La guerra di Putin

di 
Piero Fassino

Giorno dopo giorno la tragedia ucraina si consuma. In una settimana i profughi hanno superato il milione e mezzo, cifra che continua a lievitare di centomila persone al giorno. Altri milioni hanno lasciato le città in cerca di un rifugio sicuro nelle campagne. Intanto prosegue incessante l’offensiva militare russa dal cielo, da terra e dal mare puntando a fiaccare ogni resistenza e a stringere Kiev in una morsa a tenaglia. I colloqui avviati tra le delegazioni di Kiev e Mosca procedono lentamente, senza che Mosca conceda una tregua richiesta peraltro non solo dagli ucraini, ma anche dal Papa, dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea, dalla Cina, dalla Turchia e molti altri. E ancorché i margini per un negoziato appaiano strettissimi. Pure ogni spazio, anche minimo, deve essere percorso. Perché in ogni caso una soluzione che effettivamente risolva le controversie tra Kiev e Mosca non può essere militare.

Se grazie ad un potenziale militare nettamente superiore Putin può imporre una soluzione basata sulla forza, la sciagurata avventura intrapresa dal Presidente russo si sta rivelando ogni giorno più insensata e gravida di negative conseguenze, in primo luogo proprio per la Russia.

Putin aveva scommesso su una guerra lampo che gli consegnasse l’Ucraina in poche ore e invece deve fare i conti con una resistenza tenace che dimostra che gli ucraini non vogliono in nessun modo essere sudditi di Mosca.

Aveva pensato che l’esito infausto della vicenda afghana, avrebbe reso gli Stati Uniti meno reattivi e gli europei più reticenti e invece mai come in questa occasione il rapporto transatlantico ha dimostrato la sua solidità.

Ha scommesso sulla forza di ricatto del gas russo e invece si trova colpito da sanzioni che metteranno a dura prova la tenuta dell’economia russa.

Ha creduto di poter contare su un vasto sostegno internazionale e invece all’ONU la risoluzione di condanna ha raccolto il voto del 90% degli Stati. E la Cina - su cui Putin confidava - ha assunto un atteggiamento prudente e distaccato.

Ha cercato di compattare il consenso interno sollecitando l’orgoglio della “grande Russia” e per la prima volta nelle piazze delle città russe - nonostante la repressione della polizia e migliaia di arresti - si è manifestata una vasta protesta che contesta non solo l’avventura ucraina, ma anche il carattere autocratico del regime putiniano.

Ha voluto la prova di forza per ottenere dal mondo il riconoscimento della Russia come potenza globale e si trova in una condizione di isolamento quale mai Mosca aveva conosciuto.

In nome di un atto di forza ha violato tutte le regole che presiedono alla vita della comunità internazionale: ha violato lo Statuto delle Nazioni Unite che impegna ogni Paese a non usare la forza verso paesi terzi; ha violato gli Accordi di Helsinki che sanciscono l’intangibilità dei confini, la integrità territoriale e la sovranità di ogni nazione; ha violato gli accordi di Minsk che affidano al negoziato tra le parti la risoluzione dei contenziosi.

Di fronte a un esito così negativo legittimo chiedersi perché Putin si sia lanciato in una avventura così rischiosa.

Una ragione è la ricerca del riconoscimento alla Russia di “grande potenza”. La leadership putiniana non ha mai accettato la riduzione di ruolo scaturita dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica ed è costantemente alla ricerca di come ritornare a essere potenza determinante dei destini del mondo. Questa vera e propria “ansia” è divenuta sempre più pressante mano a mano che sulla scena internazionale si imponeva la nuova polarità Washington-Pechino. Di qui la scelta di un atto di forza che obbligasse il mondo - e in primo luogo l’Occidente - a fare i conti con Mosca. Un atto che in realtà sta producendo l’effetto opposto: il mondo ha rifiutato la logica della guerra e oggi Mosca è più isolata di prima.

Una seconda ragione addotta da Putin è mettersi al riparo da possibili minacce alla sicurezza della Russia. Tesi tuttavia contraddetta dai fatti. Dalla caduta del muro di Berlino ad oggi non vi è stata alcuna occasione di minaccia alla Russia: certo non sono venute a Mosca minacce da Kiev. Meno che mai sono venute minacce dall’Europa che ha intessuto relazioni di collaborazione con Mosca in ogni campo, divenendone il primo partner economico-commerciale. Neanche sono venute minacce dagli Stati Uniti, che considerano la Cina il loro vero competitore sistemico. E se il timore di minacce deriva dall’eventuale insediamento in Ucraina della Nato, la questione ha trovato una risposta nella assicurazione data dal cancelliere Scholz e dallo stesso segretario generale della Nato Stoltemberg che hanno esplicitamente dichiarato - prima che Putin decidesse di muovere guerra - che l’adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica non è all’ordine del giorno.

Peraltro Putin pretende di rendere sicura la Russia rieditando la dottrina brezneviana della “sovranità limitata” a cui dovrebbero sottomettersi i paesi confinanti con la Russia. Una dottrina dei tempi della guerra fredda e dell’epoca bipolare, oggi rifiutata da ogni nazione che rivendica il rispetto pieno della propria sovranità.

E, infine, è probabile che Putin abbia deciso l’avventura ucraina per consolidare il consenso, esposto al logoramento dopo 23 anni di potere esercitato ininterrottamente come Primo Ministro e Presidente. Anche in tal caso, tuttavia, l’esito è opposto al desiderato, testimoniato dalle manifestazioni di dissenso e protesta fiorite nelle città russe.

Insomma, Putin in pochi giorni ha dissestato gli equilibri geopolitici che dalla caduta del muro di Berlino avevano garantito stabilità e sicurezza in Europa. Ha compromesso le relazioni di collaborazione perseguite dall’Unione europea. Ha fortemente incrinato la sua affidabilità. E - esito paradossale - ha cacciato la Russia nell’isolamento.

Nasce da qui la decisione dell’Occidente - e dell’Italia - di non subire la protervia di Putin e la sua violazione di ogni regola della convivenza pacifica. Ed è la ragione per cui tutti i Paesi Europe, insieme agli Stati Uniti, si sono schierati al fianco degli ucraini. Lo hanno fatto comminando alla Russia sanzioni severe che inducano Putin a recedere dalla strada intrapresa. E mettendo a disposizione di chi combatte gli strumenti per difendere la sua e la nostra libertà’.

Una scelta coerente con l’art 51 dello Statuto delle Nazioni Unite - che prevede il diritto all’autodifesa di un paese aggredito - e con l’art. 11 della Costituzione che “ripudia la guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali”. Cioè ripudia esattamente quel che Putin ha fatto: aggredire un vicino e affidare alle armi la risoluzione della controversia con Kiev. E di fronte ad una aggressione armata ingiustificata e ingiustificabile è dovere politico e morale la solidarietà e il sostegno a chi deve difendersi. Così come è un dovere morale e politico mettere in campo una ampia e diffusa azione umanitaria sia verso i profughi, sia verso la popolazione Ucraina sottoposta a drammatiche sofferenze.

Questo non significa rinunciare all’obiettivo di far tacere le armi e riaprire la strada al negoziato. Ogni spazio va colto. Ma perché questa eventualità si realizzi è decisivo che l’esercito ucraino sia messo nelle condizioni di resistere, facendo prendere atto a Putin che la soluzione non può essere militare, ma solo esito di un negoziato.