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Politica

Il partito mancante

21 Marzo 2022
Francesco Olivieri

In Ucraina, il fronte non si distingue dalle retrovie, e i reportages  che riceviamo sui nostri schermi televisivi da quasi un mese oramai alimentano un flusso quotidiano di ruderi, profughi, bambini, donne cariche di pochi oggetti salvati che si fanno strada tra metalli contorti e bruciati che erano stati veicoli e strutture urbane, alla ricerca di salvezza e poi anche di giustizia, nell’ordine.  Oggi varcano i confini di paesi dove sperano di trovare riparo, lasciando dietro di sé ogni loro avere, e spesso i loro uomini.

Questo spettacolo colpisce il nostro cuore e la nostra mente, anche distanti come siamo, dinanzi a uno spettacolo che parrebbe sconosciuto; ma i restanti veterani della grande guerra europea di ottant’anni fa lo riconoscerebbero. Qui in America ci sono già tra un milione e un milione e mezzo di cittadini di origine ucraina, molti di immigrazione recente, cioè successiva allo scioglimento dell’URSS, e ancora legati, carne e sangue, al paese oggi assediato. Questi nuovi cittadini non dimenticheranno mai quello che sta accadendo, e si assicureranno che la memoria resti vivida tra gli altri americani; i quali sono ben predisposti ad ascoltare. Tutti qui pensano all’America come a un gigante, il che non sorprende certo, eppure hanno un debole per questo Davide che ha sorpreso Golia, specialmente se Golia assomiglia molto al loro vecchio nemico esistenziale, la Russia sovietica.  Non meraviglia che lo spettacolo di queste settimane abbia suscitato pertanto una reazione, diciamo, pandemica, che non accenna a diminuire, alimentata com’è dalla copertura mediatica 24/24.

E questo, presumo, ci accomuna sui due lati dell’oceano. Dovrebbe magari unire anche l’opinione pubblica all’interno di questo paese, che sta invece attraversando una fase in cui un po’ più di coesione non farebbe male. Purtroppo invece la vicenda ucraina qui confluisce nella lunga saga della politica interna, che con Trump ha raggiunto nuovi livelli anche per i suoi aspetti assurdi, che appartengono al mondo dei fumetti piuttosto che a quello del dialogo politico. E’ vero che la tensione che vive l’America di questi anni non è stata creata da Trump, che piuttosto l’ha colta in embrione e la cavalca ancora per sfruttarla a proprio vantaggio, con brio che non si è affatto attenuato dopo la sua uscita dalla Casa Bianca. Il suo stile ha trovato un terreno fertile nel solido sistema bipartitico americano, che nel tempo ha condotto l’elettorato ad essere polarizzato e quindi sequestrato da uno o l’altro di due partiti, ed ha così inevitabilmente distrutto il vecchio “centro”, stritolato da ambo i lati. Lo slancio patriottico e morale provocato dai fatti dell’Ucraina, con l’implicazione quasi dimenticata del rinnovato rischio nucleare - lungi dal cementare la fratellanza tra le parti politiche- ha inciso per un momento, ma non ha contribuito a riunificare il paese tanto quanto sarebbe stato logico attendersi.

Lo si è visto bene quando il discorso di Zelensky, ricevuto in seduta comune dal Congresso americano, ha ricevuto unanimi applausi ad ogni paragrafo, salvo quando il Presidente ucraino ha nominato Biden per ringraziarlo di quanto l’America sta facendo per la sua patria. Si aggiunga che tra i media pro-Trump imperversano ancora oratori e giornalisti che sposano la retorica di Putin, ricavandone le lodi del Cremlino, salvo vituperare Biden per essere secondo loro debole e fiacco nei riguardi di Mosca. Nemmeno in un momento come questo i parlamentari  hanno ritenuto di sentirsi uniti, come sarebbe stato naturale, nella gratitudine dell’ospite rivolta al loro paese e ai suoi capi politici; immemori del favore con cui hanno reagito all’entusiasmo di Trump per il collega di Mosca, sono ora critici per la percepita prudenza di Biden e dei suoi, che stanno camminando con la cautela necessaria di quando si sfiora una crisi nucleare.

L’opposizione politica al governo di Biden sfrutta, e alimenta, una sua vulnerabilità che non dipende dal Presidente ma dal contrasto tra la sua immagine e la personalità, diciamo, neroniana del predecessore, a fronte della quale il ritorno delle regole appare poco eccitante. Si aggiunga il confronto tra la realtà e le aspettative dei grandi disegni programmati e ahimè solo in parte, faticosamente compiuti. Non è un bell’episodio, ma tocca un punto sensibile, che va oltre l’immagine e tocca un problema reale.

Ci sono ragioni per questa cattiva fortuna. Il partito di cui è il capo non fornisce a Biden che la più striminzita e la più fragile delle maggioranze parlamentari, per giunta a forte rischio di perderla del tutto con le prossime elezioni congressuali. Le sfide del momento che viviamo si accumulano, una vera idra a tre teste: guerra, inflazione, e pandemia, e preoccupa che vi sia poco segno di unità nazionale. A far fronte, lungi dall’avere pieni poteri, il governo dipende spesso dalla affidabilità anche di un solo senatore per riscuotere il necessario appoggio del Congresso, e di frequente si trova in difficoltà.

In parte, si sa, il sistema elettorale americano non premia la maggioranza: la storia anche recente è costellata di candidati che vincono il voto popolare, ma perdono il collegio elettorale. Biden ha avuto sette milioni di voti in più di Trump, un risultato netto, ma non ha ereditato una forza parlamentare commisurata, che sarebbe stata capace di dare corpo ai suoi programmi.

Ma questa è una ben nota caratteristica del sistema federale americano, e non ha impedito né a Roosevelt, né a Kennedy, né a Johnson di governare, per citare solo alcuni: frutto certo anche di momenti molto intensi della storia nazionale. Ma se ora tutto è così difficile, probabilmente occorre anche chiedersi se il contesto stesso non sia impercettibilmente, ma decisamente, cambiato a danno della governabilità.

Una parte della colpa di questa debolezza politica sono i lunghi anni di deterioramento del sistema bipartitico che pure ha servito così bene, così a lungo, l’America. Il suo compito più ovvio è di produrre con chiarezza un vincitore ed un perdente; i ruoli sono ben designati, i mandati presidenziali durano abbastanza da far capire agli elettori se si era scelto bene, nel qual caso gli eletti sono di solito rinnovati senza difficoltà per altri quattro anni mentre nel caso contrario, già dopo i primi due anni toglie al Presidente gli strumenti parlamentari per governare, e dopo altri due anni ne elegge un altro.

Questa parte funziona ancora abbastanza bene. Quella che non funziona è la parte in cui il capo dell’Esecutivo, in seguito alla sua elezione, organizza i poteri necessari per realizzare il programma per cui è stato eletto. Per cominciare, il nuovo Presidente eredita dal predecessore due terzi del Senato preesistente, il quale riflette perciò piuttosto l’orientamento della presidenza precedente; in contrasto con la Camera dei Rappresentanti, che si rinnova ogni due anni e quindi è, diciamo, sempre fresca. Questa sarebbe la teoria: nella pratica, tra il 90 e il 98% dei parlamentari viene regolarmente rieletto. La conclusione è che il nuovo Presidente -se non è lui stesso un parlamentare, come è il caso di Biden- ha dunque davanti a sé molti politici che esprimono l’orientamento di una diversa elezione, e che staranno comunque a Washington più a lungo di lui, senza dipendere necessariamente dalla Casa Bianca per restarvi.

Pertanto progettare la politica della nazione dalla celebre West Wing della predetta Casa Bianca non conduce ad un automatico recepimento da parte del legislativo, salvo che il Presidente insediato disponga di una propria personalità schiacciante, il che non avviene spesso. Un maestro fu Lyndon Johnson, che aveva alle spalle una lunga carriera nel Congresso e una personalità priva di ritegno; nessun altro in tempi recenti lo ha eguagliato. Biden dispone di un maestro parlamentare nella persona di Nancy Pelosi che presiede la Camera dei Rappresentanti, dove ha anche qualche voto in più, ma in Senato i numeri non arrivano ad una soglia che dia sicurezza.

Dove può trovare un Presidente la forza politica per imporre il suo programma per la nazione? In una democrazia, nella forza della nazione: non basta il partito, occorre trovare sostegno nel resto del paese, per fare i grandi numeri necessari. Ed è qui che dagli anni ’80 in poi, in corrispondenza proprio col processo di smantellamento dell’Est comunista, si è assistito all’erosione del “centro” politico della popolazione, che non poteva tardare a riflettersi nella sua rappresentanza a livello nazionale.

Occorre qui una spiegazione. Forse non è giusto riferirsi al sistema politico americano come “bipartitico”: nella pratica, perché funzioni il bipartitismo occorre infatti che i partiti siano di fatto tre: uno a ogni estremo dello spettro, ma anche uno popolato da chi non appartiene né all’uno, né all’altro.  La chiave del sistema non è la preponderanza di un partito sull’altro suo rivale, ma la direzione in cui si muove in seno all’elettorato il “terzo partito”, la tribù dei cittadini presi tra i due fuochi, che assistono, ci pensano, e se votano, votano la loro scelta. Negli Stati, l’iscrizione nelle liste elettorali di regola non avviene “de jure”, ma deve essere richiesta individualmente, e propone a priori di scegliere se qualificarsi come “Democratico” o “Repubblicano”; in alcuni Stati la scelta è obbligatoria, e permette di partecipare alle primarie dei partiti. Un gruppo non categorizzato esiste sempre, e secondo alcune stime non è trascurabile, forse arriva al 25% dei cittadini.  Fra i trumpisti di ferro (“Make America Great Again”) che tendono a controllare i conservatori vecchio stile, e i progressisti tradizionali (Dem) con cui si allinea di malavoglia la sinistra della socialdemocrazia, lo spazio è ormai molto ridotto per un elettorato che potrebbe essere convinto non su una base ideologica preconcetta, ma su considerazioni di leadership, attitudine, carisma che caratterizzerebbero il candidato. Captare il voto è un duello tra professionisti delle campagne elettorali, che oramai sono in grado di rastrellare capillarmente i votanti; per affermare una maggioranza e renderla stabile, non resta oramai che rendere difficile il voto di chi voterebbe contro. Assistiamo perciò a una vera e propria campagna di parte che negli anni intermedi tra le scadenze elettorali tende a ridisegnare distretti, complicare l’iscrizione dei votanti, e così via, basandosi sui dati ricavati dalla demografia e dall’esperienza delle precedenti elezioni. E’ una incredibile contraddizione per un paese che ha la democrazia per ragion d’essere. In amore e in guerra, dice il proverbio, tutto è lecito; ma il detto risale al secolo scorso, oggi l’autore avrebbe incluso forse anche la politica.

 Ma è allora possibile avere simultaneamente una democrazia e un governo funzionante, quando il pubblico è diviso in parti equivalenti (equamente o per truffa non incide) e vota, per principio, secondo il senso di lealtà che lo orienta abitualmente verso una o l’altra parte? In astratto, la democrazia si guadagna lo stipendio quando esiste una importante frangia non allineata, che può fare la differenza. Ma se è meno della differenza tra la destra e la sinistra, non influisce sull’esito finale, qualunque esso sia.

Su questo sfondo, la sorte di Trump potrà incidere sulle elezioni che si profilano già tra otto mesi, e nulla è scontato. Trump può essere giudicato per reati di diritto comune, evasione fiscale, o violazione dei doveri costituzionali; oppure può anche uscirne senza un chiaro verdetto, specialmente agli occhi dei suoi seguaci. Peraltro non sarà lui ad affrontare il giudizio del pubblico quest’anno; ha tempo fino al 2024 per aspirare nuovamente alla Presidenza, come tutto sembrerebbe indicare, e nel frattempo fornire quest’anno alla frangia populista dell’America uno strumento di propaganda estremamente efficace, per crearsi una base invincibile tra altri due anni. Il pubblico preferirà sempre andare a sentire uno showman piuttosto che un conferenziere, e sarà lo showman colui che offrirà la visione dorata verso cui accorrere. Chi non ha visto “Il Mago di Oz”, non ha letto “Pinocchio” e non sa del paese di Bengodi, chi non conosce la storia del “Pifferaio di Hamelin”?

Una seconda considerazione è che purtroppo Biden pagherà fino all’ultimo centesimo il conto dei suoi predecessori. Oggi stiamo appena all’inizio del cammino per risolvere i debiti politici accumulati durante i governi dei Bush; gli anni della crisi sovietica, sfociati in una specie di “selvaggio West” non hanno portato né alla democratizzazione, né al disarmo dell’URSS, ma solo al suo scioglimento, e ora cominciamo a vederne le conseguenze. Abbiamo perciò ancora bisogno per lungo tempo ancora di una America in cui sia possibile riconoscerci, e insieme ricostruire un autentico sistema di sicurezza che serva l’umanità. Non c’è invece una via che porti a una vittoria clamorosa nell’incessante processo elettorale americano: Biden ha davanti pochi mesi, di qui a novembre quando si rinnova il Congresso e si elegge un terzo dei senatori, per definire obiettivi solidi e avere successo, ma sarà un successo contrastato e tarderà ad essere riconosciuto, forse non in tempo per le elezioni.

Senza tramutarsi in condottiero, dovrà pur sempre giustificare ai suoi elettori la loro scelta che ne fa il leader del paese e al tempo stesso il capitano della vasta ciurma dell’occidente, se questa nozione ha ancora un significato. Il primo obiettivo evidentemente è evitare che si scivoli verso un conflitto mondiale, ma è un atto dovuto e non porterà consensi supplementari. Evitare che resti impunita la sfacciata violazione delle norme internazionali che è in corso attualmente a danno dell’Ucraina potrebbe far convergere approvazione per la sua presidenza; ma l’esito elettorale dipenderà dall’umore del paese in relazione ai dati economici. Non è il prezzo del pane, come nell’800, ma il prezzo della benzina che può far pendere la bilancia, determinante com’è nella vita di ogni famiglia americana, e la pressione è già forte, alimentata dai superstiti partigiani del carbone e del petrolio.