Destre e sinistre incapaci di trasformare la crescita in redistribuzione

Maurizio Stefanini
Giornalista professionista e saggista. Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo, in particolare dell’America Latina

“In 47 Paesi sono in corso proteste interne – la tendenza continuerà nel 2020”, era l’inizio del rapporto Political Risk Outlook 2020 presentato lo scorso 16 gennaio dalla Verisk Maplecroft: società britannica specializzata in consulting strategico sui rischi politici. “Il drammatico aumento delle proteste nel 2019 ha scosso un quarto dei Paesi del mondo e in tutti i continenti ha fatto vacillare governi che si sono fatto cogliere di sorpresa. Secondo i nostri ultimi dati e previsioni, le turbolenze dovrebbero continuare senza sosta nel corso del 2020”. “Il nostro indice trimestrale di disordini civili rivela che nell'ultimo anno 47 giurisdizioni hanno assistito a un significativo aumento delle proteste, che si è intensificato nell'ultimo trimestre del 2019. Ciò include realtà diverse come Hong Kong, Cile, Nigeria, Sudan, Haiti e Libano”.

Da notare che in questo pacchetto di “esempi” non era inclusa la Bolivia, dove il rifiuto di polizia e esercito di reprimere le proteste per asseriti brogli elettorali in un contesto in cui il presidente Evo Morales si candidava violando la Costituzione ha costretto lo stesso Morales alla fuga, creando una complessa transizione ancora in corso al momento in cui stiamo scrivendo. Un contesto in cui tutte le parti in causa hanno avuto argomenti per tacciare gli avversari di “golpisti”

Nel contesto latino-americano il caso boliviano è particolarmente importante, perché la situazione è precipitata subito dopo che le proteste in Ecuador e in Cile e la sconfitta di Macri in Argentina avevano indotto vari osservatori a ritenere che in America Latina il pendolo stesso tornando a oscillare a sinistra, con una “rivolta contro il neo-liberalismo” . In ciò c’era anche un elemento propagandistico, con Maduro che celebrava il ritorno di un “venticello bolivariano” contro i governi che avevano appoggiato Guaidó. Ma anche i governi di Quito e di Santiago e commentatori a loro favorevoli paradossalmente accreditavano questa lettura, con il denunciare il ruolo di agenti e denari inviati dalle sinistre continentali raccolte nel Foro di San Paolo apposta per “destabilizzare”.

Lo stesso giorno della sconfitta di Macri però perdeva anche il governo del Frente Amplio in Uruguay, sebbene per ancore il ritorno del centro-destra al governo si dovesse aspettare il ballottaggio. E la vicenda boliviana ha comunque chiarito che non c’è una rivolta contro il neo-liberalismo, ma una più generale situazione di debolezza di molti governi. Dove i governi sono di impianto neo-liberale, la protesta è evidentemente di segno ostile all’ideologia al potere, ma anche i governi che dicono di ispirarsi a idee opposte hanno problemi analoghi.

In America Latina ciò potrebbe essere collegato a una crisi dei prezzi delle commodities, che toglierebbe risorse preziose un po’ a tutti, contribuendo a prosciugare il consenso. Bisogna però rilevare che il governo di destra di Sebastián Piñera in Cile e quello di sinistra di Evo Morales in Bolivia avevano in comune una crescita sostenuta: il +5% l’anno la Bolivia, il +4% il Cile. Entrambi erano considerati modelli di riferimento, e il collasso simultaneo di entrambi ha sconcertato gli analisti. Vero è che in Cile il 4% di crescita del Pil corrispondeva a uno 0% di crescita del Pil pro-capite, mentre la Bolivia era secondo i dati della Cepal uno dei tre Paesi latinoamericani dove la povertà estrema era più aumentata. Al di là della opposta etichetta, entrambi i modelli sembrano aver avuto un evidente problema in comune, nel trasformare la crescita in redistribuzione.  

Appunto, però, in realtà l’ondata di rivolte e contestazione è stata trasversale non solo ai regimi, ma anche ai continenti e ai tipi di economia: sicuramente la protesta di Hong Kong non è questione di commodities, e neanche quella della Catalogna o dei Gilet Gialli in Francia. Possiamo notare che come in Cile e anche nel Brasile di Dilma Rousseff la protesta sia stata innescata dall’aumento dei prezzi dei trasporti, in Ecuador, Francia, Haiti e Iran è stata invece questione di prezzi del carburante; in Nicaragua di una riforma delle pensioni; in Libano di una proposta tassa su whatsapp; in Colombia e in Iraq più in generale della politica economica del governo; in Bolivia, in Venezuela e in Algeria delle violazioni della Costituzione da parte del governo; a Hong Kong di una legge sull’estradizione; in Sudan e in Russia dell’autoritarismo del regime; in Catalogna e in Nuova Guinea Occidentale di una richiesta di indipendenza; in Etiopia di questioni etniche; nel Regno Unito della Brexit: ma in ogni caso si sono poi aggiunte all’agenda dei manifestanti una quantità di altre questioni.

Jeffrey Sachs ha analizzato appunto assieme le proteste di Hong Kong, Parigi e Cile, nella chiave del paradosso di proteste in Paesi con alti livelli di crescita. Nella sua analisi, a spingere la gente in piazza sarebbe stata una percezione di scarsa mobilità sociale, e di burocrazie che stavano perdendo il contatto con l’uomo comune.  Michael Reid, che sull’Economist scrive la rubrica di cose latinoamericane Bello, ha descritto le proteste latino-americane del 2019 come la terza ondata di rivolte nei 40 anni che ha seguito la regione da giornalista, dopo il periodo della “austerità selvaggia” egli anni ’80 e quello in concomitanza alla grande depressione argentina del 1998-02. Secondo lui, al di là delle motivazioni, c’è un generale effetto di contagio a partire dai Gilet Gialli francesi e delle rivolte di Catalogna e Hong Kong. Un fenomeno peraltro simile ad altri del passato. Dallo stesso ciclo che portò alle indipendenze latino-americane; alle rivoluzioni europee del 1820-21, 1830, 1848-49 e 1968; alle altre rivolte che nel 1989 abbatterono il comunismo in Europa Orientale ma ispirarono anche una ondata di rivolte per la democrazia in Africa e gli studenti della Tienanmen; fino alle Rivoluzioni Colorate e alle Primavere Arabe.  

Adesso grazie ai Social la velocità di questi “contagi” è anche più rapida e largo raggio. In particolare non solo la protesta di Hong Kong si è apertamente ispirata alla Catalogna ma anche la violenza vandalica dei Gilet Gialli ha avuto imitatori in Cile e Colombia, e la fuga di Evo Morales ha galvanizzato l’opposizione in Venezuela  e NicaraguaSecondo  Jacquelien van Stekelenburg, docente di cambio e conflitti sociali alla Vrije University di Amsterdam, “i dati mostrano che il volume delle proteste sta aumentando e almeno dal 2009 è altrettanto alto che nei tempestosi anni ‘60”. E sul Guardian Michael Safi ha osservato “non tutte le proteste sono pompate da rimostranze di tipo economico, ma l’allargamento del distacco tra chi ha e chi non ha sta radicalizzando in particolare molti giovani”. “Internet non è un fattore determinante – non c’erano social nel 1960 – ma è chiaramente importante, I social e l’esplosione dell’accesso all’informazione stanno riordinando le gerarchie della conoscenza e della comunicazione”. Da cui anche il fatto che molte di queste proteste siano poi prive di leaderhip, come osserva lo studioso di studi globali alla Temple University Sanjoy Chakravorty. Una caratteristica che da una parte è un vantaggio, perché rende più difficile reprimere la protesta. Dall’altro è però anche uno svantaggio, nel senso che rende più difficile far sfociare la protesta in una proposta politica di lungo termine. 

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)