L’Italia di fronte all’Africa che cambia
L’Africa è un continente di luoghi comuni. L’immagine di un’Africa flagellata da carestie, malattie, guerre civili ha impiegato anni per diventare sbiadita. Ora l’attenzione è focalizzata su un’Africa dalla quale partono i barconi dei migranti. La realtà è che l’Africa è un continente di problemi ma anche di opportunità. I problemi li conosciamo: quelli antichi, come la povertà, le zone di crisi, una democrazia incompiuta, l’esplosione demografica; e quelli nuovi, come la spinta migratoria e il fondamentalismo islamico. I problemi non vanno però solo enfatizzati: i problemi, se li si vuole risolvere, in politica sono una opportunità e come tali vanno affrontati.
L’Africa delle opportunità è quella delle economie che crescono, come in Etiopia, Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Burkina Faso, Kenya, Tanzania, Ruanda. Anche se sono ancora numerosi gli Stati la cui economia cresce troppo lentamente (Nigeria, Sudafrica, Angola, Congo, Gabon, Zimbabwe, Burundi), in questo sviluppo a macchia di leopardo, il fatto positivo è che i Paesi in crescita più rapida non sono dipendenti dalle esportazioni di minerali e di energia, ma hanno saputo diversificare l’economia puntando sull’agricoltura, sui servizi e sulla manifattura. Il fatto negativo è rappresentato dalla circostanza che se l’economia di un Paese cresce ad un tasso inferiore a quello dell’aumento della popolazione, gli abitanti di quel Paese, già poveri, diventano ancora più poveri.
Qui veniamo alla questione demografica, che accomuna quasi tutti gli Stati africani. Salvo pochissime eccezioni (la più importante è il Sudafrica), gli Stati africani hanno in comune quella che il demografo Massimo Livi Bacci, in un recente convengo al CESPI, ha definito il “diverso itinerario demografico” dell’Africa in rapporto ad altre regioni povere del mondo (Asia, America latina). Se in queste ultime la natalità è calata, ciò non è ancora avvenuto in Africa. All’inizio degli anni Cinquanta l’Africa aveva 230 milioni di abitanti, oggi ne ha 1,2 miliardi e nel 2050 ne avrà 2 miliardi e mezzo. La cosa curiosa è che negli anni Settanta, quando la demografia africana non aveva assunto le proporzioni attuali, si parlava di controllo delle nascite o quantomeno di paternità e maternità responsabili, mentre oggi questo tema è del tutto ignorato, come se non esistesse. Invece il problema c’è: se l’economia di un Paese africano cresce del 3% annuo, che non è poco, e il tasso di aumento della popolazione è del 2,7% (quello medio africano attuale), il reddito pro – capite di quel Paese resterà praticamente stagnante.
Come dobbiamo porci di fronte all’Africa che cambia? Sicuramente non stare fermi. Non possiamo ignorare che di fronte a noi c’è un continente il cui peso geopolitico cresce anche solo in virtù dell’incremento demografico. Cosa fare allora? Io vorrei evitare di disegnare nuovi partenariati o non ben definiti ruoli delle Nazioni Unite o architetture istituzionali che lasciano il tempo che trovano. Ci vuole un approccio pragmatico, come ha fatto Mario Giro. Non a caso Giro proviene dalla Comunità di Sant’Egidio che in Africa ha fatto e fa cose grandiose, e ben ha saputo interpretare la volontà di cambiamento degli africani. Poi dovremmo partire da quello possiamo fare noi come Italia. L’Italia ha verso l’Africa responsabilità storiche, la conosce, è presente. Oltretutto, se non partiamo da questo è illusorio pensare ad un nostro ruolo di “advocacy” dell’Africa nell’Unione Europea. Proverò quindi a buttar giù qualche spunto.
1. Incomincerei dagli organismi internazionali. Senza enfasi fuori luogo, va valorizzato il ruolo dell’Unione Africana e delle Comunità regionali africane. Con tutti i loro limiti è da qui che si deve partire se vogliamo un’Africa maggiormente integrata, in primo luogo economicamente. L’integrazione economica è premessa per un maggiore benessere ed una più diffusa democrazia. L’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), costituita nel marzo 2018, ha da poco raggiunto le 22 ratifiche necessarie perché diventi operativa. In particolare, l’AfCFTA potrebbe dare una spinta al debole commercio intra–africano e diventare un motore dello sviluppo, anche per quanto riguarda la manifattura.
2. Poi c’è la Banca Africana di Sviluppo (BAD), in seno alla quale ho l’impressione che l’Italia sia ancora poco presente. La BAD potrebbe dare un impulso alla costruzione di infrastrutture, in particolare quelle necessarie per collegare Paesi (e mercati) oggi separati, necessario completamento del mercato unico africano. E potrebbe contribuire allo sviluppo delle energie rinnovabili.
3. Non vedo perché, come mi pare qualcuno suggerisca, dovremmo lasciare che i cinesi costruiscano le infrastrutture, mentre noi dovremmo limitarci alla formazione ed alla diffusione dello stato di diritto, peraltro attività molto nobili. Oltretutto i cinesi non impiegano quasi mai personale locale, mentre noi lo impieghiamo e lo formiamo, compresi gli ingegneri (vedi il “modello ENI”). Un’altra falsa idea, dura a morire, è quella secondo la quale gli europei dovrebbero insegnare agli africani il buon governo. (non viene spiegato così, ma di questo si tratta). È come se allora noi dovessimo rivolgerci agli svedesi perché la nostra amministrazione è inefficiente.
4. In campo economico molti sono i settori dove l’Italia potrebbe dare un contributo allo sviluppo dell’Africa. Uno è l’agricoltura, in un continente di abbondanti terre coltivabili e dove l’Italia ha una grande esperienza soprattutto nell’agricoltura sostenibile. Non dobbiamo però limitarci a parlare di “sicurezza” alimentare, bensì anche di “sovranità” alimentare. Va difesa la biodiversità, fonte di ricchezza e di sostentamento per molte popolazioni africane. Un grande progetto è quello portato avanti da Slow Food con i “diecimila orti per l’Africa”: creano occupazione, sono rispettosi dell’ambiente e non creano dipendenza dai prodotti che le multinazionali hanno interesse a vendere.
5. Un altro settore dove l’Italia può dare un contributo è quello delle energie rinnovabili, settore nel quale l’ENEL (ma anche la molto più piccola “Building Energy”) è già presente. Energie rinnovabili significano risparmi di scala in Paesi sprovvisti di risorse energetiche e dove le reti di trasmissione di energia sarebbero troppo costose.
6. Poi c’è il sistema italiano di piccole e medie imprese, congeniale ad uno sviluppo che non sia solo basato sull’agricoltura e sui servizi. Anche se Calzedonia non è una piccola impresa, la recente costruzione di un impianto di produzione in Etiopia, ha costituito una svolta.
7. In campo politico il cambiamento più importante di questi anni è stato l’accordo, inaspettato, tra Etiopia ed Eritrea. Questo va accompagnato e sostenuto, se vogliamo che si consolidi e propaghi i suoi positivi effetti in tutto il Corno d’Africa (Somalia, Gibuti, Sud Sudan), una delle regioni più instabili e povere del mondo, focolaio di gruppi terroristici.
8. Tra i settori futuri di collaborazione tra Italia (ed ovviamente Unione Europea) ed Africa, c’è quello del cambiamento climatico. È un problema comune al Nord e al Sud del mondo e va affrontato insieme, avendo a mente che essere poveri non autorizza ad inquinare e che è logico che chi è più ricco paghi di più. In questo campo uno dei settori prioritari di intervento dovrebbe essere la lotta alla desertificazione, che non riguarda solo l’avanzata fisica del deserto, ma anche l’abbandono delle regioni dell’interno per andare a vivere sulla costa. In campo ambientale, un uso oculato e condiviso di una risorsa limitata come l’acqua è indispensabile anche al fine di prevenire conflitti.
9. La prevenzione e la repressione del terrorismo, in particolare di quello di matrice islamica, è un altro settore nel quale l’Italia può dare un contributo importante. Abbiamo dimostrato di essere capaci di formare forze di polizia e di sicurezza, ma siamo anche attenti a tutto ciò che riguarda il dialogo interreligioso.
In conclusione, solo la consapevolezza del ruolo che possiamo svolgere in Africa ci permetterà di cogliere, diventandone parte attiva, quel “vento nuovo” di cooperazione tra Europa ed Africa del quale ha parlato Paolo De Castro. Segnali incoraggianti che vengono da Bruxelles: cadranno nel vuoto da noi?