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Economia

La battaglia del grano

5 Aprile 2022
Francesco Olivieri

Sappiamo tutti che il prezzo dei carburanti è salito alle stelle in quasi tutto il mondo, e sappiamo che lo dobbiamo essenzialmente alla guerra in corso nell’est dell’Europa, e le conseguenti sanzioni alla Russia. Aspettiamo con ansia che la primavera diminuisca la necessità di riscaldamento nelle nostre case, spolveriamo la bicicletta che ci fa anche bene, e torniamo ai ricordi dolci/amari del dopoguerra, quando la benzina costava cento lire al litro e si mettevano assieme gli spiccioli con gli amici per comprare due o tre litri per la Topolino di papà.

Può darsi perfino che questo inconveniente ci pungoli un poco sulla via della saggezza, verso un uso più oculato dell’energia da cui dipendiamo, e verso nuove fonti su cui fare affidamento. 

Intanto, lentamente ma inesorabilmente, un’altra nuvola oscura si avvicina all’orizzonte, e rischia di sorprenderci tra pochi mesi con un inatteso potenziale devastante.

Russia e Ucraina sono la dispensa del mondo. L’Ucraina da sola fornisce ai mercati internazionali un decimo del totale delle esportazioni di grano, qualcosa come 20 milioni di tonnellate, senza contare altre granaglie come orzo, semi di girasole, etc. Con la Russia, che esporta 17% circa del fabbisogno mondiale ed è ora limitata nelle esportazioni dal regime di sanzioni in atto, il potenziale di effetti esplosivi sulla dieta di numerosi paesi del mondo è terrificante. Più di un quarto del rifornimento mondiale è ora in pericolo. Si aggiunga che insieme, Russia e Ucraina producono più della metà dei semi di girasole (quelli che troviamo nell’olio di semi al supermercato, di cui oltre un terzo del fabbisogno mondiale è esportato dall’Ucraina e un altro quarto dalla Russia), circa il 20% dell’orzo, e intorno al 4% del granturco mondiale. Un aspetto meno appariscente, ma una seria aggravante, che peserà sulla capacità di far fronte al deficit delle zone interessate dal conflitto con una maggiore produzione altrove sarà poi l’effetto delle sanzioni sul prezzo dei carburanti, dato che una parte considerevole del diesel consumato in Europa proviene dalle importazioni dalla Russia; l’impennata del prezzo è stata immediata, specialmente in Europa, e avrà delle ricadute sui costi di produzione dato che il diesel è il carburante comunemente preferito per trattori, autocarri, etc. impiegati nelle campagne sia in Europa che in America.

Una parte del raccolto in Ucraina forse potrebbe essere salvata, se il conflitto venisse estinto con successo e rapidamente. In caso contrario, anche se una parte della produzione potesse essere commercializzata, tolta la quota destinata all’uso domestico, la frazione esportabile potrebbe essere la prima a essere decimata. Si aggiunga che la situazione della struttura di raccolta, conservazione ed esportazione attraverso i porti ucraini è presumibilmente tale, tra distruzioni e occupazione avversaria, da spandere incertezza sulle previsioni quanto all’inoltro verso i mercati mondiali.

L’Unione Europea, che è un esportatore, da decenni segue una politica agricola comune, oggetto di grandi dibattiti interni e di critiche dall’esterno, che tuttavia sembra aver garantito una certa stabilità al settore, e al tempo stesso anche una continuità di accesso alle derrate richieste dal mercato. L’aumento dei prezzi non la risparmierà, ma i rifornimenti non dovrebbero mancare. Dove colpirà allora questa carestia?

La FAO pubblica dei dati per il 2021, da cui emerge che almeno una ventina di paesi dipendono dalle importazioni di grano per più della metà del loro fabbisogno, compresi paesi popolosi come il Pakistan, il Bangladesh, l’Egitto, la stessa Turchia. Tra questi paesi, Eritrea, Somalia, Libano, Libia, Mauritania e Gibuti dipendono soprattutto dall’Ucraina, quindi sarebbero più direttamente vulnerabili, ma una carestia di proporzioni elevate sarebbe certamente accompagnata da una impennata dei prezzi - che infatti è già in atto, considerando che dal 2016 quelli dei cereali sono già praticamente raddoppiati, e quelli degli olii vegetali dopo il 2019 sono quasi triplicati ripeto al 2020, riflettendo la tensione che esiste già da tempo tra Ucraina e Russia. Si possono immaginare gli effetti di simili sviluppi sulle comunità già sotto stress in Africa e altrove, dove non è chiaro quali risorse potranno essere mobilitate per farvi fronte.

Non basta: la Russia è anche un grande esportatore di fertilizzanti ma la provvista sul mercato russo è minacciata dall’effetto delle sanzioni. Visto che i prodotti a base di azoto vengono estratti dalla lavorazione del gas naturale, anche i prodotti azotati tendono quindi a riflettere comunque in qualche misura l’andamento dei prezzi degli idrocarburi. Il loro prezzo è subito raddoppiato, e ciò influenzerà i raccolti.

Lo spettro della fame potrà in qualche modo essere combattuto da esportazioni sostitutive provenienti da altre parti, come gli Stati Uniti o l’Argentina, ma sarà difficile e costoso farvi fronte. il deficit alimentare sarà comunque grave. Poiché il mercato mondiale del grano si aggira sui 200 milioni di tonnellate, l’uscita dell’Ucraina combinato con una riduzione dell’export dalla Russia per effetto delle sanzioni potrebbe determinare, a parità di condizioni, un deficit mondiale del 10%, da colmare con altri cereali, misure di risparmio, accesso a riserve, etc. Se l’Ucraina riuscisse nonostante tutto ad esportare un terzo della quantità normale, ci troveremmo pur sempre dinanzi a un “buco” di 13-15 milioni di tonnellate di grano, con conseguenze allarmanti per i paesi importatori tradizionali. Mentre la Cina, che è il maggiore importatore di cereali dall’Unione, naturalmente manterrà l’accesso di cui gode sul mercato Russo, l’Egitto invece, che importa il 75% del grano che consuma, rischierebbe una situazione critica se non avesse accesso a fonti alternative (ed è infatti uno dei maggiori acquirenti dell’Unione Europea, così come l’Algeria). Due terzi del grano importato dalla Libia, che dipende dall’estero per il 65% del fabbisogno, provengono dall’Ucraina; il resto, essenzialmente dalla Russia.

Questa parte del Mediterraneo sarebbe particolarmente vulnerabile se il conflitto dovesse prolungarsi o estendersi, e se queste preoccupate previsioni dovessero materializzarsi. Se la riva sud del Mediterraneo dovesse trovarsi isolata nel far fronte a questa mancanza improvvisa di un alimento che è alla base del consumo popolare, così come lo è da noi, potremmo trovarci di fronte ad una massiccia emergenza alimentare, con potenziali conseguenze gravissime sotto tutti gli aspetti.

La FAO è a Roma, ed è il foro migliore per mantenere aggiornata una valutazione del rischio, ma anche al tempo stesso per tendere la mano ai paesi che lo dovranno affrontare tra breve; non sarà solo un gesto di compassione e solidarietà, ma anche parte della nostra responsabilità nei confronti di popoli con cui abbiamo condiviso millenni di storia.