Articolo di Filippo di Robilant

Birmania, il tigrotto asiatico che non vuole crescere

Se è vero che il Secolo XXI si avvia a diventare il secolo asiatico, come indicano alcuni autorevoli politologi, quale sarà il ruolo della Birmania? Beneficerà dei frutti prodotti da questo status geopolitico che si profila all’orizzonte o ne sarà tagliata fuori?

Dopo la Rivoluzione di Zafferano del settembre 2007 - quando il mondo intero si è fermato, ma solo per un attimo, incantato dalla dignità di una rivoluzione di matrice spirituale - la tragedia birmana è ripiombata nell’indifferenza generale. Un’indifferenza scossa solo in parte nel 2018 con la pubblicazione del Rapporto Onu sulle violazioni dei diritti umani in Myanmar. Nel 2007, quando i monaci buddisti rivoltavano in silenzio la ciotola delle offerte davanti alle case dei generali, la Birmania aveva una delle società spiritualmente più vibranti al mondo ma politicamente tra le più depauperate. Cinquanta milioni di persone che “vivevano come prigionieri nel loro stesso paese” diceva allora Aung San Suu Kyi. In questi tredici anni quali passi avanti ci sono stati dal punto di vista politico, economico e sociale?birmania_-dirobilant_2_0.jpg

Visitai Aung San Suu Kyi nel 1996 quando era agli arresti domiciliari nella sua dimora di famiglia a Rangoon, al mitico indirizzo 54 University Avenue Road, ai bordi del lago Inya. Il contesto era una missione dell’allora Commissario europeo per gli aiuti umanitari d’urgenza, Emma Bonino, nelle townships attorno a Yangon, dove l’Unione europea finanziava programmi di sostegno alle popolazioni locali, soprattutto mirati alle donne, in un momento in cui il paese era gravemente colpito dall’epidemia di Aids. Ai rappresentanti dei governi stranieri era severamente vietato incontrare The Lady ma Emma Bonino non intendeva lasciare il paese senza averla vista o, per lo meno, senza avere raccolto da lei direttamente un messaggio da far risuonare in Europa e nel mondo. Fu allora congegnato un piano in base al quale mi fu chiesto, come portavoce della Commissione europea, di organizzare un incontro facendo passare un gruppo di giornalisti stranieri per rappresentanti di organizzazioni non governative. Per ridurre il rischio si decise di portare solo un paio di macchine fotografiche ma nessuna telecamera. Lo stratagemma funzionò e i giornalisti poterono intervistare Suu Kyi che si pronunciò lì per lì d’accordo con il nostro piano a patto che foto e articoli uscissero dopo la nostra partenza. Per maggiore sicurezza, al momento di fare le valigie e in previsione dei controlli in aeroporto nascondemmo i rullini nei bigodini che Emma Bonino aveva giudiziosamente portato con sé.

La giunta militare aveva concesso a Suu Kyi, come unica eccezione al suo regime di detenzione, il permesso di recarsi alla residenza della legazione francese. A quell’epoca la Francia aveva con Total il maggiore investimento straniero in Birmania, un oleodotto da 400 milioni di dollari in partnership con l’americana Unocal. Chi avrebbe incontrato alla residenza ricadeva sotto la responsabilità dell’ambasciatore francese, il quale se la assunse organizzando un pranzo ristretto in onore di Emma Bonino che ebbe, finalmente, la possibilità d’incontrare Suu Kyi di persona e di confrontarsi con lei sui problemi che attanagliavano il paese, ma anche sulla questione diritti umani più in generale. Emma Bonino le parlò della crisi balcanica e di quella dei Grandi Laghi in Africa, entrambe allora in corso, e della pulizia etnica nell’ex Jugoslavia come pure del genocidio dei tutsi da parte degli hutu in Burundi e Ruanda. Da parte di Suu Kyi non ci furono commenti, né domande. Mi apparve allora chiaro quanto fosse esclusivamente concentrata sulla tragedia del suo paese e che a motivarla era un nazionalismo molto radicato. Un nazionalismo nato nel mito del padre, Generale Aung San, il carismatico eroe nazionale e fondatore del Tatmadaw, l’esercito birmano, e cresciuto all’ombra della cultura dominante bamar.

Per questo occorre partire dalla fine dell’era coloniale britannica per tentare di comprendere la situazione di oggi, da quel Trattato di Panglong negoziato dal padre con tre gruppi tribali (Kachin, Chin e Shan) e firmato il 12 febbraio 1947. Il Trattato prevedeva per il paese un assetto federale e addirittura auspicava la nascita di uno Stato Kachin, impegni poi disattesi dai governi provvisori del nuovo Stato indipendente nato nel 1948 e subito destabilizzato da insurrezioni comuniste, ribellioni etniche, interferenze cinesi e difficili condizioni economiche, che sono continuate con varia intensità fino al colpo di stato del 1962 e al governo militare guidato da Ne Win. Nel 1988, dopo la caduta di Ne Win e ventisei anni d’infausta “via birmana al socialismo”, con un paese ricco di risorse naturali saccheggiato e diventato uno dei più poveri al mondo, si è avviata una lunga e difficile transizione verso un sistema democratico, transizione drammaticamente in corso ancora oggi.

La vera “questione birmana” è sempre stata, e rimane, l’assenza di una struttura federale che possa mettere fine al circolo vizioso della guerriglia etnica e della cruenta repressione da parte del Tatmadaw, e stabilire per l’avvenire un modus vivendi se non armonioso almeno sostenibile e duraturo. Sempre nella stessa missione Ue del 1996, da Changmai, con degli elicotteri messi a disposizione dalle autorità thailandesi, andammo, in una giornata molto piovosa, a vedere con i nostri occhi la popolazione Karen in fuga nelle foreste oltre confine. Anche per chi era abituato a ispezionare campi profughi a ogni latitudine del pianeta, la scena che si presentava era impressionante, con condizioni di vita al limite della sopravvivenza.

Questa è la principale angolazione da cui guardare alle elezioni legislative che si sono svolte l’8 novembre scorso. La grande incognita era il voto delle minoranze etniche. Nel 2015 il partito di Aung San Suu Kyi, la “Lega Nazionale per la Democrazia” (NLD), ha ottenuto una vittoria schiacciante, conquistando due terzi dei seggi. Cinque anni dopo si è votato per rinnovare 500 dei 664 seggi delle due camere del Parlamento. La NDL ha rivendicato la vittoria a spoglio in corso confermando che il Premio Nobel per la pace avrà pure perso parte della sua popolarità all'estero ma non tra la maggioranza della popolazione birmanaUna ricerca condotta nel 2020 da un watchdog indipendente, People’s Alliance for Credible Elections, ha registrato che il 79% della popolazione continua ad avere fiducia in ASSK. Una maggioranza che deve comunque fare i conti con il potere di veto dell’esercito, cui la Costituzione riserva il 25% dei seggi. La vittoria della NLD è passata tra accuse di brogli provenienti da più parti, incluso dai vertici dell’esercito, ma il punto è sapere quanti degli elettori hanno conferito il loro voto ai partiti locali che li rappresentano.

Finora gli esiti del processo di pacificazione messi in campo da Suu Kyi sono stati scarsi. Molte minoranze – ufficialmente esistono 135 gruppi etnici nel paese, ognuno dei quali rivendica maggiore riconoscimento e più diritti - non sono considerate come autoctone e i loro appartenenti trattati alla stregua di “immigrati illegali” in base alla Citizenship Law del 1982. In quest'ultima tornata elettorale, tanto per fornire un esempio emblematico, con la scusa di una paventata mancanza di sicurezza le elezioni sono state annullate in 51 collegi elettorali, lasciando senza diritto di voto, su di un totale di circa 38 milioni di elettori, più di un milione e mezzo di persone, la stragrande maggioranza abitanti nelle aree dove opera l’Arakan Army, esercito indipendentista dello Stato di Rakhine (o Arakan), che ospitano anche il popolo perseguitato dei musulmani Rohingya che, agli occhi della capitale Naypyidaw, costituisce una minaccia demografica, oltre che terroristica.

Sarebbe un errore, tuttavia, dipingere le minoranze etniche unicamente come una massa di guerriglieri. Tra di loro ci sono molte persone istruite, capaci e politicamente attrezzate. Difatti, ben pochi dubitano sui motivi della decisione di non far tornare alle urne nemmeno le zone pacifiche del Rakhine dove la volta scorsa vinse ovunque a grande maggioranza il partito regionale autonomista. È successo anche in altri Stati con tendenze separatiste analoghe, come in Kachin e parti dello Shan. Il rischio di questa nuova emarginazione è di ottenere più divisioni e più violenze, poiché un processo elettorale free and fair alle minoranze non sembra applicarsi, come segnalato da Richard Horsey, analista dell’International Crisis Group basato a Yangon.

Costretta a fuggire verso quella che i persecutori ritengono sia la sua terra d’origine, il Bangladesh, la minoranza etnica musulmana dei Rohingya è protagonista di una delle crisi umanitarie più ampie dei nostri tempi. Solo in anni recenti la persecuzione ha attirato forti critiche internazionali su Aung San Suu Kyi e il suo partito. Nel settembre 2018 una commissione internazionale indipendente per il Myanmar, su mandato del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, ha pubblicato il proprio rapporto, le cui conclusioni sono pesantissime. Prendendo in esame la situazione del paese dal 2011 in poi, la commissione ha segnalato sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale in particolare negli Stati del Kachin, Rakhine e Shan. Le violazioni sono state compiute dalle forze di sicurezza del Myanmar, specialmente dal Tatmadaw. Le loro operazioni erano basate su metodi, tattiche e comportamenti contrari al diritto internazionale, incluse deliberate violenze mirate ai civili. Il rapporto rileva una cultura dell’impunità molto pervasiva a livello nazionale e formula raccomandazioni concrete al riguardo, a cominciare dalla richiesta di fornire indicazione dei nomi degli alti ufficiali delle forze armate del Myanmar coinvolti, allo scopo di mandarli a processo in un tribunale internazionale per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Un anno dopo, nell’ottobre 2019, il presidente della commissione Marzuki Darusman, ex Ministro della Giustizia indonesiano, ha dichiarato all’Assemblea Generale dell’Onu che il Myanmar continuava a essere inadempiente, in violazione della Convenzione sul Genocidio, nel prevenire, indagare e attuare leggi adeguate per criminalizzare e punire atti di genocidio. I dati raccolti dalla commissione dimostravano che gli individui a capo delle brutali clearance operations, le operazioni di pulizia etnica avvenute nel 2016 e 2017, non erano stati rimossi e che le politiche repressive continuavano indisturbate. Secondo Darusman questo stato di cose “conferma le nostre conclusioni precedenti riguardo al fatto che il ciclo d’impunità permette, e anzi alimenta, comportamenti riprovevoli da parte delle forze di sicurezza”. Più precisamente, il presidente della commissione d’inchiesta denunciava la perdurante persecuzione dei Rohingya nonostante gli appelli della comunità internazionale. Il trattamento subìto da circa 600 mila Rohingya nello stato di Rakhine rimaneva sostanzialmente immutato: discriminazioni, segregazione, limitazione negli spostamenti, mancanza di sicurezza, inadeguato accesso a mezzi di sostentamento, assenza di servizi di base, incluse istruzione e assistenza sanitaria, nessuna giustizia per i crimini subiti da parte del Tatmadaw.

L’11 dicembre 2019, Aung San Suu Kyi, ricoprendo il ruolo di Ministro degli Esteri del Myanmar oltre che quello di Consigliere di Stato, ha difeso - secondo alcuni detrattori una difesa a spada tratta più che una difesa d’ufficio - le misure prese dal suo governo contro la minoranza musulmana dei Rohingya durante un’udienza alla Corte internazionale di giustizia. La Corte aveva deciso di esaminare il caso dopo che un rapporto sulle violenze commesse dal governo del Myanmar era stato presentato dal Gambia, paese africano a maggioranza musulmana. Suu Kyi ha definito le accuse di genocidio rivolte al governo birmano come “un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine”, precisando che gli interventi dell’esercito birmano erano stati una risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya: “Abbiamo a che fare con un conflitto armato interno, iniziato da attacchi coordinati dall’esercito per la salvezza dei Rohingya nel Rakhine, contro i quali le forze di difesa del Myanmar hanno risposto”. Poi ha aggiunto, quasi en passant, come non si possa escludere “che ci sia stata una risposta sproporzionata da parte dei membri dell’esercito e che ci siano state in alcuni casi violazioni del diritto internazionale umanitario”.

Alla luce di queste denunce e della presa di posizione del Myanmar alla Corte dell’Aja, l’Assemblea Generale dell’Onu non poteva sottrarsi dall’adottare una risoluzione di condanna per abuso dei diritti umani: arresti arbitrari, torture, stupri di massa ai danni dei Rohingya e di altre minoranze. Cosa che è avvenuta il 28 dicembre 2019 con 134 voti a favore su 193, 9 contrari e 28 astenuti. A difesa dei Rohingya sono poi scesi in campo numerosi paesi e leader politici, istituzioni e organizzazioni internazionali, dalla Corte penale internazionale al Parlamento europeo che, con varie risoluzioni, ha preso posizione contro le persecuzioni e ha chiesto misure urgenti per contrastare qualsiasi forma d’incitamento all’odio contro le minoranze.

“Madre Suu”, l’icona dei diritti umani e della nonviolenza idolatrata dall’Occidente, è caduta nella polvere e l’aureola da santa che per anni le ha circondato il capo è di colpo svanita. I suoi sostenitori, di fronte alle critiche, dichiarano che lei è “il male minore” e ammoniscono che dopo di lei c’è solo il ritorno dei militari. I bamar, tra i quali solo una piccola minoranza critica le violazioni dei diritti umani come nel caso dei Rohingya, sono convinti che Suu Kyi abbia fatto del suo meglio per far avanzare i colloqui di pace tra l'esercito e i gruppi armati etnici; e poiché la propaganda nazionale anti-minoranze funziona a dovere, il processo in corso all’Aja non ha, per ora, un forte potere di condizionamento a livello domestico. Come ha giustamente spiegato l’inviato di Repubblica Raimondo Bultrini, attento osservatore della Birmania e dell’Asia in generale, le elezioni di novembre probabilmente non cambieranno il corso immediato della storia sul quale pesano due grandi incognite.

La prima è l'assenza da qui al 2025 di un’alternativa credibile alla leadership della 75enne Suu Kyi nel partito e nel governo, nonostante la partecipazione di 91 formazioni politiche alle ultime elezioni; la seconda è l'imprevedibile comportamento dell'esercito se la NLD insisterà nel voler sottoporre al Parlamento – rinvigorito dalla sua riconferma – proposte di riforma costituzionale, scenario poco plausibile tenuto conto che la riforma principe della NLD prospettata in campagna elettorale è proprio quella di allontanare i militari dalla politica. La prospettiva più verosimile rimane quindi quella di un nuovo accordo di power sharing con i militari per non frantumare l'"unità nazionale" che resta la priorità di entrambi.

L'armonia e la riconciliazione invocate da Suu Kyi dipenderanno tuttavia da parecchi fattori, e non solo dal corso della pandemia che per ora non accenna a recedere. C’è da domandarsi, ad esempio, se la nuova amministrazione americana deciderà di chiedere conto alla Birmania delle violazioni dei diritti umani. È una mossa che rischia di spingere la Birmania di nuovo e sempre più apertamente nelle braccia della Cina, suo partner economico e politico numero uno. Un banco di prova notevole per la NLD che deve ancora dimostrare quanto sia genuinamente impegnata a sostegno della democrazia e dello stato di diritto, e a governare non nell’esclusivo interesse della maggioranza della popolazione bamar.

Su una situazione già così critica incombe la diffusione del Covid-19 che ufficialmente ha colpito sessantamila abitanti. Nonostante la paura del contagio, in una città come Yangon, che contribuisce da sola a un quarto del Pil del Paese, dopo sei mesi di stay-at-home orders la situazione economica, già precaria prima della pandemia, è sull’orlo del collasso, con la maggior parte delle aziende chiuse per il contenimento del virus. Le conseguenze si sentiranno per i prossimi anni e ne saranno colpite soprattutto le classi più deboli. L’OMS, l’ultima volta che ha pubblicato un global index, nel 2000, ha classificato il sistema sanitario del Myanmar come il peggiore del mondo. In base ai dati della Banca Mondiale, nel decennio successivo la giunta militare ha destinato in media meno del 2% del Pil l’anno per il sistema sanitario. La percentuale ha cominciato a crescere solo dopo il 2011, quando è iniziata la transizione verso un sistema politico più aperto. Il Myanmar continua a essere un paese dai primati negativi, come quello di non aver aderito al Trattato sulla messa al bando delle mine antiuomo. Nel settembre 2016, il governo ha informato il Parlamento che l’esercito continuava a utilizzare mine antiuomo nel conflitto armato interno e ha ammesso che le forze governative usavano mine antiuomo per proteggere fabbriche, ponti e torri statali e i suoi avamposti nelle operazioni militari. Secondo testimonianze oculari, prove fotografiche e rapporti multipli, mine antiuomo sono state gettate tra i due principali incroci di terra del Myanmar con il Bangladesh, causando vittime tra i rifugiati Rohingya in fuga dagli attacchi del governo. Il Myanmar è anche uno dei paesi più poveri della regione. La proiezione del Myanmar Economic Monitor della Banca Mondiale dava un 6,8% di crescita economica per il 2018-2019, mentre la stima per il 2019-2020 scende allo 0,5%.

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Nell’estate del 1996, a Rangoon, avevo scattato una foto di Dawn Suu Kyi circondata dal suo piccolo staff, nel portico di fronte all’entrata di casa. Diciassette anni dopo a Roma, dove era venuta su invito di Emma Bonino, in quel momento Ministro degli Affari Esteri, l’ho rivista, finalmente libera, e ho potuto consegnarle la foto. Sì libera, ma appesantita dal fardello di guidare un paese meraviglioso denso di sfide e di contraddizioni. Il Myanmar ha già mancato l’appuntamento con la globalizzazione: in un’epoca in cui emergevano le “tigri asiatiche” e le moltitudini di consumatori asiatici facevano incetta di telefonini, microonde e videoregistratori, in Birmania era illegale possedere un fax, chi proponeva riforme costituzionali rischiava vent’anni di galera e bambini-schiavi erano sfruttati in cantieri improvvisati.

Ancora oggi l’economia birmana è stagnante, le diseguaglianze tra ricchi e poveri sono abissali, le tensioni etniche lontane dall’essere placate, nelle carceri ci sono più di seicento prigionieri politici, la libertà di stampa è perennemente sotto minaccia con arresti arbitrari di giornalisti. Le interferenze poco benevole della Cina, che continua ad avere piani controversi riguardo a infrastrutture e mega progetti, in particolare legati alla sua Belt and Road Initiative, completano un quadro poco promettente.

La lunga luna di miele tra la comunità internazionale e Aung San Suu Kyi è agli sgoccioli, se non conclusa. La altrettanto lunga transizione dai regimi militari alla democrazia deve trovare uno sbocco diverso da quanto finora ottenuto. La Birmania, che agli inizi della transizione era chiamata il “tigrotto asiatico”, deve dimostrare di voler crescere in un mondo dalle grandi trasformazioni.

Filippo di Robilant è Presidente della Fondazione per i Collegi del Mondo Unito e Membro del Comitato Scientifico del CeSPI