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Economia

Da Jeremy Corbyn a Keir Starmer, la svolta riformista del partito laburista

18 Dicembre 2023
Mario Massungo

All’inizio Keir Starmer si era presentato quasi come un Corbyinista, del cui governo ombra era stato ministro per la Brexit, quando ha vinto per un pelo il congresso del Labour nel 2020 col 56% dei voti. Sembrava dover essere sostanzialmente un Jeremy Corbyn in giacca e cravatta, senza l'ossessione per l'IRA o la Palestina, ma alla fine si è rivelato tutt’altro.  Sessantenne figlio di una famiglia così laburista da dargli il nome del fondatore del Labour, Keir Hardie, carriera come avvocato e procuratore a Londra, entrato in politica nel 2015 e segretario da 4 anni. Ma una volta eletto ha messo in pratica una radicale svolta riformista del Labour, il partito dei lavoratori fondato a fine ‘800 da un gruppo di associazioni e sindacati che si ispiravano alle teorie revisioniste di Bernstein. Un partito che resta inchiodato all’opposizione da oltre 13 anni a seguito di ben quattro sconfitte consecutive alle elezioni politiche (2010, 2015, 2017, 2019).  Fino alla sua elezione come leader nel 2020 Keir Starmer era stato considerato un esponente della ‘soft left’, la corrente centrale al partito laburista impersonata al meglio da esponenti come Ed Miliband, Neil Kinnock, Harriet Harman e associazioni come i Fabians, Labour Together e Progress. Esponenti per tutte le stagioni che infatti fecero parte dei governi ombra sia di Tony Blair e Gordon Brown che di Corbyn, come appunto lo stesso Starmer.  Ma una volta ottenuto il consenso dei militanti e dei parlamentari dopo le dimissioni di Corbyn, che aveva portato il Labour alla disastrosa sconfitta elettorale del 2019 contro Boris Johnson, Starmer ha cominciato a ricalibrare la linea politica del partito per intercettare il più ampio numero di cittadini e costruire una valida alternativa ai Tories alle elezioni politiche dell’anno prossimo.

Il Labour di Starmer parte da un cuore di proposte squisitamente progressiste – l’aumento del 5% dell’aliquota sui redditi più alti, il potenziamento della sanità pubblica, l’abolizione delle leggi restrittive degli scioperi, l’abolizione della Camera dei Lords, l’abolizione dei cavilli fiscali che consentono una tassazione di favore per i fondi di private equity – corredate da altre misure che richiamano il New Labour blairiano: politiche a sostegno della crescita e delle aziende, una politica estera a favore della Nato e di Israele, conti pubblici in ordine, tolleranza zero contro il crimine (rievocando il celebre slogan ‘tough on crime, tough on the causes of crime’, duri contro il crimine, duri contro le cause del crimine), una selezione meritocratica dei dirigenti basata sulla competenza. Insomma, un ritorno del tutto inaspettato di quella terza via riformista che Corbyn aveva cacciato dal Labour.

Oltre alle proposte, Keir Starmer sta promuovendo una nuova narrativa, non soltanto adottando parole come patriottismo, famiglia e forze armate – concetti storicamente abbastanza assenti dal lessico della sinistra inglese – ma anche tentando di riabilitare Tony Blair, una figura che rimane inviso agli ambienti più di sinistra che come al solito preferiscono dimenticare chi gli abbia condotti per ben tre volte consecutive alla vittoria (1997, 2002, 2007). Un processo facilitato dalla sonora sconfitta di Corbyn, che riempiva le piazze ma non le urne. Corbyn ha perso per via di un massimalismo staccato dalla realtà, una radicalità che ha spaventato il ceto medio e un programma troppo lungo, meno chiaro di quello conservatore, che prevedeva piani forse irrealizzabili se non con nuove tasse. Sulla Brexit Corbyn ha l‘imperdonabile colpa di non aver voluto difendere l’UE come progetto progressista, di aver provato a ignorare la questione Brexit con una politica di ‘ambiguità costruttiva’ per provare a tenere insieme, semplificando al massimo, sia i remainers di Londra che i leavers laburisti del Nord. Andava invece spiegato, specie al ceto medio impoverito del nord degradato e post-industriale, che la Brexit è un progetto regressivo che va contro i loro stessi interessi. Che con l’UE in UK ci sono maggiori vincoli in termini di diritti per i lavoratori, più fondi per combattere le disuguaglianze, l’accesso a un mercato più ampio con prospettive di maggiore prosperità per tutti. Che per rispondere ai loro bisogni occorre più Europa, non meno Europa. Queste cose vanno spiegate, difese, promosse, non ignorate. Il Labour di Corbyn invece si è vergognato dell’Europa, cercando di non parlarne ‘per non creare divisioni’. Rifiutandosi di affrontare di petto la questione ha creato un vuoto politico enorme che ha scontentato entrambi i fronti: il Labour ha perso terreno sia nei collegi pro-brexit che anti-brexit nel 2019, le ultime elezioni. Senza scelta di campo netta, gli elettori remainers sono rimasti a casa (in vari collegi vincono i Tories perché il Labour perde voti, non perché i Tories ne guadagnano) mentre i leavers si sono fidati dell’originale, ovvero di quella parte politica che predica la Brexit da decenni.

Per attuare questi cambiamenti Keir Starmer non si è fatto molti scrupoli, prima nel cambiare le regole interne riducendo il peso dei militanti a favore dei parlamentari (che tradizionalmente sono più riformisti della base in questi ultimi anni) e poi una volta ottenuto il controllo della direzione nazionale espellere Corbyn dal partito in reazione alle varie accuse di antisemitismo mosse contro il parlamentare di Islington (definitivamente espulso dal partito laburista  dopo essersi rifiutato di definire Hamas come un’organizzazione terroristica durante un’intervista TV, alla fine della quale Starmer ha detto che Corbyn non sarà ‘né deputato né candidato del partito laburista’). Manovre che sembrano estreme ma che sono le conseguenze dell’altissima litigiosità dietro le quinte tra correnti radicalmente diverse tra loro ma costrette a convivere nello stesso partito per via di una legge elettorale estremamente maggioritaria come quella britannica. Malgrado le accuse di essere il cavallo di Troia di Blair, gli sforzi di Keir Starmer stanno dando frutti: nel 2020 il Labour era 10 punti sotto i Conservatori nei sondaggi, oggi si trova quasi 20 punti sopra. Un risultato strabiliante che però è dovuto in larga parte alla gestione disastrosa dei Tories di questi ultimi anni, dalla irresolutezza della May agli scandali di Boris Johnson e la debacle di Lizz Truss, premier per 44 giorni, e infine il governo di Sunak, giovane Premier competente che però non piace alla maggioranza della base del partito, che alle ultime primarie gli ha preferito la Truss e che viene percepito come distante dalla gente comune.  

Il processo di riposizionamento di Starmer non è stato gratuito per Starmer, che ha dovuto rimangiarsi diverse promesse che aveva fatto durante la campagna congressuale esponendosi a dure critiche come quella del noto opinionista dell’ala massimalista del partito laburista Owen Jones: ‘durante il congresso Starmer ci aveva promesso corbynismo con più serietà, e invece ci ha dato il blairismo senza il carisma’.

Ma non sono tutte rose e fiori. Nel nuovo Labour si stanno delineando alcuni coni d’ombra. Il primo è il posizionamento sul tema dell’immigrazione che sta diventando sempre più restrittivo (anche se lontano anni luce dai Tories e dalle proposte illegali e reazionarie del Premier Sunak e dell’ex ministra degli Iterni Priti Patel, appena defenestrata, che ipotizza la deportazione immediata di tutti clandestini che attraversano illegalmente la Manica, inclusi i richiedenti di asilo; una legge bocciata pochi giorni fa dalla Corte Suprema in quanto violazione della Carta Europea dei diritti umani da cui i Tories adesso vorrebbero uscire). Anche Ed Miliband aveva tentato di ricalibrare il partito sul tema dell’immigrazione alle elezioni del 2015 promettendo di controllare i flussi di immigrati, ma fu molto criticato. Stavolta invece è indicativo come questo non sia avvenuto, forse il segnale di come il baricentro dell’elettorato si stia spostando su questi temi in tutta Europa, dalla Spagna all’Olanda. Il secondo è il posizionamento sull’Europa, dove si continua a registrare un silenzio assordante, in linea con il Labour di Corbyn. Ma mentre il primo lo faceva per convinzione, il secondo lo fa per opportunismo: per vincere le elezioni del 2024 sarà fondamentale per il Labour riconquistare i seggi nelle Midlands del cosiddetto ‘Red Wall’, ‘il muro rosso’, una cintura di collegi storicamente di sinistra nel nord post-industriale che nel 2016 votarono per la Brexit e nel 2019 per i Tories di Boris Johnson, voltando le spalle al partito che avevano sostenuto per decenni. Per questo motivo la causa europeista è stata appaltata ai Lib-Dems, con i quali è plausibile ipotizzare se non alleanze almeno intese di voto tattico per massimizzare le vittorie nei collegi.