Oltre il muro: il ritorno delle frontiere americane tra confini visibili e invisibili

Massimo De Giuseppe
Docente di Storia Contemporanea, Università IULM

Nel corso degli ultimi mesi, mentre un incendio politico si propagava in America Latina investendo, consequenzialmente ma con esiti diversi, Ecuador, Cile, Bolivia e Colombia e si allargavano i flussi emigratori da un Venezuela sempre più paralizzato politicamente, il tema delle frontiere tornava all’ordine del giorno nelle relazioni politiche interamericane. A nord, con l’aprirsi dell’anno delle elezioni presidenziali, l’amministrazione Trump ha colto l’occasione per rilanciare l’urgenza del Muro, cercando di riaprire la partita avviata l’anno precedente per ottenere otto miliardi di dollari di fondi speciali (provenienti da vari ambiti tra cui lotta al narcotraffico e investimenti per la sicurezza lungo la frontiera meridionale), attraverso la minaccia della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Lo scontro tra Casa bianca e Congresso si protrae ormai da tempo, accompagnato da un doppio veto presidenziale, da una complessa diatriba giuridico-istituzionale che ha coinvolto anche il Pentagono, Stati e tribunali della federazione e dalla mobilitazione di diverse associazioni della società civile le quali hanno denunciato, oltre alla situazione umanitaria dei migranti, i rischi ambientali per l’Organ Pipe Cactus National Park, nel deserto di Sonora al confine con il Messico e per 22 siti archeologici sacri per il popolo nativo dei Tohono O'odham. Nei primi giorni di gennaio del 2020, mentre la democratica Nancy Pelosi definiva immorale e antieconomica l’idea di un muro tra Stati Uniti e Messico, il vicepresidente Mike Pence confermava che un accordo per risolvere il braccio di ferro avrebbe potuto arrivare solo con lo sblocco dei fondi per il Muro (il cosiddetto Trump Wall), mentre il presidente convocava una conferenza stampa con cui minacciava di costruirlo anche senza il via libera del Congresso, tornando a invocare l’emergenza nazionale. Dopo settimane di polemiche, a inizio febbraio i dipartimenti di Giustizia e Sicurezza interna hanno intanto approvato l'adozione di nuove misure speciali per rafforzare ulteriormente la struttura della U.S. Immigration and Customs Enforcement, meglio nota come ICE, un’agenzia istituita nel 2002 per combattere la criminalità transnazionale (nell’ambito della iniziativa contro il terrorismo islamista nota come War on Terror) ma balzata al centro di polemiche nel 2018 nel pieno della campagna di “tolleranza zero” contro gli immigrati illegali (Illegal aliens), in seguito a una serie di operazioni di separazione forzata di minori dai propri nuclei familiari. Il 20 febbraio la Casa Bianca, dopo aver ridotto i fondi a programmi quali il lo status di protezione temporanea (Temporary Protected Status, TPS). ha quindi ulteriormente irrigidito le direttive per la Sicurezza Nazionale, ordinando ispezioni degli agenti delle forze speciali nei centri di accoglienza di «città santuario» quali Boston, New York, Detroit, New Orleans, Atlanta, Huston, San Francisco, Los Angeles. Il 1° marzo poi, mentre l’opinione pubblica internazionale cominciava ad essere paralizzata dalla paura generata dell’emergenza Covid-19, Trump ha colto anche questa occasione per rilanciare l’urgenza del progetto del muro di separazione dal Messico, aggiungendo come postilla al divieto di ingresso negli Usa delle persone provenienti dall’Iran, che a Washington «si valutava la chiusura della frontiera sud per evitare il propagarsi dell’epidemia». Il paradosso è che in quel momento i casi di infezione in territorio statunitense ammontavano già ad alcune decine (destinate a crescere nei giorni seguenti), con una vittima, mentre in tutta l’America Latina si registravano solo sette casi di contagio (su quasi 90.000 già individuati a livello planetario). Anche nel clima di una nascente e inedita paura per una pandemia globale, in concomitanza con il faticoso avvio delle primarie democratiche, riemergeva dunque la centralità del Trump Wall, il vero cavallo di battaglia della campagna elettorale del 2016 (S. Nuñez García, ed., La presidencia de Donald Trump: contingencia y conflicto, 2018).

Se si osserva con attenzione, nel corso del suo primo mandato il presidente statunitense ha usato questo tema in ogni momento di difficoltà, quasi a voler rimarcare nell’immaginario l’esistenza di una frontiera simbolica nel cuore delle Americhe: evocando una linea invisibile, potenzialmente ancor più spessa del muro in cemento la cui costruzione è stata stabilita dall’Executive Order 13.767 del gennaio 2017 e che dovrebbe subentrare alla barriera metallica già esistente fin dai tempi dell’amministrazione Bush jr. e che copre quasi un terzo del tracciato terrestre di 3.145 km della frontiera con il Messico. In realtà tra battaglie legali e politiche, minacce, denunce e continui show mediatici, culminati nel braccio di ferro sul blocco delle attività amministrative per la mancata approvazione del bilancio (lo shutdown federale), dopo tre anni e due mesi di presidenza l’amministrazione Trump ha allungato «solo» di 143 km di muratura la barriera preesistente (più 800 metri costruiti dall’associazione privata We Build the Wall).

Quello che conta a livello politico sembra dunque essere più che il muro di cemento – secondo molti anacronistico in epoca di droni e sofisticate tecnologie, - quello invisibile e simbolico, evocato come un mantra, quasi a rappresentare un moderno vallo tra civiltà; una linea di separazione dai bad guys, dagli altri, dai latinos (che pure, secondo i dati del censo ufficiale del 2018, rappresentano il 18,3% della popolazione statunitense, senza considerare gli immigrati irregolari). Una linea immaginaria funzionale a rassicurare e deresponsabilizzare l’opinione pubblica ma che più che al muro evocato, nel quotidiano sembra rimandare piuttosto a quella «frontiera di cristallo» che ispirò una delle più tormentate raccolte di novelle dello scrittore messicano Carlos Fuentes (La frontera the cristal, 1996): quasi una linea mobile che solca gli immaginari e che si muove a fisarmonica tra l’America anglosassone del melting pot e quella latina del mestizaje, avvicinandole o allontanandole a seconda delle contingenze e delle evoluzioni della Storia.

Un tema complesso, quello degli intrecci tra confini visibili e invisibili nell’evoluzione dei processi interamericani, che tocca anche gli interstizi delle diverse forme di razzismo più o meno esplicito o latente che solcano in modo articolato tutto il continente, lungo un percorso che è stato scandagliato negli ultimi anni da studiosi di diversa estrazione: dalle puntuali ricerche dello storico Mauricio Tenorio sul graduale modificarsi dell’idea di America Latina nel mondo nordamericano (Latin America: The Allure and Power of an Idea, 2017), allo studio interdisciplinare a cura del sociologo Edward Telles e dell’antropologa Regina Martínez Casa (Pigmentocracias. Color, etnicidad y raza en América Latina, 2020, ed. or. 2014) sul trasformismo e mimetismo dei diversi razzismi latinoamericani. Processi questi recentemente tornati alla luce dapprima nell'ultima campagna elettorale brasiliana e poi con la caduta del «presidente indio» Evo Morales (lo slogan «para una Bolivia libre de indios» che circolava a fine 2019 in alcuni ambienti delle élite iper-conservatrici di un paese che ha più del 60% di abitanti di origine amerindiana appare tanto paradossale quanto pericoloso) ma presente anche in altri contesti, dal Paraguay al Guatemala e, secondo alcuni osservatori, latente perfino in alcuni attacchi via social network contro esponenti di origine popolana del nuovo governo messicano. In entrambe queste ricerche, pur partendo da punti d’osservazione e utilizzando fonti differenti,  gli intrecci di sguardi tra nord e sud, che richiamano temi complessi quali etnia, posizione sociale, sviluppo ma anche nation-building, esclusione, glocalizzazione e diseguaglianze, rimandano al tema, ricorrente nella storia contemporanea del continente americano, dei fenomeni migratori (nazionali e transnazionali); e, con essi, alla mutevole concezione dei confini da superare, che possono irrigidirsi in muri di frontiera, oppure nelle barriere visibili o taglienti che circondano i quartieri ghetto evocati dal film La zona (R. Pla, 2007), nelle terre di mezzo tra favelas, villas miseria, barrios bravos e aree residenziali iper-protette e nella cartografia invisibile delle gang che imperversano in centinaia di megalopoli latinoamericane; confini che potrebbero però (come ci dimostrano alcuni casi) anche evaporare in forme di incontro, dialogo, cooperazione o, perfino, esperienza comunitaria. 

Il tema del muro, reale e immaginario, così come quello dei confini invisibili, ha d’altronde segnato tutto l’ultimo biennio della politica inter-americana, sulla scia della crisi migratoria venezuelana e della prima caravana migrante partita dal Triángulo Norte centroamericano (Honduras, El Salvador e Guatemala), - più precisamente da San Pedro Sula in Honduras il 13 ottobre del 2018 con poco più di duecento persone, - questa è giunta in pochi giorni alla frontiera messicana con oltre 6.000 migranti fra uomini, donne e bambini honduregni, salvadoregni e guatemaltechi, cui si è aggregato qualche haitiano e qualche venezuelano. Un progetto nato su iniziativa dell’attivista politico honduregno Bartolo Fuentes (che aveva sperimentato un primo prototipo di carovana già nell’aprile precedente) con l’idea di proteggere il cammino dei migranti clandestini, vittime negli ultimi anni di violenze, sequestri, estorsioni nel loro tragitto verso nord; esperienze documentate da una lunga serie di reportage, film e documentari. La carovana è però presto finita nel vortice di una partita mediatica e politica sempre più complessa. Le immagini di migliaia di centroamericani che cercavano di attraversare il fiume Suchiate e che camminavano per le strade di Ciudad Hidalgo e Tapachula in Chiapas, prima bloccate e poi lasciate andare dalla Polizia federale messicana, fecero il giro del mondo. A livello di copertura mediatica la crisi si rivelò la più importante dal tempo di quella dei minori migranti non accompagnati (raddoppiati in meno di anno, dai 38.759 del 2013 ai 68.541 del 2014) che aveva investito l’amministrazione Obama: una vicenda, quest’ultima, ben ricostruita da Valeria Luiselli nel suo Niños perdidos.  La carovana, la prima di una piccola serie, ha così permesso a Trump di rilanciare il muro e invocare la necessità di dispiegare l’esercito al confine, spingendo per altro verso il governo uscente del messicano Peña Nieto a rimettere in agenda la dimenticata questione immigratoria e della frontiera sud. Dei 6.000 migranti (poi ascesi fino ad 8.000) unitisi alla carovana, solo 1.500 sarebbero infatti arrivati a Tijuana, alla frontiera californiana, mentre gli altri si sarebbero dispersi in Messico, un paese che gli esperti definiscono ormai di quadruplice migrazione: migranti messicani diretti negli Usa (ancorché in costante e significativo calo nel corso dell’ultimo quinquennio), migranti centroamericani (e in misura minore caribici) respinti alla frontiera nord e rimasti nel paese, migranti messicani rientrati in patria per l’irrigidimento delle norme sulla clandestinità negli Usa e infine sfollati interni, in fuga dalle aree più violente del paese (A. Díaz, A. Meza, eds., ¡Tú, migrante! La construcción de las representaciones de la migración en el contexto de América del Norte y Centroamérica, 2017). Secondo la pubblicazione Migration Initiative 2020 – Central America, North America and the Carribean dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tra la fine del 2018 e l’inizio del 2020 l’iniziativa delle carovane migranti avrebbe contribuito a ridurre sia il tasso di «scomparsa» tra i clandestini sia il flusso dei centroamericani provenienti dal Triangúlo Norte verso gli Usa, a fronte però di un netto aumento della durata della loro permanenza in territorio messicano, dove sono cresciute esponenzialmente le domande di asilo: dalle 26.566 del 2018 alle 70.302 del 2019. Di queste si ritiene che almeno 2.000 riguardino nuclei familiari con almeno uno o più minori.

Il tema migratorio e della frontiera sud è quindi diventato uno dei grandi nodi della nuova amministrazione messicana guidata da Andrés Manuel López Obrador, leader del Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), nonché un elemento sempre più sensibile nelle relazioni bilaterali tra Città del Messico e Washington e, per altro verso, con le capitali dei paesi del Triángulo Norte centroamericano. A differenza però di quanto fatto da Erdogan in Turchia, con il suo spregiudicato gioco di pressioni geopolitiche incrociate tra Siria, Russia e Unione Europea, López Obrador ha mantenuto una posizione di equilibrio; da un lato ha dovuto stemperare le pressioni statunitensi e dall’altro ha dovuto mediare tra le promesse di sicurezza per gli indocumentados centroamericani in Messico e le esigenze di protezione della frontiera sud che solca il cuore del Mesoamerica maya tra foreste pluviali e siti archeologici, dal bacino dell’Usumacinta al Pacifico. Anche il progetto del discusso “treno maya”, studiato per rilanciare il turismo e i collegamenti interni tra gli Stati di Quintana Roo, Yucatán, Campeche, Chiapas e Tabasco ma contestato da gruppi ambientalisti e alcuni comitati scientifici e duramente criticato dalle opposizioni, è stato presentato dal ministro degli Esteri Marcelo Ebrad come strumento utile nel senso di una normalizzazione del controllo e gestione delle reti ferroviarie e viarie del sud-est.

Colpisce semmai che Il trattato di Libero Scambio fra Stati Uniti, Messico e Canada (UMSCA), firmato il 30 novembre del 2018 dopo un faticoso negoziato e rivisto in alcuni passaggi (non insignificanti a dire il vero) e, dopo le rispettive ratifiche, siglato nuovamente il 10 dicembre del 2019 pur introducendo elementi di regolamentazione su import-export, lavoro, ambiente, investimenti, proprietà intellettuale, non abbia voluto affrontare di petto la questione migratoria né riprendere gli spunti lanciati dal Global Compact delle Nazioni Unite (certamente poco caro all’amministrazione Trump). Il nuovo accordo è subentrato a quell’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio (NAFTA/TLC) che nel corso degli anni Novanta aveva accompagnato la stagione delle aperture liberiste in buona parte dell’America Latina, finendo per attrarre verso nord il Messico, nuova grande open economy e snodo strategico dell’industria automobilistica mondiale, acuendone al contempo alcune contraddizioni. Un allontanamento temporaneo da un’America Latina che oggi torna prepotentemente a manifestarsi. Il tutto mentre il Triangolo Nord centroamericano sembrava finito in un cul de sac: una regione segnata da democrazie fragili, da processi incompiuti di ricostruzione interna dopo le tragiche guerre civili di fine Novecento e vulnerabile all’emergere di nuovi attori e violenze. Un recente report della rete di ong Alianza América  ha ricordato che in Honduras il 56% della popolazione nel 2019 si trovava sotto la soglia del dollaro giornaliero, ma i motivi alla base della fuga verso nord si collegano a un fitto intreccio di fattori regionali tra cui violenza e insicurezza (omicidi, sequestri, taglieggiamenti, femminicidi…), in particolare nelle grandi periferie urbane, associati all’incremento di pressioni contro comunità indigene e gruppi ambientalisti. Un fenomeno che nell’ultimo quinquennio ha lasciato una scia di lutti, da quello più noto dell’honduregna Berta Caceres nel 2016 a quello più recente di Dominga Ramos, un’attivista maya freddata a Santo Domingo Suchitepéquez, in Guatemala, la notte del 5 marzo. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) all’inizio del 2020 gli sfollati nei paesi del Triángulo Norte ammontavano a 540.000 e si stimavano in quasi due milioni i minori usciti dai circuiti scolastici. Anche se la nuova presidenza salvadoregna ha ridotto nel corso degli ultimi mesi il numero di vittime per arma da fuoco legate alla violenza di gang e pandillas, la regione centroamericana resta prigioniera di un circuito complesso e gli analisti del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) da tempo chiedono un piano regionale integrale di investimenti multilaterali associato a un impegno diretto dei governi nazionali. Al pari delle immagini giunte da Lesbo o dal Mediterraneo, la fotografia del giugno 2019 di un giovane padre salvadoregno, Oscar Martínez, morto annegato abbracciato alla figlia Angie di due anni mentre cercava di attraversare la linea di frontiera, è entrata nell’immaginario globale come un’icona di una crisi non emergenziale ma strutturale da risolvere in ottica multilaterale a più livelli: diplomatico, politico, economico, sociale, educativo.

Il tema del ritorno delle frontiere, visibili e invisibili, è una delle grandi questioni geopolitiche mondiali che sta tornando a interessare in modo virulento anche il continente americano, che è sempre meno lontano dall’Europa di quanto sembri, nonostante alcune reticenze dei mezzi di comunicazione generalisti. Per parafrasare il già citato testo di Fuentes, quei confini invisibili ci obbligano a guardare negli occhi chi viene da un territorio «saccheggiato, preso in giro, addolorato…» ma anche ricco di «gente meravigliosa che non ha ancora ritrovato la propria parola, il proprio volto, il proprio destino, mai manifesto ma incerto, umano, destino di fiume sotterraneo, di RIo Grande, Rio Bravo, dove gli indigeni ascoltano la musica di Dio» (La frontera de cristal, cit., p. 262).

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)