Le politiche di integrazione in Italia: quali prospettive per il futuro?

Stefania Dall’Oglio
Docente di Diritto dell'Immigrazione, Università LUMSA

Nell’alveo dell’approccio securitario ed emergenziale al fenomeno migratorio che ha caratterizzato le politiche italiane degli ultimi 19 anni, a far data dalla legge Bossi – Fini (L. 189/2002), il concetto di integrazione è stato gradualmente svilito e ridotto a questione individuale. A tale processo hanno decisamente contribuito, dapprima, il contratto di soggiorno introdotto dalla Bossi – Fini (art. 5 bis TUI), e successivamente l’accordo di integrazione (art. 4 bis TUI, D.P.R. n. 179/2011), imperniato sulle capacità dello straniero raggiungere un sufficientemente grado di acculturazione, attraverso un sistema a punti. Coerente con l’impianto concettuale descritto è il “Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro”, con prospettiva addirittura decennale, varato nel 2010 dal governo Berlusconi, ove, al di là delle proclamazioni del “modello italiano” di integrazione chiamato appunto “identità ed incontro”, appare evidente l’approccio securitario e una visione di integrazione marcatamente a senso unico: straniero versus collettività. L’insieme delle misure legislative adottate nell’era securitaria sulla base di proclami ideologici, assecondati da una distorta rappresentazione del fenomeno migratorio da parte dei media, hanno inoltre generato nell’opinione pubblica italiana una percezione del fenomeno migratorio avulsa dalla realtà, che ha contribuito pesantemente a preparare terreno fertile per la crescita di ignoranza e di atteggiamenti e comportamenti razzisti e discriminatori (emblematico il dossier della “Commissione Jo Cox” e il richiamo all’Ignorance Index di Ipsos MORI). D’altra parte le regolarizzazioni intercorse a partire dal 2002 (l’ultima di cui al d.l. n. 34/2020) costituiscono chiara dimostrazione del fallimento della politica dei flussi di ingresso previo contratto di lavoro, caposaldo di quella ’”integrazione nella sicurezza”, scollata dalla realtà umana e lavorativa del Paese.

La pesante eredità di questo approccio securitario ed emergenziale continua, purtroppo, a produrre i suoi effetti sulle politiche di immigrazione e di integrazione, dal momento che non è stato possibile, ad oggi, scardinarne l’impianto, mediante provvedimenti legislativi organici. Questo nonostante il recente intervento del d.l.n. 130/2020, il quale ha apportato indubbi miglioramenti riguardanti tanto le misure di integrazione nel contesto di accoglienza e la prosecuzione dei percorsi di integrazione, quanto lo sblocco dei “decreti flussi transitori” e la reintroduzione di una “nuova protezione umanitaria”.  

Le attuali politiche di integrazione, basate su una governance multilivello, si configurano, dunque, disorganiche e frammentate, in quanto disorganica e frammentata si presenta la base normativa sulla quale si fondano. 

Partendo dal Tavolo di coordinamento nazionale presso il Ministero dell’Interno, responsabile sia per l’emanazione annuale del Piano nazionale per l’accoglienza dei richiedenti asilo, - sulla base dei criteri di ripartizione regionale dei posti di accoglienza (art. 16, dlgs. n. 142/2015), - sia per l’emanazione biennale del Piano nazionale per l’integrazione dei beneficiari di protezione internazionale, sia per le misure attuative della programmazione del fondo europeo per la migrazione e l’asilo - FAMI (art. 29,c.3, dlgs n. 251/2007), in capo al Ministero dell’Interno, in qualità di autorità responsabile. Peraltro, gli strumenti di integrazione attivati grazie al fondo FAMI hanno origine da bandi di finanziamento emessi sulla base di specifici obiettivi ed azioni previste dal Ministero dell’Interno, in concertazione con il Tavolo stesso, proprio nell’ambito del Programma nazionale FAMI, a seguito della programmazione settennale dei fondi europei e dell’emanazione dei pertinenti regolamenti comunitari (attualmente il Regolamento 516/2014).

Nonostante lo sforzo di coordinare e amalgamare le varie competenze del Tavolo, come si evince dal decreto attuativo (D.M. 16.10.2014), resta purtroppo indubbio che, a causa del dettato legislativo, il piano accoglienza e il piano integrazione siano destinati, in buona parte, a viaggiare su binari paralleli, vuoi perché i destinatari sono diversi, vuoi perché i tempi di emanazione sono diversi, vuoi perché si tratta di due strumenti previsti da fonti normative diverse, mentre è di tutta evidenza come l’accoglienza non possa essere avulsa dall’integrazione e viceversa. Lo stesso Programma nazionale FAMI esprime al riguardo l’esigenza di messa a sistema delle azioni e di coordinamento degli attori istituzionali e dei vari strumenti finanziari disponibili a livello europeo. Nello scenario italiano di governance multilivello figurano dunque: il Programma nazionale FAMI in cui le misure di integrazione sono destinate ai cittadini extra Ue regolarmente soggiornanti, il Piano nazionale integrazione rivolto solo ai titolari di protezione internazionale; il Piano accoglienza rivolto solo ai richiedenti protezione internazionale; le previsioni normative a carattere generale rivolte all’ integrazione di tutti gli stranieri a livello nazionale previste dal TUI, incluse quelle disposizioni parzialmente attuate o inattuate; la legislazione delle singole Regioni in materia.  

Si presenta, quindi, necessaria quanto meno una modifica legislativa volta a includere nel Piano integrazione anche i richiedenti asilo, a maggior ragione in seguito al parziale ripristino, ad opera del D.L. 130/2020, delle misure di integrazione loro rivolte (art. 4) e alla previsione di ulteriori percorsi di integrazione alla scadenza del periodo di seconda accoglienza (art.5).

Sembra prossima, dunque, una riedizione del primo (e sinora unico) Piano nazionale integrazione, uno strumento che potremmo definire virtuoso, ma privo di valore vincolante, in quanto non di natura normativa, e dunque passibile di “archiviazione nel cassetto” da parte di qualsiasi governo in carica che non ne condivida impianto e finalità.

Non si può dunque che prendere atto della attuale mancanza a livello nazionale di una programmazione coordinata e coerente delle politiche di integrazione ed inclusione rivolte a tutti gli stranieri, che faccia da cornice alle misure predisposte a livello regionale e locale.

L’instabilità dei governi che caratterizza la politica italiana, infatti, assai difficilmente permette di programmare politiche a medio e lungo termine. Peraltro, anche quando si è tentato di metterle in campo con ottime leggi, come la Turco Napolitano, non è stato possibile coglierne i frutti, non solo a causa dei repentini cambiamenti delle compagini governative, ma anche a causa di una pubblica amministrazione resistente ai cambiamenti, fondamentalmente autoreferenziale e affetta da paternalismo.

Certamente la politica italiana è frutto della cultura del Paese, che a sua volta non è cultura omogenea, ma composta da più culture, più identità e conseguenti diversi approcci allo straniero e al diverso.

Al contempo, però, queste politiche securitarie, emergenziali, affette da instabilità e da visioni a breve termine, sono anche lo specchio di un Paese in crisi di identità che, sebbene giovane per nascita, è affetto da perdita di memoria e si ritira in atteggiamento difensivo di fronte allo straniero. L'ignoranza della storia, o la sua solo parziale conoscenza, contribuiscono, appunto, a minare alle radici la cultura solidale e umanistica del nostro Paese e a favorire la costruzione di nuove false radici identitarie e di visioni distorte del presente e del futuro.

La disorganicità e la frammentazione del quadro normativo, sono altresì favorite dall’assenza di una legislazione unionale al riguardo.

L’UE non può, infatti, legiferare in materia di integrazione, ma solo provvedere con misure volte a incentivare e sostenere l'azione degli Stati membri (art. 79, par.4, TFUE). Ciò nonostante, di grande interesse è il nuovo Piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione 20121-2027, destinato ad essere implementato dagli Stati membri grazie alle risorse destinate all’integrazione presenti nel nuovo quadro finanziario pluriennale 2021-2027, attraverso l’emanando regolamento sul Fondo Asilo e Migrazione ed anche grazie ad altri fondi europei, come l’FSE Plus ed il FESR. Tale Piano d’azione è per la prima volta rivolto non solo ai migranti nuovi arrivati ma anche ai cittadini naturalizzati ed ai migranti di seconda generazione e -  sebbene rappresenti uno strumento che potremmo definire di soft law - si tratta comunque di uno strumento ambizioso, che non solo dovrà essere alla base del prossimo Programma nazionale dei fondi su migrazione e asilo ma che, ci auguriamo vivamente, dovrà anche essere da stimolo all’inserimento del tema dell’integrazione in modo trasversale all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che il Governo si accinge a presentare alla Commissione Europea per l’utilizzo dei fondi Next Generation EU (NGEU).

E’, infatti, quanto mai necessario, urgente ed imprescindibile guardare all’integrazione come investimento per il nostro futuro, così come ribadito nel parere adottato dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) il 31.12.2018. Investire risorse in politiche di integrazione significa, insomma, innescare un processo virtuoso di “moltiplicazione del capitale umano” generatore di sviluppo e coesione sociale.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi