Erdogan e l’orgoglio turco

di 
Piero Fassino

Sia pure di misura, Recep Tayyp Erdogan è stato rieletto Presidente della Turchia, prolungando di altri cinque anni il suo ventennale potere. Un esito favorito dal vantaggio accumulato da Erdogan nel primo turno a cui si è aggiunto quel 5% di voti raccolti dal candidato di estrema destra Sinan Ogan.

Eppure analisti e commentatori davano Erdogan come perdente. Confortava questa previsione la grave crisi economica che attanaglia la Turchia, così come la crescita nella società turca dell’opposizione al regime autocratico instaurato da Erdogan. E anche il grave rovescio elettorale subito dai candidati di Erdogan in tutte le principali città - tra cui Ankara e Istanbul- nelle elezioni amministrative del 2019. E, infine, giocava a sfavore di Erdogan l’obiettivo logoramento a cui è esposto un leader a lungo al potere.

Nonostante tutto ciò Erdogan ha vinto, pur costretto per la prima volta al ballottaggio da una opposizione che, guidata dal CHP - il partito socialdemocratico di origine kemalista - ha raccolto il 44% nel primo turno e il 48% nel ballottaggio.

Perché dunque una maggioranza di cittadini turchi ha votato ancora per Erdogan? Pare a me che Erdogan abbia vinto perché ha restituito ai turchi l’orgoglio di un grande Paese.

Non dimentichiamo che la Turchia viene da una storia secolare che l’ha vista dominare a lungo Mediterraneo e Vicino Oriente. Un Paese che, dissoltosi l’impero ottomano, si ricostituì nella Turchia sotto la guida di Kemal Ata Turk con l’ambizione di affermarsi come una potenza nella Europa del ‘900. Un’ambizione via via smarrita, a cui subentrò un lungo periodo di deperimento economico, sociale e politico, significativamente rappresentato dalla emigrazione di milioni di turchi.

Ad un Paese afflitto da acute criticità, l’Unione Europea non seppe proporre altro che una dilazione senza limiti dell’integrazione. Uno schiaffo umiliante per tutta la società turca che reagì - a partire dai ceti popolari - affidandosi a chi apparisse in grado di offrire una prospettiva di riscatto.

Ed è esattamente quel che hanno fatto Erdogan e il suo partito. Sfidando la chiusura europea con una ritrovata identità islamica, riannodando i fili con la storia secolare ottomana, sviluppando una politica estera che - dal Caucaso al Mediterraneo, dai Balcani al Medio Oriente - affermasse la Turchia come potenza regionale. Strategia esaltata dal ruolo che la Turchia si è ritagliata nel conflitto russo-ucraino e nella interlocuzione con Putin.

Insomma, Erdogan è apparso a una maggioranza di elettori come colui che ha restituito ai turchi l’orgoglio di essere cittadini di un grande Paese.

Sia chiaro: quella vittoria non cancella i tratti di una politica autocratica che nega ai curdi la loro identità, soffoca ogni voce di dissenso, compromette il futuro economico del Paese, destabilizza gli equilibri regionali e internazionali. Ma proprio perché quelle criticità restano tutte aperte, la possibilità di un loro superamento passa per essere consapevoli che quel che vogliono i turchi è essere “riconosciuti”. Raccogliere quella domanda - ed è l’Europa a doverlo fare - è condizione per non lasciare che sia Erdogan ad esserne interprete ed è il modo più giusto per non lasciare sola quella metà della società turca che ha combattuto e combatte per la democrazia.

 

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pubblicato su La Repubblica il 30 maggio 2023