Transizioni blindate?

Daniele Pompejano
Docente di Storia e Istituzioni delle Americhe, Università di Messina

Secondo indagini sviluppate a cavallo del millennio la composizione della forza-lavoro in America Latina è riconducibile solamente per un 39% alle vecchie categorie sociologiche. Prevalgono per il resto lavoratori informali, sottoproletariato e ceti medi. (Portes A.- Hoffman K., Latin American Class Structure: Their Composition and Change During the Neoliberal Era, in “Latin American Research Review”, 38.1, 2003). La natura flessibile del lavoro e la precarietà dei redditi dipendenti sono lo specchio di una maggiore disgregazione sociale prodotta dal neoliberismo. Per governarla sarebbero necessarie attive politiche pubbliche che i governi non sono però disposti a garantire in forza di scelte di spesa che risalgono al Washington Consensus (1989).

Con le riforme democratiche degli anni Ottanta non sono riapparsi - salvo che in pochi Paesi partiti storici con i programmi, le ideologie e le relative radici sociali. In corrispondenza alla flessibilità dei ruoli, le domande sociali si sono moltiplicate e differenziate, e dalla società civile ne sono emerse di nuove legate al genere, all’ambiente e alle popolazioni originarie; bisogni cumulati e tuttavia insoddisfatti una volta che dagli anni Ottanta la lotta all’inflazione è apparsa come obiettivo primo della democratizzazione.

In realtà, tra il 1999 e il 2004 gli effetti paradossali prodotti dal monetarismo hanno suscitato dal Venezuela al Brasile revisioni dell’ortodossia neoliberista.  E nella Pinky Tide una più intensa partecipazione democratica è stata accompagnata da un ciclo economico virtuoso. Dal 2001 in avanti la crescita nell’economia reale è risultata trainata dalla domanda di beni primari da parte delle economie emergenti. A differenza del passato, i governi latinoamericani non si sono lasciati irretire dalle tentazioni del credito facile specie dopo l’11Settembre. Dunque, mentre le economie più sviluppate erano sommerse dalla crisi delle bubble finanziarie nella Grande Recessione del 2007/2008, le maggiori economie latinoamericane registravano invece crescita, rientro dai deficit e attivi commerciali.

La convergenza fra trend politico e trend economico è apparsa tuttavia contraddetta sul piano politico dai più recenti esiti elettorali: negli ultimi cinque-sei anni si va registrando il ritorno di governi neoliberisti. Intense mobilitazioni, innescate spesso da provvedimenti apparentemente marginali come l’aumento del biglietto di trasporto urbano, hanno scosso molte società latinoamericane. In Cile e in Bolivia si è addirittura concretizzata di ritorno la minaccia dei militari e il presidente Evo Morales è stato costretto all’esilio. Crisi politiche acute hanno investito la sperimentazione di sistemi di democrazia partecipata - è il caso del Venezuela- scivolati verso chine autoritarie e soffocati da inflazione addirittura a sei cifre.

Tirando le somme, nella globalizzazione neoliberista si è riproposto irrisolto il dilemma keynesiano: come combinare crescita ma senza inflazione con equilibri esterni ma senza deflazione E quanto al consenso politico: come negoziare con interlocutori sociali e politici poco istituzionalizzati, con identità e memoria fluide, al fine di garantire stabilità politica e affidabilità?

 Propongo due livelli di riflessione, quello economico e quello politico-istituzionale, strettamente  intrecciati.

La Pinky Tide è apparsa coronare e consolidare la transizione democratica. È d’altronde curioso che in tutta l’America Latina si siano prodotte dal 1979 ben 37 riforme elettorali tutte orientate verso il sistema maggioritario e presidenzialista. Quindici sono state poi le nuove costituzioni e 140 gli emendamenti (D. Nolte- A. Schilling-Vacaflor, New Constitutionalism in Latin America, Routledge, New York 2012). Se rapportiamo le riforme politiche ed elettorali ai contesti sociali, il rafforzamento del presidenzialismo - il rafforzamento dunque dell’esecutivo rispetto al legislativo - può spiegarsi con l’esigenza di conferire stabilità agli indirizzi di governo. Nei casi di elezione diretta, la legittimazione differenziata   rispetto ai parlamenti è intanto in grado di conferire maggiore autonomia all’esecutivo. Di più: il presidenzialismo appare come momento di sintesi della sottostante pluralità politica che guadagna rappresentanza parlamentare grazie ai sistemi elettorali proporzionali. Vengono così integrate nelle istituzioni domande e rappresentanze di un elettorato frammentato come frammentata è la società (K.L. Remmer, The Politics of Institutional Change. Electoral Reform in Latin America, 1978-2002, in “Party Politics”, 1, 2008).

Le regole del proporzionale sono state d’altronde manipolate elevando le soglie, ridefinendo i distretti elettorali, compensando gli eventuali squilibri di rappresentanza politica nella Camera bassa con un’assegnazione di seggi al Senato non rispondente al rapporto tra popolazione ed eletti - è il caso del Brasile. L’effetto di trascinamento, infine, esercitato dalle competizioni presidenziali su quelle parlamentari, federali statali/subnazionali o locali, ha indebolito senso e pratiche della democrazia elettorale. La combinazione è stata giudicata “the worst of the possible scenario” (D.Nohlen, Electoral Systems and Electoral Reform in Latin America, in Lijphart A.- C. W. Waisman, Institutional Design in New Democracies, Westview Press, Oxford 1996).

In effetti, a monte degli interventi di ingegneria costituzionale, i negoziati fra partiti e candidati maggiori e formazioni minori hanno indebolito la relazione fra elettori ed eletti. Per quanto utili a far convergere l’elettorato e a evitare la dispersione dei voti, esse hanno sovente esteso pratiche clientelari e corruzione, e prodotto una progressiva disaffezione. L’astensionismo in tutta l’America Latina è andata crescendo dagli anni Ottanta e riguarda una media di circa il 46% del corpo elettorale. Ha toccato talora (per es. nelle più recenti elezioni dell’agosto 2019 in Guatemala) il 70%. Segno di sfiducia tanto più allarmante per paesi fuorusciti da esperienze autoritarie assai recenti.

Il fatto è che la transizione dall’autoritarismo del one-to-one alla democrazia del many-to-many è apparsa difficile da governare. Fra gli anni Novanta e il 2001 la svolta della Pinky Tide ha compreso esperienze affatto diverse: dal neopopulismo venezuelano (many-to-one) a quello argentino, alla socialdemocrazia e al modello costituzionale brasiliano. Dieci anni più tardi, tuttavia, il riemergere dell’inflazione e una dilagante corruzione hanno attivato controtendenze politiche ed elettorali in senso neoliberista. Un esito favorito dall’ideological incongruence soprattutto delle giovani generazioni che non hanno vissuto la fase dei regimi militari, e dal tramonto delle forme di affiliazione politica stabile che fa accrescere la volatilità del voto.  (R.J. Dalton- S. Weldon, Partisanship and Party System Institutionalization in J. Bartle- P. Bellucci, (eds.), Political Parties and Partisanship, Routledge, New York 2009; M. Golder- J. Stramski, Ideological Congruence and Electoral Institutions, in “American Journal of Political Science”, 1, 2010).  

Le più recenti mobilitazioni sono state descritte come riot, o al peggio come manipolazioni agite per sovvertire l’ordine democratico, oppure ispirate da governi populisti in carica per mantenersi al potere.  Per quanto sia proprio dell’esperienza politica latinoamericana, il populismo è abusato come categoria: nel coprire esperienze diverse, rivela l’insufficiente capienza delle categorie storiche utili a interpretare l’apparente caos sociale. Sinteticamente, il populismo è riferibile a semplificazioni dei processi decisionali in cicli critici nei quali “il popolo” sans-phrase - vale a dire senza distinzioni sociali e di classe - è integrato in senso subalterno e strumentale.

La lezione di E. Laclau ci consente però di leggerne le radici nella parcellizzazione delle domande sociali parallela alla disgregazione sociale. Con la globalizzazione neoliberista - specie dopo il 1989 - la politica è apparsa esautorata delle funzioni proprie e risulta drasticamente ridotta la sovranità degli Stati nazionali. È piuttosto la legge bronzea del mercato globale a dettare i parametri delle relazioni interne e internazionali. Le ricorrenti riforme costituzionali e la revisione delle procedure elettorali possono in questo senso leggersi come prospettive di una “transizione blindata” verso un contratto sociale nuovo e asimmetrico che le mobilitazioni sociali sembrano però non accettare.

Alcuni indicatori economici e sociali possono darci ragione della ricerca di una sintesi politica che si vorrebbe in grado di rendere governabile la disgregazione sociale.

L’America Latina non è stata e non è povera di risorse finanziarie. Nei cicli di crisi più recenti i capitali hanno piuttosto preso la via di mercati remunerativi - è quanto accadeva negli anni Ottanta in un’Argentina pur affamata di risorse (Basualdo E.M., Concentración y centralización del capital en la Argentina durante la década del noventa, Universidad de Quilmes, Buenos Aires 2003). Flussi finanziari di ritorno furono allora sollecitati da interessi elevatissimi, da garanzie di espatrio dei realizzi, da franchigie fiscali e da un’imposizione prevalentemente indiretta.

Tutti questi fattori, insieme alla stabilità politico-istituzionale, hanno fatto tornare in America Latina cospicui flussi di investimento di portafoglio prima e poi - con l’ascesa della domanda dei mercati emergenti e dei prezzi - come investimenti diretti nei settori primario ed energetico. Fra il 2001 e il 2010 è cresciuta la partecipazione latinoamericana al commercio mondiale, ma la reprimeración ha premiato i volumi e molto meno il valore aggiunto (D. Pompejano, Divergenze americane nella Grande Recessione, Bruno Mondadori, Milano 2018).

Raccomandato dal FMI, l’inseguimento della domanda internazionale di beni primari ha fatto concentrare investimenti nell’export, mentre assai minore è stata l’attenzione volta alla diversificazione produttiva e alla crescita della domanda interna - come sollecitava la CEPAL. Il taglio della spesa pubblica sociale ha poi obbligato le famiglie a un ruolo vicario del pubblico. Non diversamente da quanto avviene nelle economie più sviluppate, le famiglie sono cioè chiamate a erogare servizi ma a partire da differenziali di reddito con i paesi più ricchi che hanno reso precario il soddisfacimento di bisogni essenziali (World Bank, International Comparison Program, 2011; Id., International Comparison Program, Results and Empirical Analysis, Real Expenditure Item Shares At World Average Prices, 2005). Un discorso a parte andrebbe fatto ovviamente per Cuba e Venezuela.

L’inerzia dei modelli storici “estrovertiti” e gli insuccessi delle ricette nazionalpopuliste, insieme alla ridotta importanza percentuale degli scambi intraregionali, hanno rinnovato la dipendenza e la fragilità delle economie latinoamericane, minaccia aggiuntiva agli incerti equilibri politici del dopo-globalizzazione.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)