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Politica

I Supremi

12 Luglio 2023
Francesco Olivieri

Nel gergo giornalistico americano, i componenti del collegio di nove giudici che costituiscono la Corte Suprema sono semplicemente “i supremi”; un riconoscimento di quanto ciascuno di essi sia cruciale nel funzionamento della democrazia di questo paese. La Corte, infatti, costituisce spesso un ulteriore passaggio per la legislazione, talvolta anche nell’interesse del governo quando vuole cementare a priori la validità dei propri provvedimenti. Non c’è provvedimento che non sia formulato dal legislativo senza un pensiero almeno al possibile vaglio da parte di questo apice giudiziario della nazione. Sempre alla ribalta come riferimento risolutivo, ma certamente mai destinata ad occupare essa stessa il centro del dibattito politico - come sta accadendo ora.

Il periodo che stiamo vivendo negli USA è indiscutibilmente considerato “l’era di Trump” non solo per esserne stato questi l’architetto e il realizzatore, bensì per aver colto l’umore del tempo, ed averlo strumentalizzato nel proprio interesse e in quello della parte politica che vi ha ravvisato una via per ricreare una maggioranza che si stava perdendo. Questo progetto di cementare la base conservatrice intorno a un disegno di potere, più che un progetto di governo, è stato reso inevitabile dalla erosione degli equilibri politici tradizionali, che minacciavano di costituire invece una pressoché stabile maggioranza “progressista” a livello federale, potenzialmente prevalente sui “conservatori” concentrati in determinate aree del paese.

Ma è difficile governare a lungo riflettendo regolarmente la visione di una minoranza,

Difficile, ma non impossibile. Il sistema americano affida l’ultima parola ad un piccolo, insindacabile gruppo di giuristi nominati a vita da un organo politico, il Congresso; ma questo a sua volta non può che rispecchiare il particolare equilibrio del momento in cui si deve coprire un seggio vacante nella Corte.

E’ indubbio che la aperta noncuranza di Trump per le norme e precetti risultanti da un paio di secoli di convivenza degli “States”, abbia portato il dialogo politico tra partiti rivali ad un livello che si avvicina alla guerra totale. Si paragoni il clima che prevaleva, in forza della tradizione, perfino negli anni difficili di Nixon, quando l’assenza di scrupoli che caratterizzava questo Presidente (soprannominato “Tricky Dicky”) finì per essere sbaragliata da un regime parlamentare in cui regnava ancora solidamente l’idea di far confluire le forze nell’interesse della nazione.

La reale possibilità di alternanza politica su scala nazionale da allora si è scontrata nei singoli stati con il progressivo prevalere di un singolo partito, un fenomeno senza precedenti: una quarantina dei 50 stati sono oggi dominati da un solo partito, che ne nomina il Governatore e controlla entrambe le camere della legislatura; inoltre, in cinque stati in cui il Governatore non ha una maggioranza qualificata nel parlamento locale perde di fatto il diritto di veto. Mentre quindi il potere dei partiti si rafforza a livello statale, e diventa quasi insindacabile -dipingendo una mappa della nazione a pelle di leopardo- a livello nazionale l’incentivo a governare sulla base di intese accettabili ad entrambi i partiti si è andata erodendo.

Se il legislativo (Congresso) e il Presidente (Esecutivo) non sono in grado di dare certezza all’azione politica, diventa inevitabile il ricorso al potere giudiziale: di qui non solo il “controllo” giudiziario post-facto, al termine del processo di creazione della norma - quando già maturano le fattispecie della vita reale- ma addirittura la autonoma tendenza di questa Corte a prendere l’iniziativa di “riesaminare” la costituzionalità di norme già esistenti nel sistema legale, avvalendosi del diritto insindacabile che possiede di scegliere i casi da esaminare tra le migliaia che vengono sottoposti, o addirittura di propria iniziativa. Un vantaggio di questo modo di procedere, evidentemente, è che una decisione che vada contro una forte preferenza dei cittadini non conduce gli autori, che non sono gli eletti del popolo, a pagare un prezzo al momento delle elezioni come sarebbe il caso di una decisione imputabile al governo o al partito. E’ appunto per questo motivo che la politica in materia di aborto è stata deliberata dalla Corte Suprema, e non dalle Camere; e così pure la recente sentenza che nega al governo la facoltà di spendere denaro federale per condonare i prestiti accordati agli studenti nel perseguimento degli studi superiori, o l’altra recente prodezza che nega la facoltà per le Università di tener conto dell’origine raziale degli aspiranti, nel tentativo di aprire vie più agevoli per gli appartenenti a minoranze discriminate (col risultato probabile, nella pratica, di favorire l’accesso agli studenti asiatici a scapito degli afro-americani).

Tutto ciò è solo possibile perché la Corte riflette le scelte imposte da una maggioranza conservatrice nel suo seno, frutto a sua volta della sorda opposizione a Obama messa in atto a suo tempo, e poi completata col quadriennio di Trump. L’episodio che segna il bivio risale a quando il Congresso ha negato ad Obama la nomina di un nuovo giudice supremo per sostituirne uno venuto a mancare, con la motivazione che non era corretto per un Presidente procedere a una nomina nell’ultimo anno del suo mandato: più giusto deferire al successore, sentenziarono i Repubblicani del Senato. Poi Trump vinse le successive elezioni, e nominò un giudice conservatore, creandosi una marginale maggioranza di tendenza conservatrice nella Corte, 5 a 4. Quando poi nel 2019, ultimo anno di governo per Trump, si è liberato un altro seggio (allora occupato da un magistrato di scuola liberale) gli stessi parlamentari che avevano cestinato la nomina proposta da Obama dimenticarono improvvisamente la regola che loro stessi avevano inventato quattro anni prima, e procedettero rapidamente ad approvare un secondo candidato proposto da Trump, consacrando così una tendenza conservatrice solidamente maggioritaria (6-3).

Si dirà, correttamente, che nella Corte non deve esservi spazio per ideologie politiche. Ma i medesimi parlamentari che avevano immaginato quell’espediente per contrastare la scelta di Obama, avevano così riconosciuto tacitamente che il candidato non era obiettabile nel merito (come nel caso avrebbero avuto tutto il diritto di fare), ma poi sono stati rapidi in uguali circostanze nell’approvare senza obiezioni il candidato di Trump negli ultimi mesi del suo mandato: se nel primo caso era tacita la loro aspettativa che il candidato fosse di orientamento liberale, senza mettere nemmeno in dubbio la sua imparzialità, era palese e non contestata l’aspettativa che i candidati alla Corte riflettessero inevitabilmente l’orientamento del Presidente che li sceglieva; ed era proprio questo che si voleva impedire ad Obama, ed avallare invece per Trump. 

Ora, il sistema giudiziario americano è molto più coinvolto nelle vicende pratiche della nazione di quanto non sia comunemente altrove. È una conferma della triade di Montesquieu, ma questo ruolo è anche legato al sistema politico binario che regge lo stato americano nel suo insieme.

La radice di questo particolare americano sta infatti nel suo sistema bipartitico. Curiosamente, sulla carta, questo sistema è tutto meno che binario: ci sono almeno una quarantina di partiti politici registrati negli Stati dell’Unione, ma di fatto su scala nazionale contano solo i due ben noti che si alternano da un secolo a questa parte; e questa alternanza non sempre riflette il numero dei rispettivi aderenti. Se il voto nelle elezioni quadriennali per la Presidenza (e buona parte del parlamento) avvenisse in un unico collegio, in questi anni, da Clinton in poi, avremmo visto una successione di Democratici alla Casa Bianca pressoché ininterrotta: niente Bush, niente Trump.

Si può anche pensare che una simile egemonia non sarebbe stata un bene per il paese, ma resta il fatto che sia Bush che Trump sono stati eletti da una minoranza dei votanti, e non è facile nemmeno far quadrare questa constatazione con l’idea che ci si fa di una democrazia. Per di più, quando si verificano i numeri dei cittadini che si esprimono a favore o contro una determinata azione governativa, spesso i governi che si succedono non partono dal consenso degli elettori, e deliberano sostanzialmente come credono meglio, in barba alla democrazia. Si pensi a esempi clamorosi, come la guerra nel Vietnam: del resto è solo un rinvio, perché i governi ne rispondono comunque al momento delle successive elezioni.

La creazione di una “Corte Suprema” col potere di decidere senza appello e senza il limite di un vaglio di qualunque genere (salvo quello che essa stessa può esercitare a posteriori) è rimasta per tutti questi anni una utile barriera contro l’abuso del potere politico; ma con l’aspettativa che la Corte stessa non assuma mai a sua volta una coloritura politica che la renda un duplicato delle compagini partitiche. E questo si è rivelato più difficile del previsto da rispettare.

Non è una storia nuova. La Costituzione affida al Congresso la costituzione della Corte, e già ai tempi di F.D. Roosevelt l’aspirazione delle parti politiche a “controllare” la Corte aveva indotto quel Presidente (che la riteneva apertamente conservatrice) a crearsi una sua maggioranza, con l’espediente di nominare altri magistrati da aggiungere ai nove esistenti. Il numero dei giudici, infatti, non è dettato dalla Costituzione, e può essere cambiato con legge ordinaria: avrebbe così portato la Corte a tredici membri, creandosi una maggioranza favorevole.

Se però la Corte era immune al vaglio popolare, non era così per Roosevelt, che fu costretto a rinunciare. Avrebbe altrimenti eliminato il solo freno rimasto al potere presidenziale che esercitava dalla Casa Bianca.

Fu eletto tre volte, e avrebbe potuto essere ancora rieletto senza limiti, come era possibile prima che il Congresso passasse nel 1947 (quando peraltro Roosevelt era ormai deceduto) il 22.mo emendamento della Costituzione con il limite di due mandati, che è da allora in vigore. Ma non si trattava solo del fascino di Roosevelt: il partito avverso, che pure registrava successi elettorali importanti, stava scivolando verso una psicosi di minoranza, come se dovesse difendersi contro il voto crescente della sinistra, alimentato dal successo di Roosevelt, e favorito dalla specifica demografia del paese; e questa psicosi esiste tuttora.

Una conseguenza è che la rivalità tra i due maggiori partiti ha portato nel tempo a una polarizzazione di cui inevitabilmente si cercano le ombre anche all’interno della Corte, mentre la sua attuale composizione è oggi largamente di fattura Repubblicana.  

Con ciò, la Corte viene a far parte dell’indistinto arsenale che alimenta la contesa politica quotidiana dell’America. E allora quali saranno gli effetti per la democrazia americana?

Non è difficile individuare i segni di pericolo in questa deriva, che rischia di cambiare profondamente le basi del sistema democratico.

L’esempio più clamoroso dell’asservimento del processo elettorale agli interessi partitici è la diffusione del procedimento di “gerrymandering” che -stato per stato- traccia i confini dei distretti elettorali, concentrando o diluendo i sostenitori delle due parti per massimizzare gli esiti favorevoli agli interessi del partito che già gode del controllo di quello stato. È un procedimento cui si abbandonano senza riserve entrambi i partiti, ma che giova meglio ai Repubblicani che tendono ad essere più forti a livello statale. La conseguenza velenosa di questo meccanismo elettorale è che diventa routine governare attraverso decisioni favorite da una minoranza dei cittadini, il che è più difficile da contrastare quando la Corte Suprema prende posizione in materia. Del resto, la accettazione della possibilità routinaria di vittoria della minoranza non contribuisce certo a rafforzare il senso che sia invece di regola la maggioranza a prevalere nel governo del paese, il che è sempre meno sostenuto dai fatti. Inevitabilmente ci sarà un giorno un prezzo a carico della democrazia.

Intanto, tra le decisioni “divisive” fondate su una scelta ideologica, figura in prima fila quella sull’abolizione del “diritto all’aborto”, che va contro la preferenza di due terzi degli americani che era stata avallata da una sentenza del 1973 della stessa Corte Suprema. Con ciò l’aborto non viene automaticamente proibito nell’intera Unione: ma quegli stati che ora hanno guadagnato il diritto di vietarlo, in più proibiscono ai loro cittadini di farvi ricorso anche in quelli stati dove la pratica resta permessa.

Più in generale, l’orientamento conservatore dell’odierna Corte ha di fatto cancellato quello che la maggioranza degli americani percepiva come un diritto acquisito, confermato da cinquant’anni di pratica; ed è il segnale di un pericolo che va oltre l’episodio. Il verdetto della Corte ha provocato una valanga di inchieste demoscopiche, di dibattiti e di prese di posizione: tutte orientate su scala nazionale a favore della scelta di preservare, e non di abolire, il diritto in questione. Sarebbe allora teoricamente possibile stabilire un “diritto all’aborto” a livello federale, ma elevarlo a livello di diritto costituzionale sarebbe un’impresa incerta, complessa e prolungata.

Il caso dell’aborto non sarà l’unico. La prossima battaglia si profila già ora, e riguarderà un’altra delle “conquiste” della democrazia americana, già nel mirino dei conservatori. Si tratta del diritto all’educazione a favore delle categorie meno favorite, che prelude poi all’accesso al lavoro, non solo vietando la discriminazione contraria, ma introducendo criteri preferenziali, attraverso la politica c.d. di “affirmative action”, per bilanciare lo svantaggio implicito di chi ha frequentato scuole rurali o minoritarie.

Tutto ciò conduce alla fine ad una conclusione allarmante: diventa difficile per una democrazia restare tale nel lungo periodo quando la legislazione offende la maggioranza; gli Stati Uniti potrebbero ora diventare una nazione democratica composta di stati che non lo sono. Il caso dell’aborto è già abbastanza grave, dato che tocca i diritti più intimi dei cittadini; ma questa via, che si apre a una minoranza protesa ad imporre la propria agenda attraverso la simpatia della Corte per antiche tesi di parte – anche se rappresentative su scala nazionale di una minoranza, perfino se comprendente delle micro-maggioranze isolate – rischia di creare una nazione che cessa di essere una Unione.