Comprendersi è tradursi

Maurizio Veglio
ASGI, Human Rights and Migration Law Clinic (HRMLC)

Non è solo l’aria che si respira. Tutti sondaggi di opinione, le moderne tavole della verità, lo confermano: i cittadini italiani sovrastimano la presenza di stranieri e di musulmani in Italia di quattro volte, dichiarandosi diffidenti e al tempo stesso ignoranti. Un Paese immaginario, ancora vittima dello spauracchio, maschio, di pelle nera e fede islamica, diverso e predatore. Non è solo una semplificazione. È una falsificazione: la maggior parte degli stranieri che vive in Italia è femmina, bianca e cristiana, ed è già diventata parte della famiglia italiana, spesso vive nella stessa casa, si occupa dei suoi membri anziani o malati. Dietro l’orco è nascosta una nutrice.

In quella stessa casa, l’album di famiglia custodisce un segreto importante. Un ricordo di giovinezza. È una fotografia scattata il 2 novembre 1938, nell'allora piazza del Castello di Tripoli: ventimila italiani, metà dei quali contadini veneti, recitano inginocchiati il Padre Nostro. Appena sbarcati hanno invaso le strade della capitale libica, pronti a prendersi il Paese, quindi hanno occupato la piazza principale per invocare, in una vibrante preghiera collettiva, il proprio Dio: «tutti hanno le lacrime agli occhi», scrive Angelo Del Boca.

Sotto lo sguardo del Duce, «in dimensioni colossali, dipinto su di un muro», la foto raffigura l'atto primo della colonizzazione demografica della Libia, con la regia dell'abile e teatrale Governatore Italo Balbo. È un atto di guerra (anche) religiosa, di sostituzione demografica e di espropriazione di massa, vale a dire gli spettri più frequentemente agitati dall'odierna retorica anti-migratoria.

Ottanta anni dopo, a rotta invertita, le carrette hanno sostituito le navi: non si balla più sui ponti, niente valigie di cartone, ma si lotta per la vita, si prega assiepati, si partorisce e si muore in mare. Le armi della retorica, all’epoca così in auge – Mussolini battezzò le 15 navi dei colonizzatori «convoglio della Patria conquistatrice, della Razza guerriera e terriera, che naviga verso la Regione Solare» – continuano a sparare.

Il discorso collettivo ancora dipinge l'Italia come un ambito Paese di immigrazione, addirittura sotto scacco di flussi predatori unidirezionali, ma la realtà smaschera anche questa sciocchezza, travolgendo il cliché ormai logoro dell'invasione con i numeri dell'evasione: negli ultimi 15 anni sono emigrati oltre 2 milioni di italiani e l’orda dei “moderni barbari” è sufficiente appena a compensarne l’emorragia.

I fogli notizie delle Questure compilati sulle coste meridionali, in occasione dello sbarco di chi sopravvive al Mediterraneo, raccontano una storia accomodata, ingentilita. In quei moduli così sommari e presuntuosi, tra le ragioni dell’arrivo nel Paese (lavoro, famiglia, asilo) manca quella più importante: la prima causa di immigrazione in Italia è la volontà di attraversarla, di abbandonarla, di ripudiarla. Le code e gli accampamenti a Ventimiglia, a Bardonecchia, a Como, sul Brennero misurano l'incapacità di attrarre perfino i richiedenti asilo, gli ultimi della fila, coloro che non hanno scelta e che eppure preferiscono rischiare le botte, il freddo e la morte piuttosto che rimanere in Italia. I numeri sono impietosi: il 1 gennaio 2017 metà delle persone arrivate nel 2012 non si trovava più in Italia, mentre prima della chiusura delle frontiere e dell'introduzione degli hotspot – che a partire dal 2015 hanno sigillato l'ingresso e l'uscita dal Paese – circa il 60% di chi è sbarcato in Italia ha proseguito verso Nord. Il Belpaese umiliato come un qualunque Paese di transito, ridotto a semplice stazione intermedia tra Turchia o Libia, da un lato, e Germania, Francia o Scandinavia dall’altro. Forse sta anche qui una delle radici più sottili delle politiche di ostilità dell’ultimo decennio: paura, certamente, ma anche ritorsione, sanzione dell’offesa subita.

Eppure l’avversione per gli stranieri è un sentimento che l’Italia non si può permettere. Demograficamente, anzitutto. Negli ultimi cinque anni il Paese ha perso mezzo milione di residenti, il crollo delle nascite ha raggiunto livelli record e quasi un terzo della popolazione rientra nella fascia over-65. L’invecchiamento non incide solo sul sistema pensionistico, ma è una delle spie più affidabili della perdita di capacità creativa e innovativa di un Paese.

Le politiche che producono irregolarità sono inoltre un clamoroso harakiri economico, come attestano i dati relativi all’incidenza del lavoro straniero sul Pil nazionale e alla diffusione del sommerso. A ciò si accompagnano intollerabili discriminazioni in termini di salari e condizioni di sicurezza: la popolazione straniera è la più esposta al pericolo di ricatti, sfruttamento e infortuni, a conferma del fatto che le garanzie fondamentali dello Stato sociale sono tutt’altro che un bene comune.

Completano la descrizione di questo fallimento istituzionale i sonori ceffoni assestati a più riprese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia per il trattamento dei migranti, dall’illegittimo respingimento verso la Libia all’accoglienza in condizioni degradate, fino alla reclusione di fatto negli hotspot in assenza di una base giuridica.

Proprio la detenzione amministrativa – negli hotspot, nei centri di permanenza per i rimpatri, nelle zone di transito aeroportuale – è lo specchio del sentimento di una comunità verso l’estraneo. L’Europa del nuovo millenno ha acconsentito alla segregazione dei “cittadini di Paesi terzi” allo scopo di eseguirne il rimpatrio, legittimando così un rito di separazione su base etnica – un nuovo atto di apartheid – che condensa il disprezzo della dignità individuale e del principio di uguaglianza.

Tutto ciò sembra non scalfire la narrativa dominante, quel coprifuoco del buonsenso che invoca provvedimenti di emergenza e giustifica un regime di eccezione, fino all'umiliazione: “Ha il permesso di soggiorno?” è il suo epitaffio velenoso.

Rovesciare il paradigma della prevaricazione richiede uno spostamento, la capacità di decentrarsi e riposizionarsi su un piano di parità: solo un orizzonte aperto, cosmopolita, poliglotta può ospitare uno scambio autentico, a cui ognuno contribuisce con le proprie parole. La necessità di una continua traduzione tra voci e mondi reciprocamente “estranei”, il dialogo tra stranieri, impone di lavorare con le rispettive lingue, in particolare tra di esse. Esige la consapevolezza dell’arbitrarietà delle convenzioni – come si traduce famiglia, individuo, religione? – così interiorizzata da non essere più visibile agli occhi di molti. Svela la trasformazione delle lingue veicolari, ormai divenute extraeuropee: il loro futuro non è più nelle mani, e nelle bocche, di chi vive in Gran Bretagna, Francia o Spagna, ma nella demografia africana e americana.

Il dialogo deve quindi attingere a un nuovo vocabolario, una nuova lingua franca, uno spazio di libertà per neologismi e intraducibili, quei concetti che vagano di lingua in lingua senza mai trovare una definizione univoca: rule of law, dignità del lavoro, libertà di scelta, comunità.

La traduzione porta con sé la lotta all’atavica diffidenza verso l’eteroparlante: “per molti chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo “strano”, il diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente, uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo. Per questa via, l’attrito linguistico tende a diventare attrito razziale e politico, altra nostra maledizione”. Sono parole di un grande uomo, Primo Levi, che deve la propria sopravvivavenza nel lager anche alla capacità di ascoltare, decifrare, tradurre lingue e umanità distanti. La traduzione è “opera di civiltà e di pace”, ha spiegato, opera laica, accogliente e curiosa. Ed è una delle chiavi di accesso, forse la più rivelatrice, a quella grammatica universale che accomuna i reciproci estranei, i barbari, i balbuzienti, i nemici veri o immaginari.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi