Italia-Europa: rischio o opportunità?

di 
Piero Fassino

L’atteggiamento conflittuale che caratterizza il rapporto tra Italia e Unione Europea suscita non poche inquietudini e interrogativi.

Per mettere in discussione il rapporto tra Italia e Europa si invoca l’immigrazione, reiterando ogni giorno l’accusa all’Unione europea di “lasciare sola l’Italia”. Un’affermazione ambigua che richiede di dire con chiarezza “chi” in Europa lascia sola l’Italia. Non è la Commissione guidata dal Presidente Juncker a fare ostacolo alla redistribuzione di migranti, per la cui attuazione anzi la Commissione - su mandato adottato nel 2015 dal Consiglio Europeo - ha predisposto un piano vincolante con quote per ogni Paese. La resistenza viene dagli Stati nazionali, sia dai Paesi che pur accogliendo contingenti di migranti tendono a contenerne la quantità, sia da chi - in primis i Paesi di Visegrad - si oppongono alla redistribuzione, nonostante la Corte europea di Giustizia abbia respinto il loro ricorso e la Commissione abbia aperto formale procedura di infrazione. Così come non è il Parlamento Europeo a fare ostacoli alla revisione del Regolamento di Dublino, quando anzi l’Assemblea di Strasburgo ha approvato a larghissima maggioranza una proposta di revisione che corrisponde in larga parte ai cambiamenti che i premier italiani - prima Renzi, poi Gentiloni e da ultimo Conte -  hanno più volte sollecitato. E sono stati i Ministri della Difesa - cioè rappresentanti di governi - a opporsi finora alla ridefinizione della missione Sofia. Non è dunque l’Unione Europea il nostro problema, ma il vento sovranista che spira in Europa, alimentando in molte capitali l’illusione che erigere barriere, muri, dogane e frontiere renderebbe ogni Paese più sicuro. 

Chi lascia sola Roma, non è Bruxelles, ma sono Budapest, Varsavia, Praga, Bratislava, Vienna, Monaco di Baviera e le altre capitali dove siedono quei governi che a giugno, a conclusione del Consiglio europeo dedicato ai temi migratori, hanno imposto una dichiarazione finale equivoca e generica nella quale si afferma che nulla potrà essere attuato senza il consenso volontario degli Stati membri. Il che, come si è visto, equivale a un no a una assunzione di responsabilità comune nella gestione dei flussi migratori. E in testa nel dire no ci sono quei Paesi con cui si immaginano alleanze improbabili per il nostro Paese. Quando invece l’interesse strategico dell’Italia - in coerenza con tutta la sua storia di nazione fondatrice dell’UE - è essere, insieme a Germania e Francia, nella cabina di regia del processo di integrazione, tanto più di fronte a nodi - Brexit, la riforma dell’eurozona, la stabilità del Mediterraneo e il rapporto con l’Africa, il dossier iraniano, la politica di difesa e sicurezza comune, il prossimo bilancio comunitario, l’adesione dei Balcani - che tutti richiedono una UE più forte e coesa.

Stando così le cose, appare del tutto priva di senso anche la minaccia di far venir meno il contributo italiano al bilancio comunitario. Una misura che penalizzerebbe proprio l’UE e le sue istituzioni e non i Paesi che si sottraggono a una gestione comune dei flussi migratori. Quando invece è corretto pretendere che nella erogazione di risorse del bilancio comunitario ai diversi Paesi si tenga conto di chi dei migranti si fa carico e si penalizzi chi si sottrae. Insomma: demolire ogni giorno l’Unione Europea nell’immagine e nella consapevolezza degli italiani è esattamente l’opposto di quel che dovrebbe fare l’Italia per evitare l’isolamento a cui è esposta. Continuare a far credere che dall’essere parte dell’Unione Europea il nostro Paese ricavi soltanto costi e vincoli é una distorsione della realtà. Senza il mercato comune europeo creato con i Trattati di Roma, l’Italia non avrebbe conosciuto il boom economico che l’ha affermata come paese industriale del G7. Senza i parametri di Maastricht deficit e debito pubblico sarebbe esplosi travolgendo l’economia del Paese. Senza l’adesione all’euro, la debolezza della lira sarebbe divenuta via via più critica, esposta a continue svalutazioni e attacchi speculativi, con conseguente perdita di valore dei redditi e dei risparmi delle famiglie italiane. Senza i fondi europei molte aree del nostro Paese non avrebbero avuto investimenti strategici per la crescita. Ricordare tutto questo non significa che l’UE vada bene così com’è. Molte cose devono essere cambiate. Ma si contribuisce a cambiarla in meglio se si sta convintamente dentro e non se ci si tira fuori. Mentre continuare nella contestazione dell’Unione a vantaggio di una esaltazione delle sovranità statali non potrà che condurre sempre di più al prevalere degli egoismi nazionali a tutto detrimento della capacità europea di dare soluzioni comuni a problemi comuni. E da un tale scenario l'Italia ricaverebbe soltanto  ulteriore solitudine e debolezza.