Il nodo è la democrazia

Lodovico Sonego
Già Presidente della Delegazione parlamentare italiana presso la Central European Initiative

La questione ultima è la democrazia e su quell’altare chiunque è tenuto a pronunciarsi senza ambiguità innanzi agli italiani e alla Costituzione della Repubblica dicendo da che parte sta. Come si vede ho dichiarato la conclusione sin dall’inizio e anticipo che tornerò sull’argomento ragionando per gradi. Aggiungo che affronterò il nodo dell’integrazione degli immigrati esprimendomi da persona che si riconosce nella Sinistra europea e condividendo la necessità di quel processo con tutte le conseguenze, a cominciare dell’urgenza di riconoscere lo ius soli: doveroso e conveniente. Ma detto questo si è detto davvero troppo poco.

In Italia ci sono milioni di immigrati e per molti di essi l’integrazione è un problema risolto con successo, si pensi ai romeni o agli albanesi; la questione si pone invece quando la persona indigena e quella immigrata -spesso in modo reciproco- si percepiscono come irrimediabilmente differenti. La Destra risolve la questione in modo semplice e traumatico respingendo l’immigrato, la Sinistra proponendo un percorso di conciliazione delle differenze che chiama integrazione e che però viene indicata in modo così povero ed ambiguo da essere privo di connotati e scarsamente convincente.

La conciliazione delle differenze, che potremmo chiamare anche contaminazione, implica un certo grado di riduzione della propria identità e il conflitto tra persona indigena e immigrato nasce quando una delle due, o entrambe, percepisce che quella riduzione intacca aspetti del proprio essere che considera essenziali. Si tratta naturalmente di stabilire se l’essenzialità sia fondata o no, ci torneremo.

Prima c’è anche un aspetto quantitativo che è bene considerare. Quando una comunità immigrata molto differente da quella indigena supera una certa dimensione tende a considerarsi autosufficiente nel costituire un corpo collettivo separato ed impermeabile con l’esito di far cessare ogni possibilità di integrazione. Questa dinamica dimensionale può essere enfatizzata dalla propensione della comunità immigrata a ridurre il senso della sua presenza nel paese di approdo all’esclusivo utilizzo di una porzione di suolo respingendo ogni osmosi con l’esterno a cominciare dal rifiuto della lingua del paese di destinazione. E’ la storia delle Little Italy, delle China Town, dei Londonistan, di certe banlieues ed è un processo di balcanizzazione in cui altrettante krajine costituiscono forme di statualità alternative. E come proprio i Balcani insegnano le krajine sono fucine di conflitti insolubili.

Dunque il primo presupposto delle politiche di integrazione è il contenimento del numero delle persone immigrate rispetto al numero dei nativi, oltre la soglia critica -di non facile definizione e inevitabilmente affidata alla politica- la contaminazione è illusoria e il conflitto solo questione di tempo. La strategia dell’integrazione è quindi tanto più autorevole quanto più chi la propone dichiara esplicitamente l’esistenza del limite quantitativo.

È il momento di approfondire il secondo nodo ossia quali siano le rinunce accettabili per conciliare le diversità. L’esperienza dice che la differenza di identità tra la persona indigena e quella immigrata è tanto più significativa quanto più l’immigrato si riconosce in culture e professioni di fede della ortoprassi e ne accetta la funzione prescrittiva, quella normazione meta statuale è motivo di conflitto reale -e motivato a dire il vero- quando contrasta con principi essenziali dell’ordinamento giuridico dello Stato.

Il riferimento corre ad istituti quali la responsabilità individuale della persona, l’uguaglianza davanti alla legge, l’uguaglianza tra i generi, l’unicità della giurisdizione e si tratta di aspetti che in tutta Europa sono causa di frizione crescente tra segmenti dell’immigrazione, gli stati ospitanti e le società autoctone. Talvolta il desiderio di andare incontro all’immigrato portatore di culture e prassi differenti conduce a mettere in discussione quei capisaldi giuridici sulla base di inconsapevolezza delle conseguenze o, invece, di una deliberata ambiguità che in realtà sottende il disinteresse per quei pilastri. Mettere in discussione il principio della responsabilità individuale implica tribalismo e cancellazione del connotato della persona come cittadino e, ancora, nega il presupposto del principio di democrazia; negli ordinamenti democratici il godimento dei diritti e la corresponsione ai doveri sono sempre individuali e mai collettivi, di tribù o di casta. Paradossalmente, e per fortuna, proprio in virtù dell’ordinamento liberaldemocratico, la persona che arriva in Italia può chiedere asilo appunto perché gode di un diritto che è suo dalla nascita in quanto individuo e non per appartenenze.

Si potrebbe continuare nell’elenco di prospettive indesiderabili menzionando coloro che propongono la differenziazione del diritto di famiglia su base etnica o religiosa o chi, sempre sulla base del medesimo presupposto, propone la giurisdizione differenziata; fenomeno diffuso in Europa più di quanto si pensi, con buona pace del principio di uguaglianza. Sto indicando altrettanti elementi fondativi dell’ordinamento giuridico di una democrazia liberale, la bella Costituzione della Repubblica Italiana è uno di quelli, in assenza dei quali la democrazia viene meno.

C’è un ulteriore risvolto che ha origini lontane, risalenti alla lotta anticoloniale. Chi per andare incontro all’immigrato ipotizza anche la rinuncia ad aspetti fondativi della democrazia lo fa generalmente per onorare l’idea dell’equipollenza delle culture: il colonialismo costruì imperi oltremare dicendo di portare culture e civiltà superiori, l’anticolonialismo contestò la pretesa superiorità dei colonizzatori mettendo in luce lo spessore delle civilizzazioni soccombenti. È da lì che nel tempo nasce l’equivoco dell’aprioristica equipollenza delle culture, attenzione di tutte le culture tout court, che porta alcuni alla conseguenza di parificare per dignità le culture democratiche, a-democratiche, antidemocratiche. Non va nemmeno dimenticato che esistono il Bene e il Male e anche culture del Bene e del Male, il Nazionalsocialismo fu una grande cultura del Male.  È necessario allora prendere atto che generalizzare l’equipollenza delle culture è un errore e bisogna rivendicare invece la superiorità della cultura democratica su quella a-democratica o antidemocratica perché nessuna cultura più di quella democratica è in grado di offrire la liberazione e la dignità della persona umana. Chi non condivide questa affermazione sarà d’aiuto motivando il suo dissenso. 

Qui stiamo specificamente ragionando dell’impatto dei convincimenti a-democratici o antidemocratici di segmenti dell’immigrazione sull’assetto delle liberaldemocrazie ma i caratteri di questo argomento hanno un riflesso più ampio. Come sarà compatibile la giustificazione, se non l’accoglienza benevola, del profilo a-democratico o antidemocratico della cultura o della professione di fede della persona immigrata con la critica alla richiesta dei pieni poteri dell’onorevole Matteo Salvini o il loro effettivo esercizio da parte del Presidente Viktor Orbàn? Qui la riflessione riguarda molto il campo politico della Sinistra e mette in discussione persino la sua storia. Su che cosa si è fondata la lotta ai totalitarismi, a cominciare dalla Resistenza, se non sul presupposto della superiorità della democrazia?

Volendo concludere, si può dire allora che quando l’identità dell’immigrato mette in discussione la democrazia l’integrazione non può che essere intesa a senso unico e fare parte di un esplicito patto di cittadinanza che va definito con trasparenza a priori. Non va fra l’altro dimenticato che un corpo sociale democratico non può sopravvivere in quanto democratico allorché gli a-democratici o gli antidemocratici superano la soglia critica.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi