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Politica

Tamburi lontani

17 Febbraio 2022
Francesco Olivieri

L’affrontamento attorno l’Ucraina ha finalmente rivendicato la prima pagina dei giornali, e tra i motivi per cui è un brutto segno c’è che le notizie da prima pagina non scarseggiano. Gli americani sono abbastanza preoccupati per i fatti loro: l’economia segnala inflazione oltre il previsto, e questo il pubblico lo avverte acutamente anche senza leggere il giornale; il clima politico è depressivo, il frazionamento tra le forze politiche è al massimo, il prestigio dell’amministrazione rimane sempre deludente (secondo Gallup, il record negativo degli ultimi settant’anni con l’unica eccezione di Trump nel 2017).

Ciliegia sulla torta, il Pentagono ha lasciato filtrare rapporti interni in cui i comandanti militari americani in Afghanistan si dicevano esterrefatti per le lacune nella gestione della crisi dello scorso agosto, imputate alla Casa Bianca e all’amministrazione civile. Simili critiche da parte dei militari sono eccezionali, dirette nei confronti dell’autorità civile cui sono rigorosamente subordinati nella Costituzione americana. In verità già subito dopo la caduta di Kabul fonti militari avevano espresso riserve sulla guida delle operazioni da parte del governo di Washington, e il battibecco non è mai stato chiuso; ma l’uscita attuale, vista sullo sfondo della crisi in progresso in Europa, aggiunge motivi di inquietudine.

Questa crisi Ucraina è vissuta qui sotto una angolazione non molto diversa da quella che ricordiamo aver vissuto durante la guerra fredda: un riflesso condizionato dopo tanti anni, incoraggiato dallo stile negoziale di Putin, che sembra speculare a quello americano. All’Europa non resta che la possibilità di effettuare una specie di “proximity talks”, con Macron a Mosca e Scholz a Washington, alla ricerca di un sentiero che ci porti, un passo alla volta e senza fare gesti bruschi, a un posto più sicuro di quello attuale.

Una difficoltà con questo tipo di diplomazia è che entrambi i lati devono apparire vincitori al momento conclusivo, e non basta, perché devono anche esserlo nella realtà affinché la soluzione possa durare. Sarebbe meno impossibile di quanto sembra, se si potesse aprire la strada a una successiva intesa più ampia che garantisse la sicurezza d’insieme in Europa, e non fosse soltanto un rimedio a breve, di fatto solo un rinvio, incapace di durare oltre il momento in cui ipotetici nuovi elementi strategici, o intervenuti elementi di crisi da una parte o dall’altra, riproponessero una situazione di squilibrio, in cui una delle superpotenze riterrà di intravedere un vantaggio da acquisire. In assenza di una intesa più ampia, l’Europa resterà gravemente vulnerabile. Per l’America, quelli il cui suono arriva ogni tanto col vento dell’est sono tamburi lontani; ma da noi il suono è cupo e insistente.

L’opinione pubblica americana, intanto, tende a reagire d’istinto come ai tempi della guerra fredda, rafforzando l’impressione che questa non sia mai finita, e che si sia soltanto aperta una nuova fase. I media mostrano città ucraine dove volontari si preparano per un giorno che si spera non verrà mai, e foto satellitari mostrano file ordinate di mezzi corazzati, nella neve, già pronti per quella stessa scadenza. Contemporaneamente, Russia e Cina si coordinano in maniera sempre più strutturata, ben sapendo che questo fa correre brividi agli euro-americani. L’iniziativa è oggi in mano ai Russi, che si sono assicurati con questo nuovo “best friend” molto di quanto può loro servire se le cose prendessero una brutta piega: un sostegno, un mercato, un fornitore.

Non è un momento facile per l’amministrazione Biden: giocano contro la popolarità bassa, mediocre fiducia nella leadership internazionale, inflazione in casa, governo tenuto in scacco dall’opposizione Repubblicana, stanchezza dei cittadini per la lunga lotta contro la pandemia, indisciplina impunita all’interno del partito, infine prospettive delicate per le elezioni di mezzo termine in novembre che rischiano di rendere la vita del governo ancora più difficile. Biden avrebbe bisogno di successi vistosi a breve termine, e ha meno di due settimane per la data del previsto discorso annuale alla nazione. La contesa con la Russia, con tutte le sue difficoltà, lo mette alla prova e rappresenta una sfida quotidiana davanti agli occhi degli americani. Potrebbe essere anche uno stimolo per mostrare polso fermo e capacità di visione oltre l’immediato, in termini che spronino i cittadini a raccogliersi intorno a lui, per affrontare insieme questo periodo critico.

Un “magnus opus”, in cui l’Europa dovrebbe essere capace di avere il suo ruolo, potrebbe essere quello di costruire il telaio per una sicurezza collettiva in Europa, post-URSS, che non dia appigli a ulteriori strappi o agguati. Non sarebbe certo l’opera di un week-end; ci vorrà tempo, ma potrebbe essere una via.

Della vecchia formula fondata sul puntiglioso equilibrio militare, da cui si poteva evadere solo con una catastrofe cosmica, è rimasta solo quest’ultima parte: il rischio della catastrofe. Le armi non proteggono più, quando una persona con un pulsante in mano può distruggere il pianeta indipendentemente dalle forze militari in presenza, al solo verificarsi di condizioni prestabilite. Concentrarsi unicamente su un pericolo esistenziale rischia di renderlo attuale: un errore di valutazione non si corregge da solo, ed è invece la realtà che si muta fino a coincidere proprio con lo scenario che si teme. L’avanzare della tecnologia permette di ridurre ancora i tempi di reazione; non è più come all’epoca di Cuba, quando la diplomazia poteva fare qualcosa. Oggi, sullo sfondo di un piccolo conflitto marginale, con la reciproca sorveglianza sotto allarme, un missile transatlantico colpisce l’obiettivo in mezz’ora, un quarto d’ora se lanciato da un sommergibile: il mondo ha quindici minuti, in sostanza, per godere -ancora ignaro- dei frutti della civiltà. Beninteso non è solo l’Europa a fornire potenzialmente lo spunto per simili apocalittici sviluppi. Ma è certamente al centro della mappa. Invertire la corsa alle armi, costruire garanzie di neutralità, incoraggiare l’offerta di “confidence building measures”, la valigia dei negoziatori contiene strumenti elaborati con successo ancora negli anni della sfida nucleare. Mai come ora se ne sente il bisogno – a patto che nella nuova situazione post-URSS siano ancora efficaci; i protagonisti sono cambiati, e la stessa OSCE -come indica il nome, creata per vegliare sulla sicurezza e cooperazione in Europa- che ha aveva vita difficile durante la guerra fredda, non sembra ora partire da una posizione migliore.

L’America dovrebbe poter affrontare questa situazione delicata contando all’interno sul tradizionale consenso bipartitico in materia di sicurezza e difesa; consapevoli della necessità di presentare un fronte unito verso l’esterno, gli esponenti politici americani di solito fanno quadrato. Ma il clima politico non è quello di una volta. Questo è un segno di degrado che lo scorso quadriennio ha esposto in tutta la sua serietà. I partiti politici americani seguono l’evoluzione della società in cui agiscono, e si coagulano intorno a piattaforme politiche diverse dal passato, come mostra l’esperienza del partito Repubblicano, e in senso diverso quella Democratica.

Governare, specialmente in una democrazia, brucia consenso come un’auto brucia benzina. Il partito Repubblicano, per generazioni, è stato il pilastro di un establishment conservatore intensamente patriottico: non a caso era il partito delle grandi fortune, certo, ma anche di figure militari come Eisenhower, Nixon, Bush o McCain, ma anche Goldwater: oggi, Trump è stato il primo Presidente Repubblicano privo di esperienza militare dopo Hoover. Per converso, i Democratici erano soprattutto la casa dei liberali, dei lavoratori, e dei discriminati, senza rifuggire dal servire la patria: Kennedy, Carter, Johnson, tutti in Marina -due di loro in guerra. Ma per lungo tempo i Democratici hanno ospitato anche i nostalgici del vecchio Sud secessionista. Il tempo, e l’evoluzione della nazione, hanno radicalmente cambiato queste caratterizzazioni. Ora i Democratici del Sud sono Repubblicani (ribellandosi per l’inizio dell’integrazione razziale sotto Johnson), e i minatori degli Appalachiani votano per Trump (ribellandosi per i contraccolpi della globalizzazione). Le due coalizioni sono ora più lontane l’una dall’altra, manca un nucleo di cittadini che popoli il centro dell’arena, e formare maggioranze autorevoli e non fragili diventa sempre più difficile. I Democratici hanno aperto le porte alla sinistra socialista, i Repubblicani ai populisti. Il fossato si è allargato.

Ne fa le spese ora l’amministrazione Biden, prigioniera della propria minuscola maggioranza, in cui bastano due franchi tiratori per bloccare ogni cosa. Fra meno di nove mesi si voterà di nuovo per il Congresso; lo stesso 1° marzo, il giorno del discorso “State of the Nation”, avrà già luogo la prima delle primarie, nel Texas.

Il governo ha incassato dei colpi, in questo suo primo anno, anche se non sono certo mancati i momenti positivi; purtroppo l’aspettativa radicata nella tradizione e nell’evaporare dei consensi davanti alla realtà quotidiana, è che il governo perderà dei seggi, e che quindi dovrà da allora in poi navigare i due anni rimanenti con poco potere, senza una maggioranza, ridotto a governare per decreto e contrastato a ogni piè sospinto da un’opposizione trionfante; e quindi più che mai con scarse possibilità di un programma bi-partisan.

Il timore dunque è che Washington sia presto e per il futuro prevedibile troppo debole per darsi una politica estera robusta; inoltre, reduce dalla recentissima conclusione dei vent’anni di guerra appena trascorsi è difficile pensare a flettere i muscoli militari, proprio mentre sorge inarrestato il nuovo gigante mondiale, Pechino, aumentando le vulnerabilità e riducendo le opzioni disponibili alla Casa Bianca. Questa è una posizione tattica proficua per la Russia di Putin e ancor più per la Cina di Xi Jinping, che ne sono ben consapevoli, e si comportano come i successori al vertice delle nazioni. Basta leggere il comunicato del loro recente vertice bilaterale del 4 febbraio, che emana questa sensazione. Il rischio è di cadere nella trappola di toccare il nervo del patriottismo degli americani, sostenuto dalla loro ‘love story’ con le armi, e nutrito dal mito della eccezionalità di questa nazione, di cui in poche ore di è scatenato il furore ogni volta che è stata colpita: da Pearl Harbor alle due torri del’11 settembre.