Alla radice del malessere: discriminazioni e violenze contro popoli e natura

Sergio Bassoli
Direttore Progetto Sviluppo, CGIL

Le diseguaglianze e la profonda discriminazione rappresentano la fragilità delle democrazie latinoamericane, costruite sugli Stati-nazione quale risultato delle lotte d’indipendenza dalle monarchie europee, senza però fare i conti con le proprie radici e la storia indigena, rimaste dormienti ma pronte a germogliare improvvisamente, dal Messico alla Patagonia.

Gli attuali Sati latinoamericani, com’è noto, rappresentano confini politici frutto della colonizzazione delle potenze europee del XV secolo. Spagna e Portogallo si spartirono il territorio (accordo di Tordesillas, 1494); quel che si trovava a ovest della linea tracciata sulla carta, divenne colonia spagnola, quel che era ad est colonia portoghese, diventata poi la più grande nazione del sub-continente, il Brasile.

Da quella prima spartizione, la colonia spagnola suddivise il territorio in grandi vicereami, successivamente frammentatisi in unità statali prodotto delle guerre di indipendenza susseguitesi con un effetto domino nella prima metà del secolo XIX, quando le popolazioni locali lottarono per liberarsi dal giogo della colonia, oramai incapace di gestire e di controllare il subcontinente.

Ma sin dai primi passi non fu vera liberazione bensì una nuova forma di dominio interno, per mano della vecchia classe dirigente coloniale trasformatasi nella classe dirigente dei nuovi Stati.

Le famiglie che gestivano gli interessi delle colonie si divisero le ricchezze: la terra, i giacimenti minerari di oro, argento, rame, il potere politico, il controllo della giustizia, l’accesso all’istruzione, l’organizzazione dell’esercito. Una élite bianca e meticcia, allora minoranza della popolazione del subcontinente latinoamericano, ha deliberato le costituzioni e le leggi, ha occupato e si è divisa il potere, ha combattuto e sconfitto le ultime resistenze delle popolazioni indigene. Si è completato il massacro iniziato tre secoli prima, negando ogni tipo di diritto civile e politico alle popolazioni indigene, confiscando ed espropriando le loro terre, reprimendo e cancellando ogni forma di cultura autoctona come la religione, la lingua, le autorità tradizionali, per costruire una nuova identità collettiva forgiata nei nuovi Stati nazionali.

Solo verso la metà del secolo XX assistiamo al riconoscimento formale dei diritti universali come il diritto di voto, la messa al bando delle forme di schiavitù come il pongaje (servitù ereditaria) in Bolivia, il riconoscimento dei territori indigeni, anche se in forma più simbolica che sostanziale. Ciò che rimane della cultura indigena e dei suoi discendenti è tollerato come espressione di folklore, ciò che resta del passato, da mantenere ai margini della memoria collettiva e della nuova società.

Le élite latinoamericane hanno dunque avuto più di 500 anni per consolidare il proprio potere ed il controllo del territorio, grazie ad una capillare politica di alleanze economiche e politiche, in tutti i settori ed ambiti degli Stati-nazione, con una caratteristica comune in tutto il sub-continente: i legami di parentela, la distribuzione del potere tra i membri della famiglia allargata, la conservazione dell’esclusività elitaria tramite i matrimoni. marcando così, di generazione in generazione, la distanza sociale ed economica tra le élite e la maggioranza della popolazione.

Il risultato di questo processo sociale ed economico ha prodotto un modello di società profondamente diseguale, capace di tutto pur di difendere lo status quo, dalla pratica del razzismo e della discriminazione sociale, alla repressione e all’uso di una violenza inaudita contro le sollevazioni indigene dei secoli scorsi, una violenza ripetutasi contro studenti, sindacalisti, oppositori negli delle dittature militari del secolo scorso (1973 - 1984).

Quando stava per finire l’esperienza di Dilma Rousseff, alla guida del Brasile, l’ex-presidente Lula, incontrando la delegazione internazionale dei sindacati presenti al Congresso della Cut a San Paolo nel 2015, disse: “Quello che potevamo fare lo abbiamo fatto, di più non ce lo lasciano fare…. Quando la moglie del padrone, bianco e ricco, si trova a fare la fila al supermercato con la domestica nera o india, quando il figlio commenta in famiglia che nel suo corso all’Università si trova al fianco dei “neri, per noi è finita, loro questo non lo possono tollerare”.

Se potessimo andare sulle Ande a vedere come vivono oggi le popolazioni andine – quelle che, come ci ricordano gli studi di John Murra e di altri antropologi, svilupparono un modello economico sostenibile su più piani ecologici, occupando uno spazio che andava dalle coste dell’Oceano Pacifico alle grandi pianure fino alla foresta amazzonica, mantenendo la loro residenza principale sull’altopiano, a oltre 4000 metri di altezza, - avremmo chiaro come i cinquecento anni dalla Conquista abbiano significato solo spogliazione e sfruttamento, senza soluzione di continuità dalla Colonia allo Stato nazionale.

este popolazioni, così come quelle amazzoniche o del Centro America, dovrebbero avere uguali diritti ed inoltre essere riconosciute per le loro specificità culturali: esse vivono invece in stato di estrema miseria, abbandonate, senza servizi fondamentali, come scuole e presidi sanitari, acqua potabile, o, dove questi esistono, sono in condizioni indecenti, molto al di sotto degli standard del resto della nazione.

Popolazioni ancora vittime di discriminazioni profonde, espropriate delle ricchezze naturali, costrette a migrare nelle periferie metropolitane ad ingrossare l’esercito di mano d’opera a basso costo, senza alcun diritto, solamente con la garanzia della sopravvivenza per poter essere sfruttate il più a lungo possibile.

Le democrazie di oggi sono costruite su questo processo storico che erroneamente viene considerato come passato remoto, quando invece è ancora oggi presente. È la ferita aperta dell’America Latina, come la chiamava l’intellettuale e scrittore uruguaiano Eduardo Galeano.  È l’amara realtà che tante donne e uomini vivono nel XXI secolo, che in molti ambiti internazionali si vuole negare coprendola con gli indicatori macroeconomici, con le teorie del libero commercio. Salvo poi domandarsi perché le proteste, perché le rivolte, perché la democrazia sia debole.

Non a caso, la reazione delle élite, di fronte ai tentativi di ribaltare e di cambiare il sistema da parte della grande massa di poveri e sfruttati, operai, contadini o indigeni o studenti, è stata sempre violenta, ma di una violenza inaudita, affinché fosse una lezione esemplare, da ricordare per sempre.

Una violenza che si esprime anche nel rapporto con la natura, con l’ambiente, con il territorio, che viene sfruttato dalle élite senza alcuna remora e rispetto, disboscando, depredando, bruciando, contaminando l’Amazzonia, fiumi, vallate, per mettere milioni di ettari al servizio delle monoculture (commodities), in mano a poche decine di famiglie, con il risultato di lasciare milioni di contadini e comunità indigene senza più risorse per sopravvivere, popoli erranti senza più nulla, invisibili, in cerca di una baracca dove rifugiarsi.

Le proteste e le rivolte di questi ultimi mesi dal Venezuela al Cile, il tentativo di eliminare l’esperienza del Partito dei Lavoratori (PT) in Brasile con un’azione di corruzione delle stesse istituzioni politiche e giudiziarie, il caos istituzionale creatosi in Venezuela, in Ecuador ed in Bolivia, le resistenze incontrate in Colombia per implementare gli accordi di pace dopo oltre 50 anni di guerra civile, hanno le stesse profonde  radici che rendono deboli queste democrazie, riaprendo gli scenari drammatici e violenti del passato.

Si ritorna, quindi, ai problemi strutturali ancora non risolti dell’America Latina: la concentrazione della terra, la negazione dei diritti umani individuali e collettivi, l’impunità per chi ha commesso crimini, lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, la corruzione.

La conferma di questa analisi si può leggere nelle richieste di modifica delle costituzioni nazionali, come è avvenuto in Cile o come non sia stato possibile fare in Brasile. Come pure si può leggere in Venezuela, Ecuador e Bolivia, nelle richieste della popolazione di esigere ai rispettivi leader politici, il rispetto dello Stato di diritto e quindi delle sue regole fondamentali, non sopportando più il populismo illimitato.

Le richieste vanno tutte nella direzione di una democrazia più matura, inclusiva, con al centro i diritti universali, individuali e collettivi, capace di riconoscere le diversità, di contrastare le diseguaglianze, di costruire giustizia sociale. Richieste che anche la comunità internazionale deve sostenere, appoggiare, condividere per l’interesse dell’America latina e del mondo intero.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)