Migrazioni: conflitti fra diritti e disunione dell’Europa ?

Giorgio Gomel
Economista, ex Capo studi e relazioni internazionali della Banca d’Italia, Presidente di Alliance for Middle East Peace Europe.

La grande querelle attuale sulle migrazioni mondiali evoca un dilemma etico-politico, il contrasto, cioè, fra un'etica dell'ospitalità e un'etica della sicurezza. La prima risponde all'imperativo umanitario di salvare vite umane in pericolo; la seconda prescrive di affermare e difendere in primo luogo i diritti “verso noi stessi” rispetto a quelli degli altri. In altri termini  la difficoltà sta nel conciliare il "diritto del migrare" - un diritto universale, cosmopolitico – che riguarda  coloro che, spinti da guerre, persecuzioni e violenze o da condizioni di povertà, fame e disastro ambientale, sono alla ricerca di condizioni di vita più propizie, con il diritto-dovere degli stati di difendere i propri confini ed erogare ai cittadini il bene pubblico della sicurezza. Tale diritto si applica sia nell'ambito della sovranità dello stato-nazione sia nella forma più complessa di sovranità sovrannazionale, come nel caso dell'Unione europea.

Il dilemma si complica, diventa conflitto politico, assume toni spesso di isteria nazionalista quando, come oggi in Italia e in altri paesi europei, la tutela dei confini si colora e carica del simbolismo identitario del possesso di un territorio da difendere contro lo "straniero invasore", di un'identità etnica autoctona da preservare contro gli immigrati, percepiti come una minaccia distruttiva per quell'identità.

Le migrazioni internazionali nascono da un insieme di fattori. Lo squilibrio demografico fra aree del mondo e le disuguaglianze di reddito e ricchezza ne sono le determinanti principali, come conferma da anni la ricerca empirica in materia. Chi scrive, nell'occuparsi del tema nei primi anni ’90, in un contesto storico assai diverso dall'attuale, argomentava che fosse illusorio immaginare di impedire l’immigrazione o di sostituire i flussi di persone in uscita con flussi di capitale o di merci verso i paesi d’origine degli immigrati . Un obiettivo ragionevole poteva essere quello di regolare i movimenti migratori agendo sui fattori endogeni di spinta nei paesi d’origine, prescindendo da quelli demografici che agiscono nel lungo periodo. In altri termini, si dovevano orientare la politica economica in loco e gli interventi della cooperazione internazionale a ridurre i dislivelli di reddito e a promuovere l’occupazione, stimolando gli investimenti in produzioni a basso rapporto capitale/lavoro, quali l’agricoltura e la manifattura leggera, nonché le esportazioni aprendo le economie arretrate agli investimenti esteri e ai trasferimenti di tecnologie. Inoltre, era necessaria una maggiore apertura dei mercati dei paesi avanzati agli scambi , particolarmente di prodotti agricoli, con i paesi di origine dei movimenti migratori; in questi vi sarebbe stata di conseguenza maggiore disponibilità di beni importati e un minore impulso ad emigrare per sopperire alle carenze dell’offerta interna (in Roberto Aliboni et al., L’Europa fra est e sud : sicurezza e cooperazione, IAI e Franco Angeli, 1992) .

La stessa distinzione così enfatizzata nel dibattito odierno e che i documenti del Consiglio europeo incorporano appieno fra migranti economici o irregolari  e rifugiati e richiedenti asilo è nei fatti fuorviante.   I motivi che spingono ad emigrare sono spesso intrecciati e indistinguibili, anche se l'architettura giuridica prevista per l'accoglienza e il successivo trattamento è differente (si vedano per i secondi la Convenzione di Ginevra del 1951 circa lo statuto dei rifugiati e le norme e prassi in materia di diritto d'asilo e di protezione internazionale  affermatesi in ambito multilaterale).

Il linguaggio, le argomentazioni per respingere profughi e/o migranti non sono cambiate negli anni. Quando 80 anni fa nel luglio 1938, i paesi occidentali si riunirono nella Conferenza di Evian, principalmente per impulso del Presidente Roosevelt, per affrontare il dramma degli ebrei tedeschi fuggiaschi dal regime nazista e alla ricerca di un "porto" sicuro, il numero di profughi ammessi sul suolo dell’Europa e delle Americhe fu tragicamente limitato. La decisione così funesta nelle sue conseguenze per lo sterminio degli ebrei d’Europa fu motivata, nella dichiarazione ufficiale, con l’argomento che “l’emigrazione di un vasto numero di individui di diversa religione, condizione economica, professione è un elemento di disturbo per l’economia di paesi segnati da grave disoccupazione, da problemi non solo di natura economica e sociale, ma anche di ordine pubblico e da difficoltà nella gestione e nella capacità di assorbimento dei profughi….L’emigrazione renderà i problemi razziali e religiosi più acuti, acuirà il disordine internazionale e potrà compromettere i tentativi di pacificazione nelle relazioni fra le nazioni.”

L’irrompere della crisi migratoria negli ultimi anni, acuitasi con la frantumazione degli stati del Medio Oriente e l’incrudirsi  di guerre intestine nello stesso Medio Oriente e nell’Africa subsahariana, ha prodotto forti spinte disgregatrici nell’ Unione europea. In primis fra Europa occidentale e centro-orientale laddove per i paesi della prima il problema è principalmente il come integrare gli immigrati mentre quelli dell’Est rifiutano categoricamente di accettare migranti al fine di conservare un’identità monoetnica in società caratterizzate da popolazione vecchia, bassi tassi di natalità e forte emigrazione di giovani verso l’Occidente. In secondo luogo, tra paesi stessi dell’Europa occidentale: dissensi e fratture fra questi hanno avuto una conferma evidente nel Consiglio europeo dell’estate scorsa con le “non decisioni” in materia di revisione dell’accordo di Dublino circa l’accoglienza nel paese di primo arrivo, di freno ai movimenti secondari interni alla UE, di impegni – che restano puramente volontari – circa le quote di ripartizione dei migranti, il superamento del criterio di primo ingresso e l’apertura di centri di identificazione e accoglienza in altri paesi membri dell’Unione.

Alcuni giuristi e filosofi politici sostengono oggi che vi sia una ragione profonda di carattere etico-politico per limitare l'immigrazione, al di là dei motivi economico-pratici noti - limiti alla capacità di assorbimento di immigrati, costi e complicazioni nella gestione dell'accoglienza e del processo successivo di integrazione - e anche al di là di ragioni dettate dalle contingenze politiche nei paesi di destinazione, ovvero il prevenire o contenere pulsioni xenofobe mosse dalla paura, spesso ingigantita da una retorica "dell'invasione" agitata da opinion leaders, partiti e mass media della destra estrema.  Zygmunt Bauman, in un saggio scritto appena un anno prima della morte (Stranieri alle porte, Laterza, 2016) osservava acutamente : “Gli stranieri tendono a dare ansia proprio perché “strani” e dunque spaventosi nella loro imprevedibilità a differenza delle persone con cui interagiamo tutti i giorni convinti di sapere che cosa dobbiamo aspettarci da loro. Potrebbero essere loro con la loro massiccia influenza a distruggere ciò cui teniamo mutilando o travolgendo lo stile di vita che ci è confortevolmente familiare”.

La ragione consisterebbe nel coltivare e preservare le identità culturali della "maggioranza", identità e interessi, cioè, delle culture maggioritarie. Maggioranza che avverte una minaccia nell’avanzare della globalizzazione e dei fenomeni migratori, che paventa di diventare minoranza. Un paradigma quindi opposto a quello dominante negli anni della “controcultura” del 1968 tesa ad affermare con forza i diritti delle minoranze e poi con l’emergere in Occidente di società multiculturali : società che riconoscono il diritto alla differenza, cioè, il fatto che le differenze etniche, religiose, culturali delle diverse comunità, soprattutto di minoranza, siano riconosciute come legittimate a convivere, anzi percepite come benefiche per tutti, rispettate e garantite dallo stato nello spazio pubblico. E che il principio di eguaglianza dinanzi alla legge debba essere conciliato con il diritto di quelle comunità e culture alla differenza in materia di orario di lavoro, norme alimentari, diritto di famiglia, rispetto delle festività e della libertà religiosa nella scuole, nei luoghi di lavoro e nello spazio pubblico.

In cosa dovrebbe tradursi , in questo ribaltamento di prospettiva, la difesa culturale delle nazioni? Nel ricorso a strumenti normativi come regole di naturalizzazione, la cittadinanza, l’offerta di istruzione, lo ius culturae, l’obbligo dell’ apprendimento della lingua del paese ricevente, o anche misure legali per una selezione dei migranti sulla base di criteri "etnici" o imponendo agli stranieri accolti modi e norme di comportamento simili a quelli della "maggioranza ", secondo un modello in larga misura  assimilazionista.

Un argomento su cui riflettere e che non ammette risposte facili.