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Politica

Il prossimo Presidente degli Stati Uniti: eletto dal voto o da una sentenza?

12 Giugno 2023
Francesco Olivieri

Non si può davvero dire che la decisione della magistratura americana di processare Trump per il reato di violazione del segreto di Stato fosse inattesa. Non sarebbe stato possibile montare tutta l’incastellatura delle indagini al riguardo, con l’assunzione di responsabilità sempre più delicate da parte degli inquirenti, per poi non farne nulla – soprattutto tenendo conto della irritante tendenza di Trump di vantarsi di poterla fare franca in qualunque circostanza (già manifestata al tempo della sua elezione nel 2016). Siamo all’anticamera della campagna elettorale del prossimo anno, e la scelta non poteva che essere quella di agire subito, a inchiesta conclusa, o mai più: pensiamo a cosa succederebbe se Trump fosse trascinato in tribunale nel bel mezzo del lungo processo elettorale, anziché alla vigilia – che è già una data delicata.

La sua non è una accusa di comodo. È la più seria collezione di reati che si possa imputare a un Capo dello Stato: l’infrazione delle norme che regolano il segreto in molti paesi può portare a pene gravissime, e così è anche in America. Nel 1950, in piena guerra fredda, il processo ai coniugi Rosenberg, colpevoli di “conspiracy to commit espionage”, si concluse con la sedia elettrica per entrambi.

Non si potrebbe infatti politicamente processare un ex-Presidente per una mancanza relativamente lieve, anche se è bene ricordare che questa non è la sola accusa in gioco. Resta infatti aperta l’indagine sugli eventi del 6 gennaio 2021, quasi un colpo di stato, e sono in corso tutte quelle di New York, che coprono una gamma che va dallo stupro alle frodi finanziarie - come dichiarare alle banche grandi profitti per ottenere crediti a minor costo, dichiarando il contrario al fisco per non pagar tasse -, senza contare il tentativo di falsare l’esito delle elezioni in Georgia nel 2020, che potrebbe condurre ad ancora un ulteriore processo penale. È una miscela di reati federali ma anche di reati statali, che non sono da sottovalutare: se rieletto, lo stesso Trump potrebbe forse auto-perdonarsi per i primi, o potrebbe farlo un altro Presidente Repubblicano, ma non per i secondi.

Biden aveva scelto di agire con scrupolo ma senza fretta. Il Ministro della Giustizia è un uomo meticoloso e prudente, e ha dato un ritmo pacato ma implacabile alle indagini, ben sapendo che il processo di un ex-Presidente durante il mandato del suo successore non sarà comunque mai, a priori, accettato dal pubblico come un atto dovuto. È anche vero che il sistema legale americano concede alla Procura una certa flessibilità nell'istruire un procedimento che potrebbe non avere in altri contesti, ma quando il possibile imputato non nega i fatti e invoca invece una immunità che non esiste, la scelta del Procuratore generale, Merrick Garland, appare inevitabile. Caso mai, si potrebbe argomentare che la decisione di Trump di candidarsi nuovamente non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Come si potrebbe tollerare il rischio di rieleggere un Presidente che rivendica poteri che lo pongono al di sopra della Costituzione?

Una volta presa questa decisione, un'altra scelta inevitabile è stata quella di stabilire la giurisdizione della Florida, luogo di residenza di Trump e dove sono stati commessi i reati che gli saranno imputati. Martedì prossimo Trump è dunque convocato dal magistrato in Florida per far fronte alle specifiche accuse a suo carico, e dichiararsi innocente o colpevole. Spetterà al magistrato decidere se concedere la libertà in attesa del giudizio, come è probabile, e nel caso con quali condizioni. Il processo che ne conseguirà non sarà privo di incognite, poiché comporta una giuria che dovrà raggiungere un verdetto unanime per emettere una condanna, e questa giuria sarà scelta nella giurisdizione dove si svolge il procedimento - che è di tendenza conservatrice.

Con questo sviluppo, ci troviamo ora in una situazione che aumenterà notevolmente il livello di tensione.

Trump ha manipolato per decenni con destrezza e senza scrupoli chi lo attorniava, ed ha i suoi sostenitori, oltre ad essere sopra e al di là di un partito di cui non è mai stato la vera incarnazione. Questo partito Repubblicano fu quello di Lincoln, nonché quello di altri illustri esponenti del pensiero conservatore. Ma fu anche quello di Nixon: quella volta il partito pagò il prezzo, e prima di tornare a competere, dovette distanziarsene, tornando a vincere solo nel 1981 con la comparsa di Ronald Reagan sulla scena politica.

Oggi, come in una riedizione di una tragedia greca, il protagonista è circondato dai suoi luogotenenti e dai suoi protetti, ma non può sfuggirgli che il loro sguardo nasconde l’ipotesi di vederlo soccombere per poi prenderne il posto. 

Il numero dei candidati che si stanno iscrivendo nel lungo percorso per determinare il candidato del partito Repubblicano nelle elezioni presidenziali del novembre 2024 si allunga di settimana in settimana: già una dozzina, e potranno aumentare ancora; saranno rivali, non sostenitori.

Questa abbondanza di aspiranti a guidare l’elettorato americano conservatore contro il futuro candidato democratico (che quasi certamente sarà nuovamente Biden) significa dunque che entrambi i portabandiera dei due campi sono oggi percepiti come vulnerabili.

Giocano due elementi:

  • La leadership di Trump sui conservatori e sui populisti, nonché sull’estrema destra, è salda, ma viene erosa proprio mentre si addensano le nubi delle vicende giudiziarie nei suoi riguardi: ed anche tra i conservatori vi è un atomo di preoccupazione per il “personaggio” Trump e le sue piazzate;
  • Per quanto riguarda Biden, come leader da battere una volta scalzato Trump dalla guida del suo partito, questi appare ai suoi avversari come flebile e facile da sconfiggere: il peso dell’età, un figlio discusso.

Eppure, almeno i Repubblicani dovrebbero ricordare Ronald Reagan, quando in vista di rinnovare il suo mandato Presidenziale nel 1984, contrapposto al suo giovane sfidante Democratico, Mondale, era apparso all’inizio un po’ confuso ed impacciato provocando commenti sui suoi 73 anni: Reagan reagì dicendo che per conto suo non avrebbe mai fatto dell’età una questione, proprio per non infierire sulla giovanile inesperienza del suo avversario. Mondale lo trovò spiritosissimo, si fece una risata, e al momento del voto fu spazzato via. Reagan portò a casa quarantanove Stati su cinquanta, con 525 voti del collegio elettorale contro 13 per Mondale. 

Nella sostanza, per assicurare un successo Repubblicano, al quale si sono legati gli interessi di una parte rilevante dell’economia americana, deve cominciare a farsi strada il sospetto che sia arrivato il tempo -se non di abbandonare l’ex-Presidente al suo destino- quanto meno di mettere in sicurezza il partito, per garantire che possa vincere le elezioni qualunque sia la sua guida, e senza rinnegare l’ondata popolare che Trump ha saputo canalizzare negli anni del suo successo. Il quesito non è come eleggere Trump, bensì come battere i Democratici; ciò vale sia per la Casa Bianca che per il Congresso dove oggi solo la Camera ha una maggioranza Repubblicana, oltre che per le importantissime amministrazioni dei vari Stati - si dimentica facilmente la realtà federale di questo paese.

A questo punto entra in gioco la percepita fragilità del Presidente Biden: è inevitabile l’usura che l’incessante impegno della carica infligge su un organismo giunto ad un’età rispettabile, ma non c’è spazio per la carità. Il sistema politico americano pone gravi responsabilità sulle spalle di chi ricopre quella carica. Per quanto possa essere assistito da una eccellente compagine, il Presidente non è un primus inter pares, un notaio che registra le decisioni del suo ‘team’; ci si aspetta che imprima un suo corso, e sfoggi una sua dinamica corrispondente alle promesse fatte durante la sua elezione, e -in America come in Europa- l’immagine dei capelli bianchi e della tendenza a inciampare in pubblico possono suscitare una immagine impietosa - anche se talvolta è ingannevole. Biden è indubbiamente anziano, ma è anche un volpone.

Proprio in questi giorni è tornato a dimostrarlo, uscendo trionfante da una vicenda che avrebbe potuto essere tragica per il paese, quella della minacciata insolvibilità degli Stati Uniti, giunti al limite dell’indebitamento legalmente autorizzato dal Congresso, e che i Repubblicani si rifiutavano di aumentare. Biden si è trovato a negoziare col portavoce Repubblicano della Camera, Kevin McCarthy (un giovane energico, una contrapposizione quasi Hollywoodiana). Questi è arrivato caricato a mitraglia, per concludere infine nelle ore piccole dell’ultimo giorno possibile un’intesa, in cui in cambio di qualche taglio al programma del Governo, reclamato dai Repubblicani, invece di aumentare di un tanto il “plafond” del credito lo si “sospende”, rimandando la decisione a una data successiva alle prossime elezioni.

Evitando di fissare un nuovo limite specifico, l’intesa -ormai tradotta in legge- assomiglia molto a una “mano libera” per la Casa Bianca per tutto il periodo elettorale. Se sconfitto, Biden lascerà il problema in grembo al suo successore; se vittorioso con una maggioranza in Congresso, farà il suo comodo.  Così mentre McCarthy è tornato al Congresso cantando vittoria, Biden un po’ più sornione ha fatto lo stesso dalla Casa Bianca - ma dopo qualche giorno, quando il polverone si è assestato, McCarthy è stato sbranato dalla frazione più estremista del suo partito che lo accusava di essersi fatto turlupinare.

Ma cosa fatta capo ha, e mentre Biden e la sua amministrazione hanno aggirato lo scoglio, ottenendo quello che volevano, l’umore in seno al Grand Old Party è meno sereno e meno compatto, il che non è da trascurare.

Nei giorni di tensione degli ultimi mesi di Nixon, i Repubblicani del Congresso presero decisioni difficili, sacrificando un Presidente ormai indifendibile. Nonostante avesse vinto in modo schiacciante alle elezioni del 1972, conquistando tutti gli stati tranne il Massachusetts, due anni dopo Nixon era diventato una minaccia agli occhi del suo stesso partito. Quando si rese conto della riluttanza dei membri Repubblicani a difenderlo dopo la decisione della magistratura che lo obbligava a rivelare le sue registrazioni segrete, comprese che doveva porre fine alla sua carriera politica: si dimise e Ford, il suo successore, lo coprì concedendogli l'amnistia.

Oggi, la crescente turba di Repubblicani che aspirano a contestare le primarie del partito dovrebbe portare lo stesso messaggio: forse, come fu per Nixon, questi cominciano a non essere più i suoi alleati, bensì i suoi rivali, più propensi a difendere il partito che non l’individuo. Il tema è ora come stabilizzare anche in sua assenza l’apporto dei suoi odierni seguaci, sotto una mano più responsabile e meno avventurosa. L’ipotesi potrebbe avere successo, specialmente se il campo Democratico apparisse a sua volta debole e vulnerabile, ma l’episodio del debito pubblico conferma che Biden non ha esaurito le munizioni.