La guerra siriana ridisegna il Medio Oriente

di 
Piero Fassino

La guerra civile che sconvolge la Siria è entrata nel suo nono anno. E come sempre quando eventi pur drammatici si prolungano nel tempo, l’assuefazione prende il sopravvento e l’agenda Internazionale appare assorbita da altre priorità: la crisi in Venezuela, la reciproca denuncia americana e russa degli accordi sulla riduzione degli arsenali nucleari, la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, Brexit, i flussi migratori.

Ovviamente ognuno di quei dossier ha un rilievo forte. E tuttavia una guerra che ha prodotto oltre un milione di sfollati, centinaia di migliaia di vittime, distruzioni di intere città, sofferenze di ogni tipo, dovrebbe sollecitare la comunità internazionale e i suoi principali attori a un sussulto di responsabilità, mettendo in campo una iniziativa straordinaria che metta fine al dramma di quel popolo.

Peraltro lo scenario sta conoscendo evoluzioni significative indotte dalla decisione annunciata dal Presidente Trump di un rapido progressivo ritiro della presenza americana dal teatro di guerra. Decisione da cui derivano molteplici conseguenze.

La prima: dopo aver evocato per anni l’allontanamento di Assad, il ritiro americano riconosce implicitamente che Assad è oggi saldamente in sella e non è all’ordine del giorno un cambio di regime in Siria. Di più, dopo nove anni di guerra feroce l’esercito di Assad ha riconquistato il controllo di gran parte del territorio siriano, smentendo la tesi - assunta dalla comunità internazionale - che non vi potesse essere “soluzione militare”. Se i colloqui di Ginevra, che si sono trascinati inconcludenti per anni, giungeranno a un qualche accordo sarà, purtroppo, sulla base dei rapporti di forza determinati con le armi.

La seconda: lasciare la Siria significa riconoscere il ruolo di playmaker che la Russia ha oggi nella regione. E il rapporto - pur non privo di contraddizioni, ma in ogni caso preferenziale - che la Russia ha stabilito con Turchia e Iran consegna a Mosca, ma anche ad Ankara e a Teheran, un più grande spazio di azione e di influenza nell’intera regione.

La terza: la decisione di Trump mette in grave difficoltà i curdi che in questi anni - grazie al sostegno americano - sono riusciti a contrastare sia l’Isis, che ha subito le principali e decisivi sconfitte proprio a opera dei curdi; e sia l’esercito di Assad, da cui i curdi sono riusciti a difendere l’autonomia dei loro territori. E si pone sempre di più per i curdi la necessità di definire quale obiettivo perseguire per ottenere il riconoscimento della loro identità.

La quarta: il disimpegno americano rischia di incoraggiare la Turchia a dar corso a operazioni militari in territorio curdo-siriano, come già è avvenuto nell’enclave di Afrin. E conoscendo la brutale determinazione di Erdogan, appare non sufficiente il monito del Segretario di Stato americano Pompeo a “non compiere atti che non siano concordati e condivisi”.

In altri termini, nuovi rapporti di forza stanno ridisegnando la geopolitica del “grande Medio Oriente” che si estende dal Mediterraneo all’Afghanistan. Ne sono ulteriore manifestazione l’avvicinamento di Israele all’Arabia Saudita - storica avversaria dell’Iran - e ancor di più la recente Conferenza internazionale sul Medio Oriente promossa dagli Stati Uniti a Varsavia per costruire una coalizione anti iraniana e dove per la prima volta Ministri degli Esteri di nazioni arabe si sono seduti allo stesso tavolo con il premier israeliano Nethanyau. Così come il contributo dato da Teheran e dagli hezbollah libanesi ai successi militari di Assad ha rafforzato il peso e l’influenza della “Mezzaluna sciita” dal golfo persico al mediterraneo. E, infine, l’annuncio di un’intesa di principio tra americani e talebani - che tuttavia non ha fin qui coinvolto il governo di Kabul - indica l’ansia di Washington di uscire dal “pantano afghano” con conseguenze tuttavia non facilmente prevedibili.

In questo scenario chi esce certamente sconfitto è l’Isis, che via via ha perso il controllo di gran parte del territorio occupato ed è ormai ridotto a qualche enclave di irriducibili. Il che non significa che il fenomeno jihadista sia definitivamente debellato: fonti americane calcolano tra i 10.000 e i 20.000 i combattenti dell’Isis alla ricerca di una via di scampo e tentati dal trasferire i focolai della propria azione in altre aree della regione.

Insomma, il Medio Oriente continua ad essere percorso da guerre, conflitti e tensioni che non sono circoscrivibili alla sola regione. Ciò’ che accade là ha impatti immediati sugli equilibri e la stabilità del Mediterraneo, peraltro gravato da altre crisi, in primis la Libia. E tutto questo richiama la necessità di una azione europea che concorra a portare pace, dialogo e stabilità dove oggi ci sono guerre e conflitti.