Disuguaglianze Economiche e Sociali. La Grande Sfida per la democrazia in America Latina

Gianandrea Nelli Feroci
Direttore Associato del programma per la Democrazia del Carter Center

L’America Latina è la regione del mondo che fa registrare il più alto grado di disuguaglianza. Bisogna pensare a questa disuguaglianza come a un fenomeno multidimensionale, con ripercussioni negative su tutti i pilastri della coesione sociale. La prima, e più evidente, forma di disuguaglianza è quella economica. Basta pensare che l’1% della popolazione latinoamericana possiede più del 40% della ricchezza dell’intera regione. Questo si riflette in uno dei coefficienti Gini regionali più alti del mondo: 0,465 (misura della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza in una scala da 0 a 1 dove 0 significa inesistenza di disuguaglianza e 1 disuguaglianza estrema). Come metro comparativo, la media dei paesi dell’Unione Europea è 0,309, mentre quello della Danimarca è 0,253. Dopo più di un decennio di costante riduzione della povertà in America Latina, a partire dal 2015 la tendenza regionale si è invertita, soprattutto a causa dell’impatto delle crisi economiche in Brasile e Argentina e dell’implosione dell’economia venezuelana. Secondo stime della Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL), per il 2019 la percentuale di persone che vivono in uno stato di povertà si attesta intorno al 30,8% della popolazione. Ovvero, quasi 190 milioni di persone che devono mantenersi con meno di 5,5 dollari al giorno.

E il resto della popolazione appartiene alla classe medio-alta? Non esattamente. Sebbene la crescita economica degli ultimi decenni abbia trasformato l’America Latina in una regione di reddito medio, non l’ha resa una regione di classe media. È sufficiente spendere 5,5 dollari al giorno per godere del benessere normalmente associato alla classe media? Il buon senso parla da solo. Per questo la Banca Mondiale ha coniato il concetto di “classe vulnerabile”, ovvero quelle persone che sono uscite dalla povertà ma non hanno ancora conquistato una stabilità che permetta di vivere nella sicurezza socio-economica della classe media. La classe vulnerabile è particolarmente suscettibile a piccole oscillazioni dell’economia o tagli del welfare e può rapidamente scivolare nuovamente nellla povertà. Queste persone, che mantengono con una spesa quotidiana che oscilla tra i 5,5 e 13 dollari al giorno, costituiscono il 37,6% della popolazione latinoamericana. Il 68,4% della popolazione della regione quindi vive tra povertà e vulnerabilità. Questo numero rispecchia perfettamente la disuguaglianza diffusa di cui si parlava all’inizio, che al di là del reddito include difficoltà di accesso ai servizi fondamentali come la salute e l’istruzione, così come l’accesso alla giustizia e alla rappresentanza politica. Un circolo vizioso di esculsione che nessuno dei governi di destra o di sinistra della regione è riuscito a spezzare, sia a causa di politiche neoliberiste volte a indebolire il welfare sociale e promuovere un libero mercato selvaggio, sia per politiche assistenzialiste basate sulla distribuzione di aiuti economici di breve termine, piuttosto che sulla costruzione di una struttura socioeconomica sostenibile.  

Come è possibile che una regione, che all’inizio del XXI secolo ha sperimentato un boom economico durato un decennio e continua a crescere ancor oggi, sebbene a ritmi più lenti, abbia quasi 70% della popolazione che lotta per sopravvivere tra povertà e vulnerabilità? Il grande boom economico latinoamericano d’inizio secolo è stato legato all’aumento dei prezzi delle materie prime (petrolio, gas, minerali e prodotti agricoli) di cui la regione è ricca, e dalla domanda crescente della Cina.  La produzione di materie prime però non richiede l’impiego di molta forza lavoro, genera grandi ricchezze personali e generalmente ha conseguenze negative sull’ambiente. Inoltre lo sfruttamento massiccio delle materie prime contribuisce a consolidare un altro aspetto della diseguaglianza: più del 50% della terra produttiva dell’intera America Latina appartiene solo all’1% dei proprietari, spesso conglomerati agroindustriali, multinazionali minerarie e petrolifere.

Bisogna riconoscere che nel caso di alcuni Stati della regione, le grandi entrate fiscali generate dal boom delle commodities sono state usate per politiche ridistributive che hanno contribuito non poco alla riduzione della povertà sperimentata fino al 2014. Il grande errore però è stato non reinvestire parte di quelle entrate per promuovere un processo di industrializzazione e innovazione, che avrebbe dato inizio a una modernizzazione economica creando le basi per una crescita più sostenibile. Nella mancata innovazione bisogna includere il mancato sfruttamento delle fonti d’energia rinnovabile, di cui l’America Latina è ricchissima. Finito il boom delle materie prime, all’inizio del secondo decennio del secolo XXI si è anche quasi arrestata la crescita della regione. Secondo Alicia Barcenas, direttrice della CEPAL, il modello economico latinoamericano è ancora oggi “estrattivo, concentra la ricchezza in poche mani e quasi non genera innovazione tecnologica”.

In questo contesto socio-economico, il sostegno popolare al “sistema” s’indebolisce e di conseguenza non sorprendono le grandi proteste che hanno scosso l’America Latina negli ultimi mesi. Le proteste peraltro erano state annunciate da un’ondata di scontento sociale che aveva scosso la regione tra il 2011 e il 2016, iniziando proprio dal Cile con grandi manifestazioni studentesche. Come riflesso dell’incapacità sia della destra sia della sinistra di affrontare seriamente la disuguaglianza multidimensionale, oggi come allora le grandi mobilitazioni sociali si caratterizzano per il fatto di non identificarsi con nessuna bandiera politica ed essere state promosse e coordinate soprattutto da giovani non legati a forze politiche tradizionali e che esprimono l’esigenza di un profondo cambiamento. In questo contesto non sorpende anche il preoccupante dato riportato dall’ultima inchiesta Latinobarometro (un’inchiesta d’opinione pubblica regionale che ogni anno, dal 1995, analizza le percezioni socio-economiche e politiche dell’intera regione), secondo cui in America Latina il sostegno per la democrazia è sceso al 48%. Questa dato inquietante tuttavia non rappresenta una crescita di consenso per forme di governo autoritarie, ma piuttosto il crescente disincanto nei confronti del modo in cui la democrazia è stata amministrata nella regione. La democrazia conquistata dopo le terribili dittature degli anni Settanta e Ottanta non ha portato a un miglioramento socio-economico tangibile e duraturo per gran parte della popolazione. Quasi il 70% dei latinoamericani, come abbiamo detto, vive in bilico tra povertà e vulnerabilità, in quotidiano contrasto con livelli di ricchezza altissimi concentrati nelle mani dell’1% della popolazione.  Questa élite economica spesso detiene anche i posti chiave dell’amministrazione dello Stato e si trova in posizione strategica per influenzare le politiche pubbliche. Il grande disincanto nei confronti di una democrazia percepita come elitaria è comprensibile, ed ecco che appaiono sullo scenario politico, conquistando l’opinione pubblica, figure antisistemiche che attaccano l’istituzionalità democratica in nome di vaghi progetti di rinascita. Jair Bolsonaro in Brasile e Nayib Bukele in El Salvador ne sono due chiari esempi.

Si tratta di dinamiche socio-politiche che sembrano avvicinare l’America Latina e l’Unione Europea più che mai e devono far riflettere. Pur partendo da premesse diverse, la disuguaglianza sociale ed economica (stagnante e profonda in America Latina e in crescita in Europa) è il grande problema da risolvere. E l’Italia, con indici di disuguaglianza al di sopra della media Ue, deve prestare particolare attenzione. La disuguaglianza latinoamericana va risolta e allo stesso tempo deve servire da avvertimento per l’Ue e l’Italia dei grandi rischi inerenti a politiche pubbliche volte a smantellare quello Stato sociale che rende, ancora, l’Unione Europea un esempio unico di coesione. La promozione della coesione sociale deve essere la spina dorsale delle politiche di cooperazione con l’America Latina, anche, perché no?, attraverso clausole di condizionalità volte a sostenere una democratizzazione del modello economico regionale.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)