The Right is wrong, and is there enough Left?
Non dovrebbe sorprendere in politica che vi trovino successo le personalità dello spettacolo. Ovviamente se la politica richiede un talento, deve essere la capacità di riproiettare verso gli spettatori un’immagine destramente ritoccata di sé stessi, pegno di comprensione e volontà di intesa; chi meglio di un attore o un drammaturgo? L’identificazione tra attore e governatore in America, dopo Reagan e Schwarzenegger, si può dire dimostrata con successo, e Trump, la cui fama nasce da una serie televisiva in cui impersonava un titanico gradasso dell’imprenditoria (a dispetto dei suoi vari fallimenti e delle sue peripezie giudiziarie), ha continuato la tradizione; altrove, il commediografo Havel in Cecoslovacchia e l’attore Zelensky in Ucraina sono anch’essi venuti dallo spettacolo, e si può arguire che non sono stati i peggiori governanti in tempi difficili nei rispettivi paesi.
Il copione non sembra sempre all’altezza di Shakespeare, e a volte si ispira alla commedia dell’arte, come sembra essere accaduto con Trump; ma questi si è rivelato una forza allo stato brado. Ha visto un pubblico pronto ad avvicinarlo al potere, e lo ha fatto suo, raccogliendo il sostegno di un gran numero di americani. Anche se il saldo del suo quadriennio non ha mai convinto la maggioranza dei cittadini, che gli hanno negato il raddoppio, la sua permanenza alla Casa Bianca ha regalato al partito Repubblicano, che era minacciato di decadenza, un nuovo fantastico bacino elettorale al quale attingere.
Questo pubblico non riflette strettamente ideali e filosofie tradizionali del G.O.P. (Grand Old Party), e risponde invece a richiami più basici; sono personaggi in cerca di autore, ma capaci di influenzare permanentemente il partito. Non c’è ancora un vangelo concordato, e le idee si affollano e talvolta si contraddicono; ma occorre prendere atto che l’elettorato di Trump è una forza nuova, che raccoglie una porzione di cittadini che probabilmente nemmeno votava regolarmente prima del 2016. Era una massa istintivamente diffidente dei Democratici, soprattutto dopo la presidenza di Johnson e la sua scelta a favore dell’integrazione, ma non riconoscendosi neanche nei Repubblicani, forse troppo aulici, cittadini dei quartieri alti. Ma mentre il messaggio sociale dei Democratici non toccava le corde giuste in questo popolo imbevuto di rude autosufficienza, Trump per primo sembra aver toccato le corde giuste.
Il sistema bipartitico presenta questi inconvenienti: un terzo partito può far perdere quello dei due già esistenti cui assomiglia di più, togliendogli voti, e senza mai arrivare ad eleggere un candidato proprio; la sola via aperta è perciò lo “hostile take over” di uno dei due partiti dominanti, ed è quello che Trump ha fatto. Con l’appoggio popolare dei grandi raduni ai quali accorrevano i suoi sostenitori ha mostrato al partito una nuova via per il successo. E’ questa nuova compagine di militanti e sostenitori che domina ora la “nuova destra”; ed è una forza diversa ed importante rispetto all’ onorevole passato Repubblicano.
Questa nuova destra non ha nessuna venerazione per i protagonisti e le idee moderate del “vecchio” partito, e non è interessata a gettare ponti verso la sponda opposta. Agevolata anche dal rinnovamento generazionale, contiene anzi un nucleo iconoclastico; l’effetto è che ormai il vecchio presupposto dell’amor patrio come punto di congiunzione all’interno ed al di sopra dei partiti, non ha più lo stesso richiamo di una volta.
Per questa destra, la patria non è la casa dove convergono tutti, bensì un domicilio esclusivo, dal quale si escludono i non-conformisti. Trump beffeggiava MacCain, un eroe della guerra del Vietnam, tra l’orrore dei vecchi Repubblicani; ma si rivolgeva proprio a quei giovani che beffeggiano i vecchi, per consacrare l’esclusione di una generazione, ormai esaurita, con pochi esponenti ormai, isolati ed esautorati. Il G.O.P. resta la casa della destra, ma gli inquilini sono cambiati: i mandarini educati nelle università della “Ivy League” non ne hanno più le chiavi.
Chi sono allora questi americani che stanno seppellendo il vecchio conservatorismo, “Dio, patria e mercato”? Gli analisti politici americani hanno passato questi sei anni cercando di comprenderlo meglio, perché se anche è vero che Trump -scoperto il potenziale- l’ha portato alla ribalta, non l’ha creato dal nulla.
Si direbbe più facile far convergere il pubblico contro qualcosa, invece che a favore di qualcos’altro. Il vecchio G.O.P. per molti decenni ha avuto un nemico chiaro ed evidente, il marxismo in tutte le sue varianti e manifestazioni, e questa causa ha tenuto insieme una ampia tribù di ideologi. La percezione di vittoria finale che ha seguito lo scioglimento dell’URSS (ricordando Fukuyama) ha un po’ allentato il senso di urgenza che aveva accompagnato quella fase della storia americana, e il sospetto di socialismo presso il pubblico generico non è più oggi un sintomo così mortale politicamente come lo era ancora alla fine del secolo. Ne rimane pur sempre un punto di fede per i conservatori, che respingono l’opera di governo in una democrazia, quando si rivolge ad estendere il bene comune all’intera nazione. La nuova destra americana sarebbe inconcepibile se la società non avesse in sé i germi di questa polarizzazione, tra due isole, quella di destra e quella di sinistra, l’esistenza di ciascuna essendo pretesto per la creazione dell’altra, ed il loro affrontamento erodendo le fondamenta della sua democrazia.
Tra le fobie che si generano così, quella esemplare, dominante nella tribù conservatrice, prende di mira una simmetrica tribù liberale, la cui manifestazione più provocatoria è costituita da persone bene intenzionate cui viene applicato il qualificativo beffardo di “woke” (letteralmente, “sveglio”, nel senso di avere gli occhi ben aperti sul mondo e le sue magagne). Correre a soccorrere chi è discriminato in un modo qualunque è il secondo istinto dei “woke”; il primo è quello di prenderlo a testimonianza di un male sociale, e generare quanta più attenzione possibile sul caso. Nulla irrita i conservatori americani quanto questa immagine di innumerevoli samaritani, soddisfatti del proprio senso di moralità e intenti a denunciare ogni segno di discriminazione, oppressione e disprezzo nei riguardi di individui appartenenti a categorie vulnerabili. Un fossato ideologico difficile da superare divide questi due campi; da un lato il mito fondatore dell’America, costruita sull’autosufficienza del pioniere che fonda gli Stati e reclama per sé tutto ciò che è alla sua portata, dall’altro gli ideali illuministi messi su carta da un ceto gentilizio e letterato, che partendo da quegli stessi Stati hanno portato alla loro unione negli Stati Uniti d’America. Il primo “crogiolo” della storia americana è quello delle tredici colonie originarie, e solo dopo si è allargato fino ai suoi limiti, quello in cui tuttora si mescolano i migranti d’oltre confine. L’amalgama è ancora in corso, ad entrambi i livelli.
Agli occhi rispettivamente della destra e della sinistra, mentre da un lato ci sono gli ‘svegli’, dall’altro ci sono i “libertarians”, vocabolo complesso che parte dall’amore della libertà, ma accetta che vi possa essere conflitto tra libertà e democrazia- e in tal caso che sia la libertà a prevalere, la democrazia facendo un passo indietro. L’ipotesi che la libertà autentica debba essere quella condivisa, non quella di una frazione o di un singolo, non viene considerata; l’idea che sia impossibile libertà senza democrazia non ha presa. La bibbia sono le opere di Ayn Rand.
Non bisogna credere che la nuova destra sia costituita solo da quelli che girano coi berrettini rossi MAGA (“Make America Great Again”); questi sono certo una parte vistosa della nuova destra, ma a loro volta comprendono una amalgama di componenti uniti nel contrastare le tendenze liberali che avvertono con allarme nella politica americana odierna.
Discostandosi dal conservatorismo tradizionale degli anni di Reagan, che indicava comunque lo Stato come il maggiore pericolo per i cittadini, da questa nuova destra viene la richiesta di uno stato forte, ma solo nella difesa delle comunità e dei punti di riferimento tradizionali -famiglia, chiesa- perfino con un sorprendente sottofondo in cui ricorre un richiamo alle virtù della socialdemocrazia. La ragione di questo slittamento è il senso di minaccia incombente sulla società mitica cui la destra si richiama. Il diritto di portare armi, sancito nel secondo emendamento della Costituzione, è intoccabile: fa quasi pensare che sia più sacro del resto della Costituzione, che invece si può emendare. Lo stato deve essere forte e propositivo, ma la burocrazia deve essere domata, o meglio ancora cancellata; le radici libertarie del conservatorismo devono ritrovarsi in un senso nazionale di religiosità, ma non nel tentativo di governare dal centro. Infatti nonostante iI riconoscimento dell’autorità dello Stato centrale, sono i particolarismi locali che fluiscono attraverso gli Stati a costituire il perno su cui dovrebbe girare la nazione; l’autorità emanata dal governo federale è perciò sospetta e deve essere contenuta. Paradossalmente, il Presidente viene quindi eletto non per usare l’apparato dello stato, che agli occhi di questa frangia dispone di una volontà propria, ma per combatterlo.
La nazione della Destra raccoglie al suo interno in effetti una varietà di tribù indipendenti. Che cosa hanno in comune i fervidi evangelisti, i petrolieri, gli amanti delle armi, i baroni del carbone, i difensori della innata ed immutabile supremazia bianca, o maschile, o religiosa, o semplicemente americana? Che posto occupano le milizie, i “Proud Boys” e gli “Oath Keepers” che abbiamo visto sulle scalinate del Congresso (un involontario richiamo alla grande scalinata di Odessa nel celebre film di Eisenstein)? Hanno in comune l’avversario, la società democratica moderna che pretende di offrire un quantum di potere assieme ad un uguale quantum di responsabilità, e sa di non poterlo fare senza offrire uguali opportunità ad ogni cittadino.
La difesa di questo diritto all’ opportunità è vista come un attacco diretto al patrimonio sociale di un’altra parte della società civile, il cui timore è fondato non sul rischio di perdere ricchezza, ma di vedersi negare il diritto di vivere come può e come sa. Il popolo dei MAGA e dei berrettini Trump è eterogeneo nel suo insieme, ma accomunato dalla scontentezza. Di qui il richiamo a un mitico tempo che fu, o che forse non ci fu nemmeno se non nella fantasia; certo non per tutti. Un lato sconcertante è che questa destra non contiene solo capitalisti gelosi custodi di autentica ricchezza, ma anche operai, minatori, artigiani, agricoltori che stentano a quadrare il bilancio, vittime del progresso altrui e dell’indifferenza della nazione.
Assieme ai libertarians ci sono altre compagini, a volte con radici regionali come il popolo degli “hillbilly”. E’ questo un nome ironico per i “montanari”, riferito tradizionalmente ai colonizzatori della lunga catena degli Appalacchiani, gente fiera della loro cultura anche se retrograda, ma vigorosa, immersi storicamente nella povertà, arroccati a difesa nel loro territorio, impervi alle insidie della gente di città. Più a Sud, si chiamano “rednecks” – forse perché invece del buio delle miniere hanno sul collo il sole che brucia chi lavora i campi.
Il loro caso è esemplare: il messaggio che unisce questi cittadini non è quello di un ceto timoroso di essere livellato da una aspirazione egualitaria, ma piuttosto quello di un gruppo economicamente sempre più marginale, vulnerabile in ciò che lo unisce -non solo il loro crudele tenore di vita, ma anche una fiera tradizione sociale affermata da tempo nel territorio. Un esempio da manuale è come il conservatorismo economico e conservatorismo sociale convergano per gli hillbillys in un solo concetto.
Pochi americani conoscono direttamente la realtà delle valli nascoste tra le catene montagnose degli Appalacchiani, da cui per due secoli hanno visto provenire i lunghi treni del carbone che hanno alimentato il miracolo industriale americano e che ora non servono più. Il carbone, il “King Coal” delle ballate popolari, è sul letto di morte. La reputazione di fiera ostilità verso gli sfruttatori cittadini di questa lunga bonanza, l’attaccamento a un modello di vita che risale a un passato altrove dimenticato, contribuiscono a mantenere un fossato di cui sono gli hillbilly a fare le spese, reagendo con astio. Questo popolo è in regresso di anno in anno: nel 1923 c’erano negli USA 860.000 minatori, ne restano oggi una quarantina di migliaia. La ruota della vita, in cui i figli ereditavano il posto dei genitori e scavavano carbone finché la silicosi glielo permetteva, offriva un lavoro che sembrava ben pagato ad ogni generazione successiva, ma il ciclo è oramai interrotto e tutti silenziosamente sanno che non potrà riprendere. Vaste zone di territorio restano perciò sempre più indietro, col rancore di aver perso un tenore di vita duro ma dignitoso, a favore di una esistenza ancora più dura e priva di dignità. Che vi regni il rancore non può meravigliare. Un discorso analogo si può fare per il popolo operaio delle città industriali alimentate da questo carbone, ora sostituite da rutilanti moderni impianti con poco personale, o spinte fuori mercato dalla concorrenza estera: ne restano i rottami delle mitiche città dell’auto, come Detroit, una sequenza di immensi capannoni in cui la ruggine cancella un po’ alla volta ciò che resta della fiera vita degli operai che hanno sfornato per un secolo le Ford e le altre auto del secolo n.20. Nel primo decennio del XXI secolo ha perso un quarto degli abitanti.
Innegabilmente, esistono bacini di popolazione in America che hanno fondati motivi di essere preoccupati per la conservazione del loro modo di vita.
Così ora una delle stelle nascenti del movimento della nuova Destra è proprio un figlio di quella terra, J.D. Vance, autore sei anni fa di un bestseller che è volato dagli scaffali delle librerie americane, “Hillbilly Elegy”. Vance racconta la storia della sua famiglia, originaria del Kentucky - nel cuore dell’America- e del suo inarrestabile declino con la scomparsa del solo modo di vita che conosceva. Il libro è stato un successo nazionale, e Vance sarà candidato alle prossime elezioni, avendo appena vinto le primarie senatoriali Repubblicane nello Stato dell’Ohio il 3 maggio: è il candidato appoggiato da Trump contro altri quattro contendenti, e il suo successo conferma la potenza tuttora detenuta dall’ex-Presidente in seno al partito.
Esistono altri importanti serbatoi di voti che tendono a confluire nel G.O.P.: per esempio la destra religiosa, esemplificata dagli “Evangelicals”. Circa metà degli americani sono protestanti, e tra loro la maggioranza è composta da evangelisti; nel Sud del paese, un terzo della popolazione appartiene a questa chiesa, che nell’insieme degli Stati Uniti è la denominazione che raccoglie il maggior numero di fedeli. Quando si sente dire che la Chiesa Evangelica nell’insieme simpatizza con Trump e il suo movimento non si può fare a meno di essere sorpresi dall’accostamento, ma se Trump controlla il partito Repubblicano e questo a sua volta rappresenta l’anima conservatrice della nazione, allora si intravede il potenziale politico di questa innaturale alleanza tra una pia congregazione e un gaudente affarista egocentrico dalla coscienza flessibile.
Evidentemente esisteva un potenziale fino allora trascurato; era piuttosto sottovalutato che ignorato. Trump ha coagulato questo popolo latente, che una volta scoperta e saggiata la propria forza, se ne è inebriato. Il suo messaggio politico, “America First”, è preso in prestito niente di meno che a Wilson, e significava allora “nazionalismo e non interventismo”. E’ servito mirabilmente ad attrarre milioni di americani che potevano avere idee reazionarie, nel senso etimologico della parola, in cerca anch’essi di sostegno, contenti di non vederle smentite.
La risposta del resto degli americani è difficile da delineare in poche parole: l’avversione all’idea della sinistra è troppo radicata ancora in vaste parti dell’elettorato, dopo un secolo intero di avversione, e l’idea unificante dell’opposizione al movimento trumpista è piuttosto quella degli anni della concordia, in cui i partiti si sovrapponevano facilmente e diventava difficile individuare l’appartenenza all’uno o all’altro: si può sostenere probabilmente che questa caratteristica rendeva la democrazia americana più funzionale, certo più facile da gestire. Ma quei tempi sono tramontati, e anche se la carica idealistica non è affatto spenta, stenta a dominare la scena.
Il successo di Trump nel 2016 è stato uno spartiacque; interrotto dalla la sconfitta del 2020, che è riconosciuta come tale ormai dai “vecchi” Repubblicani, è negata tuttora da buona parte dei trumpisti, che sostengono la magica possibilità di forgiare la verità attraverso la ripetizione. Il risvolto pratico, questo sì pericoloso, è che i Repubblicani oggi per combattere inesistenti brogli del passato sono impegnati da un anno e mezzo in un vasto programma di ritocco delle leggi elettorali, in tutti gli Stati dove hanno il potere per farlo.
Non è un fenomeno innocente, ed ha il potenziale di sovvertire, questa volta davvero, l’esito delle elezioni future.