Articolo di Fabio Nicolucci

Dinamiche politiche nel levante

Il momentaneo arretramento del jihadismo

La momentanea sconfitta del progetto jihadista globale (prima Al Qa’ida e poi Isis) nel Levante, ha cambiato le dinamiche politiche e sociali nella regione.

Negli anni 2000-2004 (con Al Qa’ida) e poi 2007-2018 (con l’Isis) la forza politica e la presenza di queste due organizzazioni ha fatto sì che la dialettica intracomunitaria fosse imperniata sulla weltanschauung del jihadismo globale come progetto politico: una lotta “difensiva” contro i non mussulmani (che nella declinazione dell’Isis aveva preso connotazioni settarie come lotta allo sciismo) con un focus sul territorio “dar al-Islam” (casa dell’Islam come contrapposta a “dar al-Harb”, territorio dei non mussulmani).

Al Qa’ida interpretava questa lotta in modo più globale (lotta al “nemico lontano”, cioè gli infedeli) rispetto all’Isis (lotta al “nemico vicino” cioè gli apostati, perché più vicino all’Islam delle origini), ma l’obiettivo era sempre contro il “non mussulmano” (non sunnita) e il focus sempre il territorio. Con l’Isis il focus era addirittura in primo luogo il territorio che tornava Califfato e si faceva Stato.

Con il ricentrarsi di questi progetti in altre regioni (specificamente il Sahel e l’Asia), nel Levante la dinamica sociale riapre la dialettica intracomunitaria. Anche perché l’islam politico ritorna per il momento all’islamismo “socio rivoluzionario” che, prima dell’arrivo di Al-Qa’ida alla fine anni ’90, negli anni ’70 – inizio ’90 (cfr Algeria) aveva come nemico il governo o il regime mussulmano che mal governava.

Oggi le pressioni sociali del Levante non hanno – per fortuna – più aperta la via del jihad globale per esprimersi: questo rimane invece un problema dei processi di radicalizzazione in occidente, dove basta un franchising senza progetto e senza territorio per rivendicazoni identitarie frustrate. Il suo momentaneo arretramento lascia cosi lo spazio per far rivenire alla luce la frustrazione e la rabbia delle generazioni più giovani per la mancanza di rappresentanza che si era espressa nelle cosiddette “primavere arabe” (2010-2012) contro i regimi arabi autoritari delle “mamlukie” (crasi tra “Mamlaka” - in arabo regno - e “Jumhuria” in arabo Repubblica, per segnalare la peculiarità di repubbliche “ereditarie”),che poi era rifluita in parte verso il progetto jihadista e in parte si era carsicamente reimmersa.

I due fattori – progetto politico jihadista globale e rivendicazioni (giuste o sbagliate) di diversa rappresentanza nella dimensione nazionale sono infatti inversamente proporzionali. Più avanza l’una, più regredisce l’altra, e viceversa. (cfr risposta di Osama Bin Laden alla lettera della figlia Sumayya sulla “primavera araba” e sulla posizione sull’intervento occidentale in Libia, Abottabad papers released by Office of the Director of National Intelligence)

Moti nel Levante

In Libano e in Iraq, in parte anche in Giordania, con la possibile estensione alla Striscia di Gaza e Cisgiordania se dovessero allentarsi le pressioni esterne del “nemico” israeliano, si assiste dunque al “ritorno a casa” della dialettica sociale e politica.

La controparte ridiviene il governo o più esattamente il “potere”, con domande di rappresentanza che tendono per loro stessa natura a trascendere la rappresentanza settaria, che è figlia dell’assetto precedente. Cio è particolarmente visibile in Libano e in Iraq, dove la questione delle minoranze ingessa tutto il sistema politico.

Gli esiti non sono prevedibili, né tantomeno è possibile prevedere un loro successo nella “pars destruens” (soprattutto in Libano, meno in Iraq) che dipende anche dalle forze interne disposte a volgersi al cambiamento, così come a quelle esterne – comunità internazionale, attori nella e della regione – ad accompagnare questo percorso evitando torsioni militaristiche dall’esterno che aiutino a soffocare questo nuovo nazionalismo generazionale. Per questo incardinare il lavoro per un nuovo medioriente come “lotta all’Iran” – che è comunque attore regionale – rischia di essere non solo velleitario ma anche controproducente, anche per l’esito delle stesse forze riformiste iraniane.

La dialettica vecchio-nuovo è tra militari versus civili

Per quanto riguarda invece gli Stati arabi, invece, dovessero tali dinamiche volte all’interno proseguire e acquistare slancio, è possibile che la dialettica tra vecchio e nuovo – proprio per la  temporanea sconfitta e relativa debolezza attuale del progetto jihadista globale – acquisti la forma non tanto del confronto laici-islamisti (visione preordinata cara agli occidentali) quanto quella di militari versus civili (come è già in Egitto, in Algeria, e come sta diventando in Libia nonostante l’uso strumentale di Haftar della cosiddetta “lotta al terrorismo” islamista).