazione del governo e del FSLN presentano un paese pacificato, fortemente coeso intorno alle autorità istituzionali, con parole d’ordine centrate sulla serenità, la convivenza, il “perdono” accompagnate quasi sempre da riferimenti di carattere religioso. Il governo sottolinea il fatto di aver ripreso il controllo totale del territorio dopo quello che definisce un “tentativo fallito di colpo di Stato”. Questo termine rimanda in realtà al caso in cui un pezzo delle istituzioni civili o militari si ribelli alle autorità, cerchi di deporle con la forza e si sostituisca manu militari ad esse. Non è questo quel che è avvenuto in Nicaragua, dove le diverse articolazioni del potere (governo, polizia, forze militari, Assemblea nazionale, magistratura inquirente e giudicante, Tribunale elettorale) sono sempre rimaste sotto il controllo della Presidenza della Repubblica. Le principali correnti liberali, conservatrici e di sinistra democratica sono state di fatto inabilitate all’azione politica legale attraverso sentenze del Tribunale Supremo Elettorale che hanno rilevato irregolarità nelle procedure congressuali interne.
Il “dialogo” resta al palo
Nel mese di marzo di quest’anno, grazie anche alle pressioni internazionali, si è riattivato un tavolo di dialogo e confronto cui partecipano sei rappresentanti del governo e sei rappresentanti dell’Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia, in cui confluiscono le principali forze sociali che sono state protagoniste delle proteste di piazza. L’Organizzazione degli Stati Americani e la Nunziatura Apostolica sono i testimoni-garanti di questo secondo esperimento di concertazione, dopo il fallimento degli incontri dello scorso anno. Le conversazioni nell’ambito del “dialogo” sembrano tuttavia essersi nuovamente arenate: l’Alleanza accusa il governo di non aver compiuto passi concreti rispetto a impegni presi all’inizio del nuovo “dialogo” su liberazione dei prigionieri, riforma del sistema elettorale con supervisione internazionale, libertà di espressione e di manifestazione, disarmo e scioglimento dei gruppi paramilitari. Il trasferimento di alcune decine di detenuti “politici” dal carcere agli arresti domiciliari non è ritenuto un passo sufficiente rispetto a quanto contenuto nell’agenda approvata all’inizio del dialogo. Tra accuse di “terrorismo” da una parte e denuncia dell’ormai compiuta trasformazione del regime in “dittatura”, non si vedono al momento possibilità concrete di soluzione.
Inchieste condotte da istituti indipendenti forniscono dati piuttosto diversi per quanto riguarda il consenso verso gli schieramenti politici, con un appoggio al FSLN e a Ortega-Murillo che oscillerebbe tra il 20 e il 40 per cento. Evidente in tutti i sondaggi l’assenza di un’opposizione politica (partito o coalizione) capace offrire nel breve termine un’alternativa solida e credibile in vista di elezioni anticipate rispetto alla scadenza naturale del 2021, libere e trasparenti che lo schieramento di opposizione indica come orizzonte strategico per superare la crisi: pesa in questo il persistere di diffidenze e rancori fra forze liberali-conservatrici e i molti politici e intellettuali oppositori provenienti dal FSLN e che avevano mantenuto ruoli di governo durante gli anni ottanta, durante la guerra civile fra sandinismo al potere e Contras. Sul piano politico, come detto, il quadro nicaraguense vede un governo interamente nelle mani del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale di Ortega e Murillo (FSLN), appoggiato da piccole forze politiche presenti nell’Assemblea nazionale (parlamento) ma con scarsa presenza sul territorio. In realtà il movimento di protesta e il confronto-scontro con il governo Ortega-Murillo continua a esprimersi attraverso organizzazioni sociali studentesche, imprenditoriali, contadine, urbane, femministe riunite nell’Alleanza Civica e nell’Articolazione dei Movimenti Sociali, che a loro volta confluiscono nella piú ampia Unione Nazionale Azzurra e Bianca (dai colori della bandiera nazionale).
L’impatto economico della crisi
In un piccolo paese povero come il Nicaragua (fra i tre più poveri dell’America Latina e dei Caraibi, insieme a Honduras e Haiti), ci vuole poco per peggiorare una situazione economica largamente dipendente dagli investimenti esteri e dalla cooperazione internazionale. L’incertezza sulle prospettive future del paese fa prevedere per il 2019 una drastica caduta del Prodotto Interno Lordo: cinque per cento secondo il Fondo Monetario Internazionale (a fronte della riduzione del 3,8 per cento registrata nel 2018 dopo otto anni consecutivi di crescita), ben di più secondo centri studi nicaraguensi (Copades arriva a una contrazione del 20 per cento, non lontano dal meno 25 per cento che il FMI prevede per il Venezuela). Il governo di Ortega, a sua volta, prevede un calo del Pil di circa l’1 per cento. Recentemente la Banca Centrale del Nicaragua ha dato notizia di una riduzione del 17 per cento dei contributi all’Istituto di previdenza sociale INSS fra febbraio 2018 e lo stesso mese dell’anno in corso a causa della caduta dell’occupazione nei settori del commercio, delle costruzioni, dei servizi finanziari, dei trasporti, della logistica e delle comunicazioni. In valore assoluto ciò significa una perdita di circa 160mila posti di lavoro (cui si aggiungono circa 300mila posti di lavoro persi nel settore informale, in parte “recuperati” attraverso iniziative informali di qualità sempre minore), in un paese di circa 6,3 milioni di abitanti e una popolazione economicamente attiva di 2,7 milioni di persone. La Banca Centrale del Nicaragua informa inoltre che l’andamento negativo dell’economia registrato nel 2018 è dovuto soprattutto al crollo degli investimenti diretti esteri (-63,2%) e del turismo (-41,1%). A parere delle associazioni imprenditoriali schierate nel fronte dell’opposizione, l’aumento delle imposte per le maggiori imprese deciso nel mese di febbraio dall’Assemblea Nazionale spingerà ulteriormente verso la riduzione delle attività produttive e dei servizi. In questo quadro la popolazione in condizione di povertà dovrebbe passare dal 20,7 per cento del 2017 al oltre il 30 per cento nel 2019, secondo la fondazione Funides (questa tendenza è confermata da tutte le fonti governative e indipendenti). Bisogna inoltre tener conto dell’espansione dell’area della cosiddetta “popolazione vulnerabile”, corrispondente a un ulteriore 21 per cento, la quale, pur percependo un reddito fra 4 e 10 dollari al giorno, è molto sensibile a mutamenti anche modesti nelle condizioni economiche generali a causa dei quali potrebbe spostarsi con rapidità verso la fascia di povertà. La crisi venezuelana ha fatto venir meno il flusso di aiuti che venivano da quel paese e che, gestiti al di fuori del bilancio statale, permettevano la diffusione di programmi di sussidi e aiuti per famiglie appartenenti agli strati più deboli della popolazione.
La posizione della Chiesa Cattolica
In questo quadro la Chiesa cattolica nicaraguense, inizialmente impegnata nella mediazione tra governo e dimostranti e nel tentativo di far sospendere le forme più violente della repressione, ha progressivamente assunto il ruolo di controparte del governo, generando preoccupazione nella Santa Sede. Nello scorso mese di marzo il Papa Francesco ha richiamato a Roma, a tempo "indeterminato", Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, la figura della Conferenza Episcopale del Nicaragua più attiva nella denuncia della repressione governativa e delle violazioni dei diritti umani. Contro Báez era in corso da mesi una campagna martellante dei mezzi d'informazione governativi, cui si è aggiunta la consegna di 284mila firme raccolte dalla Comunità Cristiana di Base San Pablo Apóstol con la richiesta al Papa di esautorare il vescovo Baez. La decisione ha raggelato l'opposizione e gran parte della società nicaraguense. Fioccano le interpretazioni: la decisione risponde a una richiesta di Ortega come condizione per ricominciare il "dialogo nazionale" (che comunque in poche settimane si è di nuovo arenato); si vuole proteggere la vita di Baez che ha ricevuto numerose minacce di morte; il ruolo politico assunto dalla Chiesa nicaraguense come fattore agglutinante dell'intera opposizione nazionale – in mancanza di un'opposizione politica organizzata e credibile – ne mina il carattere universale e, concretamente, rischia di spingere i fedeli neutrali o vicini all'orteghismo nelle braccia delle sempre più forti chiese pentecostali; il Vaticano vuole ridurre l'esposizione politica della Conferenza Episcopale per poter continuare a giocare un ruolo nella ricerca di una soluzione democratica alla crisi, lavorando in modo più discreto e cercando di ridurre la radicalizzazione anziché alimentarla... Sicuramente questa mossa è prodotto anche dell'attivismo del nunzio apostolico Stanislaw Sommertag, che in questi mesi è stato un po' il "controcanto" della CEN nei rapporti con il governo e oggi è, insieme al delegato dell’Organizzazione degli Stati Americani, uno dei testimoni nelle riunioni fra governo e fronte delle opposizioni, dopo che Ortega ha rifiutato la presenza della Conferenza Episcopale come mediatrice.
Il contesto internazionale
Sul piano internazionale il governo Ortega è oggi sicuramente più isolato di un anno fa. Gli Stati Uniti hanno convissuto per molti anni senza problemi con il FSLN al governo: gli investimenti diretti delle imprese statunitensi in Nicaragua sono cresciuti e i rapporti si sono mantenuti cordiali dal 2006 (anno del primo mandato di Ortega dopo la sconfitta elettorale del 1990) sino all’aprile 2018. Membri delle forze armate nicaraguensi hanno partecipato sino a pochi mesi or sono a corsi di formazione e addestramento in accademie militari negli Stati Uniti. In realtà la crisi politica è esplosa con la violenta repressione scatenata a partire dall’aprile 2018. Questa scelta – che non era scontata e in realtà nemmeno prevista in quelle dimensioni – ha messo molti interlocutori internazionali di fronte alla necessità di rompere con il governo Ortega: non si trattava più di presunte frodi elettorali o di atteggiamenti più o meno persecutori verso alcune forze di opposizione, ma di un’ondata repressiva che in America Latina non ha eguali in anni recenti, nemmeno in Venezuela. Sino a questo momento le sanzioni decise dagli Stati Uniti hanno riguardato gli interessi finanziari di personaggi di primo piano del governo, senza colpire l’economia del Nicaragua nel suo complesso.
L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha avviato la procedura per l’applicazione della Carta Democratica al Nicaragua, che potrebbe portare alla sospensione del paese dall’Organizzazione. In questo contesto il governo Ortega-Murillo è sostenuto solo dal Venezuela, dalla Bolivia e dalla repubblica caraibica di Saint Vincent and the Granadines (Cuba non partecipa alla OEA). Dopo aver pubblicato un drammatico rapporto sulla situazione del Nicaragua la Commissione per i diritti umani della OEA (CIDH) è stata espulsa dal paese.
Il Parlamento Europeo ha approvato recentemente a larghissima maggioranza (322 favorevoli su 389 votanti) una risoluzione con cui “prende atto della grave situazione in cui è piombato il Paese dopo i tumulti che hanno avuto luogo nell’aprile e nel maggio 2018 e chiede alle autorità nicaraguensi la definizione di una chiara tabella di marcia per elezioni libere, eque e trasparenti da organizzare nel prossimo futuro”. Un gruppo di deputati europei che avevano visitato il Nicaragua all’inizio del 2019 chiedendo al governo di Ortega di sospendere la repressione, liberare tutti i prigionieri politici e permettere l’arrivo delle organizzazioni internazionali per i diritti umani espulse nei mesi precedenti, ha preso atto che tali richieste non sono state soddisfatte e ha quindi invitato la commissaria Mogherini a sollecitare l’impegno dei governi europei affinché l’Unione Europea promulghi sanzioni finanziarie che colpiscano personalmente i dirigenti e funzionari nicaraguensi ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani. Particolarmente attivi in questo campo sono i deputati socialisti spagnoli e portoghesi.
Paura del “contagio”?
Il governo nicaraguense e le forze internazionali che lo sostengono (i governi amici di Venezuela, Cuba e Bolivia e gran parte delle organizzazioni della sinistra latinoamericana) danno di questo isolamento internazionale una lettura molto netta: si tratta di una nuova fase dello storico asservimento della destra e della borghesia continentale all'imperialismo degli Stati Uniti, che sarebbe preoccupato per l’eventuale estendersi del contagio "socialista". In realtà le politiche sociali ed economiche messe in pratica dal Nicaragua di Ortega non sono radicalmente diverse da quelle attuate da governi di altro segno in Centroamerica e nel resto dell'America latina: può cambiare un po' il peso dell'assistenzialismo sociale, ma nella sostanza il governo di Ortega ha garantito in questi anni gli interessi dell'imprenditoria nazionale e internazionale, competendo con altri paesi dell'area per qualificarsi come il paese dove più convenisse investire.
Secondo alcuni analisti vi sarebbe sì la preoccupazione di un contagio, ma questa non riguarderebbe tanto i contenuti politici quanto per il metodo applicato in Nicaragua, in Venezuela, nell'Ecuador di Correa (e forse anche nella Bolivia di Morales, sia pure in forma meno accentuata). Alla luce di esperienze concrete vissute in questi anni, il percorso che molte forze di sinistra seguirebbero una volta vinte le elezioni (ricordo che tutti i paesi dell'America Latina sono repubbliche presidenziali) sarebbe il seguente: conferma e consolidamento del consenso attraverso programmi di espansione dei servizi essenziali e di fornitura di beni primari a favore di grandi settori sociali trascurati ed emarginati dai precedenti governi (ivi comprese donne e popolazioni indigene), rafforzamento del potere attraverso una progressiva neutralizzazione del sistema di contrappesi (controllo del potere giudiziario, controllo del Tribunale elettorale, controllo delle Camere, estensione del controllo del presidente e del governo su tutte le istituzioni), progressiva sovrapposizione fra partito e Stato, il controllo politico su Polizia e Forze Armate, modifiche costituzionali per garantire la rielezione del presidente della Repubblica. I passaggi successivi sono la scarsa sopportazione verso gli organi d'informazione indipendenti, l'espansione del clientelismo politico (opportunità, risorse e sussidi distribuiti secondo il grado di fedeltà partitica), la riduzione della trasparenza nei processi elettorali. La partecipazione popolare, uno dei cardini delle politiche sociali dei governi di sinistra, progressivamente si sclerotizza e soffoca a causa della creazione costruzione di sistemi di strutture di controllo verticale che ne farebbe organismi di costruzione del consenso e di trasmissione di parole d'ordine e scelte dall'alto verso il basso. Talora sorge dal potere una classe imprenditoriale “spuria”, legata a doppio filo al partito e agli organi dello Stato, incapace di gestire le risorse efficientemente e che sopravvive in modo parassitario grazie all’intreccio con le istituzioni e le strutture politiche. A questo punto è inevitabile che sorgano manifestazioni di disagio e di protesta, alle quali si risponde con la repressione e la censura. Nel caso del Venezuela e del Nicaragua questo schema ha dato luogo a migrazioni di grandi masse di popolazione che i paesi vicini non erano preparati ad affrontare: alcuni milioni nel caso del Venezuela soprattutto verso Colombia, Perù, Ecuador e Brasile, decine di migliaia nel caso del Nicaragua in gran parte verso il Costarica. A ciò si aggiunge l'instabilità economica e finanziaria subregionale e la possibilità che una situazione di permanente tensione possa favorire l'infiltrazione e la circolazione della grande criminalità del traffico di droga e armi. Sarebbe quindi riduttivo interpretare come semplice “servilismo” verso gli Stati Uniti la posizione dei paesi del Gruppo di Lima (Argentina, Brasile, Paraguay, Cile, Canada, Colombia, Costarica, Guatemala, Honduras, Panama e Perù), in contrapposizione frontale rispetto al governo di Caracas ma anche molto critici verso Ortega soprattutto sul tema dei diritti umani (nel caso del Nicaragua al gruppo si è aggiunto l’Ecuador).
Le caratteristiche del processo sopra descritto non sono un’esclusiva di alcune esperienze di sinistra ed è bene ricordare che governi di sinistra in Argentina, Brasile, Uruguay, El Salvador, Cile non hanno conosciuto dinamiche di quel tipo. L’estensione del potere esecutivo sul legislativo e il giudiziario, il tentativo di introdurre nelle costituzioni nazionali la possibilità di rielezione, la costruzione di gerarchie familiari e “dinastiche”, la repressione di movimenti di piazza e gravi violazioni dei diritti umani si verificano anche i paesi retti da governi d’ogni colore. Ma nei casi di cui stiamo parlando queste pratiche tendono a divenire sistema e si accompagnano a forme di repressione della critica e del controllo da parte dei mass media che in genere portano il governo a trasformarsi in regime.
Nel gennaio 2019 l’Internazionale Socialista, riunita a Santo Domingo, ha espulso il FSLN dalle sue file. Una notizia che non ha avuto eco sui grandi organi d’informazione ma che ha un forte valore storico per chi ricorda come fosse stata proprio l’Internazionale Socialista di Mitterand, Brandt e González ad aprire le porte al FSLN come parte di una generale apertura verso i movimenti di liberazione attivi in tanti paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. L’espulsione del partito sandinista è stata decisa “a causa della violazione dei diritti umani e dei valori democratici”.
Gli Stati Uniti contro Ortega: ma non c’è più la Guerra Fredda
Negli Stati Uniti, repubblicani e democratici sono entrambi schierati a favore delle sanzioni finanziarie contro i governanti di Managua: una situazione ben diversa dagli anni Ottanta, quando la strategia di Reagan di appoggio politico-militare ai Contras anti sandinisti era apertamente osteggiata dai democratici e da larghe fette della società statunitense. E quelli erano gli anni della Guerra Fredda, in una regione in cui altri due paesi, El Salvador e Guatemala, vivevano guerre civili che avevano il sostegno politico e in alcuni casi logistico del governo di Managua. (È comunque da sottolineare come i democratici non seguano Trump nella minaccia dell’uso della forza militare, che costituirebbe una tragedia per l’intero continente con conseguenze enormi e probabilmente non inimmaginabili in tutta la loro portata.)
Naturalmente nella scelta anti-orteghista di Trump (che si affianca a quella anti-Maduro e di raffreddamento delle relazioni con Cuba) gioca un ruolo rilevante in vista la prospettiva delle elezioni presidenziali del novembre 2020 per il peso elettorale delle comunità latinoamericane, molto sensibili alle violazioni dei diritti umani e alla mancanza di trasparenza nei processi elettorali in paesi in cui forze di quella che alcuni chiamano la “sinistra autoritaria” sono al potere. Da questo punto di vista, una lettura che si concentri su vocazioni imperiali, interessi egemonici ed economici, opposizione all’inclusione sociale e al protagonismo popolare, rischia di ricorrere a schemi interpretativi per lo più obsoleti, che non tengono conto di un quadro internazionale molto diverso da quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: oggi le economie sono molto più integrate fra loro, in America latina e nei Caraibi esistono molteplici spazi di dialogo e concertazione inter-statale, e soprattutto non esiste più, come abbiamo già ricordato, la contrapposizione frontale fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Secondo alcuni analisti, il vero scontro di interessi in America latina non è oggi fra gli Stati Uniti e la Russia di Putin (che comunque si presenta come grande amica dei governi di Cuba, Venezuela, Nicaragua e Bolivia) quanto fra gli USA di Trump e la Cina: basti pensare che nel 2010 le due principali banche cinesi avevano firmato prestiti in America Latina per un ammontare superiore a Banca Mondiale, Banca Interamericana di Sviluppo e Stati Uniti messi insieme, entrando a “fare affari” in molti paesi del continente.
Intanto, a sinistra…
Una delle caratteristiche del FSLN di Ortega-Murillo è quella di concepire il confronto politico esclusivamente secondo una dialettica politica amico-nemico. Questa visione non è di oggi, non è legata (come causa secondo alcuni, come effetto secondo altri) esclusivamente alle mobilitazioni popolari del 2018, ma ha radici profonde nella storia e nell’ideologia di tante forze della sinistra latinoamericana. Dinanzi a quel che avviene in Nicaragua - e che in buona parte segue il modello qui sopra descritto - manca una riflessione profonda nella sinistra latinoamericana, ivi comprese le sue componenti più vicine a un'idea liberaldemocratica dello Stato e del pluralismo politico e sociale come il PT brasiliano, il Partito Socialista cileno, gran parte delle forze raggruppate nel Fronte Ampio uruguaiano, settori del peronismo "kirchnerista" eil nuovo partito del presidente messicano López Obrador, MORENA. Di fronte alle svolte autoritarie di governi di sinistra, le pur diverse forze di sinistra latinoamericane hanno per lungo tempo scelto di tacere, rifiutandosi di parlarne negli spazi internazionali di confronto, primi fra tutti il Forum di Sao Paulo e l'Internazionale Socialista. Ci sono settori di queste forze che il problema se lo sono posto e lo pongono all’interno e all’esterno dei loro partiti, ma è una riflessione che non ha ancora raggiunto le dimensioni che meriterebbe, mentre sono state numerose, soprattutto nei primi mesi della rivolta, le prese di posizione a favore del governo Ortega-Murillo.
Qualcuno propone un parallelo piuttosto sgradevole con il fenomeno della copertura della pedofilia da parte delle gerarchie cattoliche: silenzio e non affrontare il problema.
Eppure non è difficile cogliere nello spostamento elettorale verso destra in quasi tutti i paesi latinoamericani (con l’importante eccezione del Messico) anche ragioni che rimandano all’immagine che di sé la sinistra ha dato per quanto riguarda la concezione del potere.
Al di là della impellente necessità di una soluzione negoziata e pacifica fra il governo e le forze di opposizione che porti al consolidamento della democrazia, il caso del Nicaragua pone in primo piano il bisogno di un ripensamento radicale all'interno delle forze di sinistra per quanto riguarda il rapporto fra trasformazione sociale e rispetto delle istituzioni e dei modelli democratici, la cui conquista o il cui ristabilimento è costato nei decenni passati un prezzo molto alto ai popoli dell'America Latina e allo stesso popolo nicaraguense che abbatté la dittatura della dinastia Somoza. Se non si assumono stabilità democratica, limpidezza dei processi elettorali, riconoscimento della legittimità del dissenso e dell'opposizione organizzata, trasparenza delle istituzioni come condizioni fondanti della politica e non come mere opzioni tattiche, il rischio di cadere nell'autoritarismo e nella gestione del potere per il potere diviene molto forte. L'idea che per un po' più di inclusione sociale si possa rinunciare a forme e a strumenti della democrazia liberale continua a non reggere alla prova dei fatti.