Il presente e il futuro dell’Europa passano (ancora una volta) dai Balcani occidentali

Andrea Margelletti
Presidente del Ce.S.I.

A Sir Winston Churchill si attribuisce, tra verità e leggenda, un adagio secondo il quale i Balcani producono più storia di quanto riescano a digerirne. Una frase che, indipendentemente dall’autenticità della sua paternità, riassume in modo più che egregio il ruolo politico che questa turbolenta, variegata e magnifica regione europea ha giocato nello scacchiere del Vecchio Continente.

I Balcani sono stati e sono tutt’ora il punto di incontro e di scontro tra quelle che sommariamente chiamiamo culture occidentali ed orientali ma che dovremmo più onestamente definire “interessi” occidentali e orientali. Nei Balcani convivono Cattolicesimo, Cristianesimo Ortodosso ed Islam. I Balcani sono una terra di confine per eccellenza, dove si sono confrontati gli Imperi mitteleuropei, la Russia Zarista e la Turchia Ottomana e dove oggi prosegue la partita geopolitica tra i loro eredi, vale a dire la Germania della kaiserina Merkel, la Russia dello Zar post-moderno Vladimir Putin e la Turchia neo-ottomana del Sultano Erdogan. Tuttavia, oltre agli attori tradizionali, nel tempo sono subentrati gli Stati Uniti, l’Unione Europea (pur nei suoi limiti strutturali figli del perdurante ascendente delle agende nazionali su quelle comunitarie) e, soprattutto, la Cina di Xi Jinping, potenza matura a cui non bisogna più affiancare espressioni quali “in via di sviluppo” o piuttosto “in ascesa”. 

I Turchi arrivarono alle porte di Vienna attraverso i Balcani, La Prima Guerra Mondiale deflagrò a Sarajevo e la Guerra di Jugoslavia fu a lungo l’ultimo conflitto europeo prima della crisi del Donbas. I Balcani sono una terra florida e ferita, frammentata e omogenea dove oggi il progetto europeo misura le sue ambizioni e si confronta con i propri limiti e le proprie incertezze.

Infatti, con il successo del referendum sulla Brexit e l’uscita del Regno Unito dall’Ue, l’Europa ha conosciuto il suo maggior momento di crisi dell’era pre-covid. La decisione della maggior parte dei britannici di tracciare un percorso divergente da Bruxelles è stato soltanto l’ultimo tassello di un mosaico di crisi formato da criticità trasversali ai Paesi membri, dalla gestione dell’emergenza migratoria tra il 2015 e il 2019 alla crescita del populismo euroscettico, dalle vulnerabilità dei sistemi democratici e dei valori liberali in Polonia e Ungheria fino alle diversità di vedute sui rapporti con la Russia putinista e con gli Stati Uniti trumpiani.

In questo contesto, in cui l’Unione sembrava in balia di forze centrifughe ingovernabili e di una società civile alquanto disillusa, il processo di allargamento nei Balcani è apparsa come un’ancora di salvezza e come la ricetta giusta per il rilancio. In questa direzione va letta la decisione del Consiglio Europeo (24 marzo 2020) di aprire le negoziazioni per l’adesione di Albania e Macedonia del Nord e di farlo sulla base di un nuovo corpus normativo e procedurale che enfatizza non solo gli aspetti tecnico-economici ma che, in aggiunta, sottolinea con forza la necessità del rispetto di alti standard in materia di diritti umani, stato di diritto e rule of law. Quest’ultimo accento ha il sapore di una autentica clausola di salvaguardia per evitare nuove sindromi polacche ed ungheresi e, al contempo, intende inviare un messaggio forte a quegli altri candidati balcanici, quali Serbia, Bosnia e Kosovo, che ancora faticano nel costruire democrazie efficienti e funzionali.

L’idea di far passare il rilancio del progetto europeo attraverso l’allargamento nei Balcani deriva da alcune necessità geopolitiche innegabili e porta in dote un paniere di rischi ed opportunità.

Le necessità geopolitiche riguardano la competizione per la primazia nella proiezione di influenza nella regione. Infatti, come mai nella storia recente dei Balcani, gli attori esteri hanno posizioni consolidate e in contrasto con quelle comunitarie. Basta pensare alla Turchia, che attraverso le sue ONG, i suoi istituti di cultura ed i suoi investimenti nel settore infrastrutturale, medico, educativo e finanziario ha rafforzato il proprio ascendente in Bosnia e Kosovo. In secondo luogo non si può ignorare l’azione di Mosca, caratterizzata dalla relazione speciale con la Serbia e dall’uso di un ventaglio di strumenti “ibridi”, dalla vendita di armamenti al riciclaggio di capitale di provenienza mafiosa, dall’allevamento di leader politici euro-scettici fino all’attuazione di attacchi cibernetici o al sostegno a sgangherati colpi di Stato. Tutto questo senza dimenticare la leva energetica ed il peso della “partita dei tubi” per rifornire gli affamati mercati europei di gas siberiano. Infine, la Cina di Xi vede nei Balcani il porto europeo della nuova via della seta, il retroterra logistico per massimizzare i benefici derivanti dall’acquisizione del porto greco del Pireo.

Il maggior problema alla base della proiezione di influenza russa, turca e cinese, oltre a quello di privare l’Europa di importanti risorse umane e materiali, attiene alla promozione di sistemi di governance lontanissimi da quelli difesi e promossi da Bruxelles. Infatti, pur nei suoi limiti, l’azione dell’Ue è sempre stata caratterizzata dalla difesa dei diritti individuali e collettivi e dallo sforzo di miglioramento di istituzioni democratiche e liberali. Viceversa, Ankara, Mosca e Pechino esportano un modello autoritario e poco sensibile alla progettualità politica liberal-democratica. Per loro i Balcani sono solo una cornucopia di risorse da sfruttare e non un territorio in cui sviluppare gli standard di vita della popolazione locale. La loro azione è tesa a normalizzare aree instabili senza intervenire sui fattori alla loro origine. Per questo motivo, la riapertura del dossier di allargamento balcanico ha, tra i suoi obbiettivi, quello di impedire la diffusione di un modello di relazioni tra Stati basato sulla pura e semplice convenienza e, in secondo luogo, quello di neutralizzare l’ascesa di sistemi politici poco rappresentativi o addirittura autoreferenziali ed anti-europei. In sintesi, l’impegno Ue nei Balcani è anche una sfida di principio tra democrazia e “democratura”, tra partnership regionale e ascesa di potenziali cavalli di Troia.  

Tuttavia, per evitare ipocrisie, non è possibile omettere il fatto che le opportunità economiche derivanti da un mercato di circa 17 milioni di persone e da un territorio dalla grande valenza strategica per la sua posizione geografica fanno gola ad oriente come ad occidente. La discriminante sta tutta nei dividendi dello sfruttamento inclusivo o esclusivo di tali risorse.

Al di là della grande competizione internazionale, l’allargamento europeo nei Balcani rappresenta una sfida squisitamente interna all’Ue. Sotto il profilo dei rischi, la decisione di dare nuovo smalto all’Unione tramite l’ingresso di nuovi membri potrebbe scatenare le ire di quei Paesi del nord Europa poco propensi ad aumentare il numero dei componenti la famiglia di Bruxelles, soprattutto con Stati facenti parte della cordata mediterranea, tradizionalmente poco inclini ad una gestione “frugale” delle casse pubbliche e propensi a ridistribuire con maggiore equità i migranti provenienti da Africa e Medio Oriente. Per non parlare della necessità, di fronte a nuovi ingressi, di rivedere il bilancio europeo e modificare le traiettorie dei fondi strutturali per il rinnovamento delle architetture produttive, sociali ed istituzionali dei Paesi balcanici. In una parola, da Copenaghen fino a Riga (e magari anche fino a Parigi) c’è ben poca intenzione di accogliere nuove generazioni di “euro-entusiasti” che immaginano l’Europa come un bancomat in grado di risolvere tutti i loro problemi. Una criticità, quest’ultima, avvertita con ancora più vigore in un momento come quello odierno, in cui tutto il continente necessita di capitali freschi, sotto forma di prestiti e sussidi, per mitigare i devastanti impatti economici della pandemia da nuovo coronavirus.

Inoltre, un ulteriore rischio che non si può ignorare è quello relativo ai livelli di democraticità nei Paesi candidati. Se la Macedonia del Nord è da considerarsi un esempio virtuoso, lo stesso non è possibile dire per l’Albania che, nonostante i passi da gigante compiuti dalla fine del regime comunista, ancora deve convivere con il deleterio ruolo svolto dai conglomerati criminali nelle dinamiche politiche pubbliche. Mostrare eccessiva flessibilità o derogare ai principi politici necessari all’ingresso nell’Ue potrebbe offrire nuovi argomenti ai populismi polacco e ungherese e contribuire a creare nuove fratture a Bruxelles e Strasburgo.

Tuttavia, ad ogni rischio corrisponde anche una opportunità. Per i Balcani, l’ingresso nell’Ue potrebbe davvero significare mettere la parola fine alle faglie di conflitto che attanagliano quei Paesi, gettando basi solide per la pace ed il dialogo tra serbi e albanesi, tra croati e serbi, tra ortodossi e musulmani, gettando le basi per una crescita economica solida e duratura. Esattamente come nel secondo dopoguerra, quando la nascita della Comunità Europea inaugurò una nuova era di pace e cooperazione  tra Paesi che per secoli si erano combattuti l’un l’altro, così l’allargamento dell’Ue nei Balcani potrebbe trasformare le fratture delle guerre jugoslave in una pagina, per quanto triste, dei soli libri di storia.