Un impegno europeo per le libertà e i diritti politici e sociali in America Latina

Eugenio Marino
Consigliere politico del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale

Gli accadimenti degli ultimi anni – e soprattutto quelli degli ultimi mesi – in America Latina dovrebbero spingere tutti, in special modo l’Europa, a guardare a quel continente col metro lungo della storia degli ultimi 500 anni.

Un continente ricco di una natura generosa, nella quale abbondano dalle classiche materie prime come il petrolio, l’oro e il ferro a quelle che sempre più connoteranno lo sviluppo futuro del pianeta perché di primaria importanza per la fabbricazione della strumentazione e delle tecnologie di telecomunicazione, per i satelliti artificiali e per le batterie delle auto elettriche: cadmio, cobalto e litio. Ma un continente che risulta essere il più diseguale al mondo nella ripartizione della ricchezza, del reddito, dei diritti.

Un continente con oltre 190 milioni di persone in stato di povertà e più di 70 milioni in stato di povertà estrema, che ha subito in 500 anni la bramosia degli europei prima e dagli statunitensi poi, che è entrato nel XXI secolo con alle spalle storie di sopraffazione, violenza e sangue. Un continente ‘colonia’, sfruttato per le sue materie prime e per una manodopera che produceva beni di consumo per i mercati del Primo Mondo, senza favorire industrializzazione e mercato locali. Una massa sconfinata di ‘miserabili’ che pareva destinata a perpetuare sé stessa, a fronte di ristrette élite politiche e agrarie che detenevano benessere e potere, a suon di colpi di Stato e dittature sanguinarie pilotate dall’estero.

Negli ultimi decenni, poi, la via democratica ha prevalso e si è vista l’affermazione di fronti progressisti che, tra molte contraddizioni, sono riusciti a governare in larga parte dell’America Latina e, pur rimanendo nel quadro del sistema capitalistico e liberal democratico globale, hanno attivato politiche economiche di redistribuzione, rafforzamento del welfare, coesione ed equità sociale, promozione di diritti civili e pari opportunità, lotta alla povertà, nazionalizzazioni, che hanno consentito a molte decine di milioni di persone di uscire dalla povertà assoluta, di acquisire capacità di consumo e godere di diritti che fino ad allora erano negati e sembravano irraggiungibili.

Si è trattato, quindi, di una ‘rivoluzione’ nonviolenta, di un’impresa collettiva di popolo, di generazione e di una classe dirigente diffusa in larga parte del continente, seppure con molte differenze e peculiarità da realtà a realtà.

Il paese leader di questa ‘rivoluzione’, che meglio e con più forza ha incarnato il cambiamento attraverso la via democratica all’emancipazione, è stato il Brasile con la leadership del presidente Lula. Esso ha saputo tenere i conflitti all’interno dell’alveo democratico, dell’economia di mercato (ancorché regolata), delle regole internazionali, dell’amicizia senza subalternità con Europa e Usa.

Lula, grazie alla sua autorevolezza – e le dimensioni del Brasile non sono certo un dettaglio – ha svolto un ruolo guida nelle politiche progressiste del continente negli anni Duemila, contenendo le spinte radicali del Venezuela di Cháavez e della Bolivia di Morales, ha saputo farsi punto di riferimento di paesi come il Cile e l’Uruguay e trascinare l’economia dell’Argentina.

Fondamentale è stato anche il ruolo di facilitatore nel difficile e incompiuto processo di integrazione dell’America Latina che Lula ha svolto e nel dialogo con le grandi potenze, dagli Usa all’Europa, dalla Cina alla Russia, rappresentando una alternativa di governo di sinistra al mercato e alla finanza selvaggia.

Ecco dunque che, dopo 500 anni di storia, per la prima volta l’America Latina è stata attraversata da una possibilità di riscatto (di uomini e nazioni) attraverso il valore universale della democrazia e dell’emancipazione degli ultimi in un contesto di produzione e redistribuzione di ricchezza all’interno del sistema capitalistico.

Una stagione in cui davvero la sinistra è riuscita ad affermare la propria egemonia culturale e non solo a prevalere elettoralmente: lo Stato era soggetto protagonista delle politiche economiche, senza alcuna subalternità ai miti neoliberisti ancora tanto forti in Europa come nel settentrione del continente americano.

Indubbiamente il modello ha funzionato, con tutti i suoi limiti, con tutte le sue contraddizioni, persino con tutte le sue ombre – penso ai fenomeni corruttivi soprattutto nella fase espansiva dell’economia e fino alla crisi economica, che in America Latina è arrivata nel 2012.

A quel punto è iniziato un fenomeno di erosione del ciclo democratico-progressista e dei suoi indiscutibili e storici risultati. Erosione dovuta non solo alla congiuntura economica negativa, ma anche all’incapacità di praticare fino in fondo alcune riforme dei sistemi di rappresentanza (le mancate riforme del sistema elettorale nel Brasile di Lula), alla troppo diffusa corruzione all’interno del ceto politico che non si è riusciti a eradicare in quasi nessuno dei paesi latinoamericani, ad alcune forme di autoritarismo che hanno preso il sopravvento anche a sinistra (come nel Venezuela di Chávez e di Maduro), al persistente stato di ingiustizia sociale (come in Cile, Colombia e Perù).

In queste condizioni, il continente ha cambiato segno politico quasi ovunque, in modo più o meno democratico, dal Cile all’Uruguay, dal Brasile alla Bolivia. E ciò che negli anni del ciclo progressista sembrava essere diventato un valore universale e una scelta irreversibile, cioè la democrazia, oggi è gravato da un discredito diffuso e ed è messo in discussione.

In Venezuela vi è la paralisi e un conflitto permanente tra presidenza della Repubblica ed esecutivo da una parte e presidenza della Camera e relativa Assemblea legislativa dall’altra: le principali istituzioni del Paese contrapposte si delegittimano a vicenda, deboli politicamente e incapaci di dialogare e gestire il Paese, catapultato in una crisi istituzionale, politica ed economica senza precedenti.

In Cile le manifestazioni popolari mettono in discussione l’intero sistema e la Carta costituzionale ereditata da Pinochet.

In Bolivia ed Ecuador lo scontro razziale tra maggioranza indigena e minoranza bianca si porta dietro anche quello economico.

In Brasile lo scontento popolare monta a causa della svalutazione e dell’esplosione record della povertà dopo l’era Lula, mentre crescono i timori per lo sfruttamento insostenibile dell’Amazzonia programmato da Bolsonaro.

In Colombia, in piena stagnazione economica, l’ex presidente Uribe – latifondista tra i più ricchi del Paese e legato alle bande armate degli agrari che assassinano i contadini – agita la popolazione contro i venezuelani che scappano dal Paese e si rifugiano al confine e contro il trattato di pace con le Farc.

In Perù la popolazione protesta contro la Corte Costituzionale che ha rimesso in libertà la figlia dell’ex presidente Fujimori.

In questo quadro di scontento generalizzato, di crescita delle diseguaglianze tra la popolazione, di squilibrio tra un mondo della finanza che si espande in modo esponenziale a fronte di una economia reale che decresce, crolla la fiducia verso la politica rappresentativa e nel sistema democratico. Tanto che se all’inizio del ciclo progressista la fiducia nella democrazia si attestava sopra al 60%, oggi è scesa sotto il 50%. Ciò significa che una fetta larga della popolazione non esclude il ritorno a sistemi autoritari, a forme di privazione della libertà, a pesanti interferenze e interessi strategici stranieri in cambio di sicurezze economiche e ordine sociale.

Quindi ogni strada torna a essere percorribile.

Ma i milioni giovani che in Cile lottano contro le diseguaglianze, per i diritti sociali e una nuova Costituzione, o quelli che in Brasile manifestano per l’Amazzonia, possono rappresentare un argine al rischio militare. Se invece gli interlocutori politici non sono in grado di mediare, di dare risposte o, peggio, alimentano strumentalmente la contrapposizione con il preciso intento di stimolare in quella larga parte del popolo che non ha più fiducia nella democrazia la voglia di ‘sicurezza’, il rischio più serio è che davvero possano tornare gli eserciti a “rimettere ordine”.

Le manifestazioni a cui assistiamo sono imponenti e oppongono un rifiuto netto a politiche economiche neoliberiste, colpendo certamente i governi di destra, ma non risparmiando quelli di sinistra che portano con sé elementi forti di populismo. E rischia di non bastare più il fatto che vi sia una differenza tra chi pratica politiche redistributive e rispetta i diritti umani e chi va in direzione opposta.

I giovani manifestano contro un sistema, quello neoliberista-globalista nel quale destra e sinistra si sono alternate, sostenuti anche dalle generazioni meno giovani, a dimostrazione che la protesta non è un fatto solo generazionale ma una critica popolare al sistema. E i movimenti di donne e studenti, di minatori, di indigeni non contestano il sistema inteso come modernità, sviluppo tecnologico o globalizzazione, ma il sistema della produzione e distribuzione per come lo hanno subito dopo la crisi.

Chi protesta non è un luddista nazionalista che vuole rinchiudersi entro i confini e ritornare a modelli di rassicurante statalismo, anche a costo di sacrificare parte delle proprie libertà. Rivendica anzi maggiori libertà, guarda al mondo, con esso è interconnesso, accoglie lo sviluppo tecnologico del quale si serve anche per le proprie manifestazioni, ma non vuole più rimanere ai margini o addirittura escluso dalla produzione di ricchezza nazionale e globale. Chi manifesta, anche con violenza, non si accontenta della retorica dell’innovazione se a questa non segue la redistribuzione degli effetti positivi dell’innovazione stessa e non si fida dei politici che hanno occupato la scena fin qui.

È su tutto questo che l’Europa e i singoli Stati europei devono agire. La strada giusta è stata intrapresa anni fa e ha avuto una svolta importante nel 2019: l’accordo Ue-Mercosur, che però non prende quota ed è messo a rischio da diversi protezionismi in Europa come in Sudamerica.

Eppure spingere su questo acceleratore significherebbe creare una zona di libero scambio di circa ottocento milioni di cittadini che, insieme all’economia, rivendicano diritti, welfare, lavoro, sicurezza alimentare (e non solo) in un contesto culturale molto affine tra i nostri due continenti. Europa e America Latina sono infatti culturalmente molto più vicine tra loro di quanto esse stesse non lo siano con Usa, Cina e Russia, gli altri giganti demografici, economici e culturali che giocano una partita geopolitica mondiale e fanno valere pesantemente i propri interessi in America Latina, persino agendo da fattori disgreganti. E proprio l’Italia, anche per la storica, numerosa e qualificata presenza di emigrati e discendenti che ha in quel continente (insieme alle affinità culturali), dovrebbe avere il maggiore protagonismo sia in campo politico e nello sviluppo dell’accordo Ue-Mercosur, sia in campo di cooperazione e di sviluppo di progetti di ogni tipo, a cominciare dalla possibilità di creare anche un’area di libera circolazione degli studenti e di chi voglia muoversi per seguire corsi di studio o di laurea e post laurea da un continente all’altro. E in questo proprio l’Italia ha molta strada da fare se persino ai suoi discendenti che volessero studiare in Italia chiede per la durata dei corsi l’accantonamento e il blocco di cifre che, per gli stipendi locali e il cambio reale tra euro e monete latinoamericane, risultano proibitive ed escludono la quasi totalità degli aspiranti.

Ma nell’attesa che l’accordo Ue-Mercosur prenda il volo, l’Europa deve far sentire forte la propria attenzione per ciò che succede, deve far passare chiaramente il messaggio che alle istanze di chi manifesta vanno date risposte di merito quali maggiori diritti, lavoro, libertà, assistenza medica e istruzione, redistribuzione di ricchezza e diminuzione dei privilegi. E che non è accettabile (e l’Europa non l’accetta) l’idea strisciante che alle proteste e al disordine si possa rispondere con la forza e con i militari. Poiché quel riscatto arrivato dopo 500 anni di storia e con il ciclo democratico e progressista che aveva fatto sperare nella chiusura delle “vene aperte dell’America Latina” non può essere interrotto né, tanto meno, può essere reversibile.

Per farlo, l’Europa deve tenere altissima la propria attenzione su quel mondo, ribadire con forza e valorizzare il peso dei milioni di suoi cittadini titolari di passaporto che ha in quel continente e gli altri milioni di euro-discendenti come elementi di interesse nazionale, pezzi di Italia e di Europa che non possono accettare regressioni rispetto agli standard democratici occidentali.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)