Migrazione e asilo, cronistoria della parabola europea

Sergio Ferraiolo
Prefetto in pensione, già Vice Direttore Ufficio Legislativo Ministero dell'interno.

Eh, sì, l’Unione europea ci aveva entusiasmato all’inizio, quando, con il Trattato di Amsterdam, aprì le porte all’immigrazione e all’asilo come materie comunitarizzate.

L’Unione decise di fare le cose in grande. Non solo un grande spazio comune riservato agli Stati membri, ma un grande spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia di cui tutti – anche i cittadini di Paesi non membri - potessero godere.

L’impegno solenne fu sancito nel Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre 1999 a Tampere, in Finlandia, in cui i Capi di Stato e di Governo decisero che “L'Unione europea ha già posto in atto per i suoi cittadini i principali elementi di uno spazio comune di prosperità e pace: un mercato unico, un'unione economica e monetaria e la capacità di raccogliere le sfide politiche ed economiche mondiali. La sfida insita nel trattato di Amsterdam è ora quella di garantire che tale libertà, che comprende il diritto alla libera circolazione in tutta l'Unione, possa essere goduta in condizioni di sicurezza e di giustizia accessibili a tutti. Si tratta di un progetto che risponde alle preoccupazioni frequentemente espresse dai cittadini e che ha ripercussioni dirette sulla loro vita quotidiana.  Tale libertà non dovrebbe, tuttavia, essere considerata appannaggio esclusivo dei cittadini dell'Unione. La sua stessa esistenza serve da richiamo per molti altri che nel mondo non possono godere della libertà che i cittadini dell'Unione danno per scontata. Sarebbe contrario alle tradizioni europee negare tale libertà a coloro che sono stati legittimamente indotti dalle circostanze a cercare accesso nel nostro territorio. Ciò richiede a sua volta che l'Unione elabori politiche comuni in materia di asilo e immigrazione, considerando nel contempo l'esigenza di un controllo coerente alle frontiere esterne per arrestare l'immigrazione clandestina e combattere coloro che la organizzano commettendo i reati internazionali ad essa collegati. Queste politiche comuni devono basarsi su principi che siano chiari per i nostri cittadini e offrano allo stesso tempo garanzie per coloro che cercano protezione o accesso nell'Unione europea.”

Dichiarazione molto, molto forte che riempì di speranza per un futuro comune, tanto che si parlò del “vento di Tampere” come della spinta propulsiva verso la piena realizzazione di una Europa unica e comune. Una dichiarazione che oggi appare molto, molto lontana.

Ma subito ci si mise al lavoro per creare le politiche comuni in materia di asilo e immigrazione al fine di dare regole certe e univoche non solo agli Stati membri ma anche ai cittadini non appartenenti all’Unione che nell’Unione volevano vivere o che all’Unione chiedono aiuto e salvezza da guerre e persecuzioni.

E i frutti si videro presto: arrivarono le prime Direttive.

Dopo un primo esercizio sulle norme minime della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati, Direttiva 2001/55/CE, mai applicata, cominciarono a fioccare, numerose, le disposizioni più cogenti.

Nel 2003 l’Unione partorì la Direttiva che stabiliva le norme minime per accogliere chi chiedeva asilo (2003/9/CE). Poi si pensò di includere nell’ordinamento europeo una Convenzione del 1990 che regolava la competenza degli Stati membri a conoscere delle domande di asilo: e la Convenzione divenne Regolamento (343/2003/CE).

Per l’immigrazione, dopo il fallimento di un progetto di Direttiva su norme comuni per l’ingresso per lavoro [COM(2001)386] mai approvata, si normò il ricongiungimento familiare (2003/86/CE) e si decise che chi risiede stabilmente per un lungo periodo – senza dare problemi – sul suolo di un Paese membro può non solo avere un diritto permanente ma, addirittura, stabilirsi in un altro Stato dell’Unione (2003/109/CE).

Il vento di Tampere continuava a spirare forte e l’Unione cominciò ad ampliare le aspettative ed i diritti di chi fugge da persecuzioni e guerre. La Convenzione di Ginevra sul riconoscimento dello status di rifugiato – nata nel 1951 forse per ragioni più politiche che umanitarie – appariva “stretta” e l’Unione, nel 1994, normò non solo le condizioni necessarie per chi poteva considerarsi rifugiato, ma introdusse una nuovissima categoria, la protezione sussidiaria, riservata a chi – pur non avendo subito persecuzioni – non può più vivere nel proprio paese a causa di uno stato di guerra generalizzato o di un pericolo di perdere la vita (2004/83/CE).

Nel 2005 si concluse la prima fase con il tentativo di ridurre a fattor comune le procedure applicate dagli Stati membri per il riconoscimento della protezione internazionale (2005/85/CE) e con i paletti posti alle espulsioni con la cd. “Direttiva rimpatri” che riafferma i diritti umani e la dignità delle persone anche nel corso del procedimento di allontanamento all’UE (2008/115/CE).

Il vento di Tampere continuava a soffiare e l’Unione decise che le Direttive sull’accoglienza dei richiedenti asilo, sulle qualifiche di protezione e sulle procedure di riconoscimento erano ancora troppo vaghe, poco inclini alle vere esigenze di chi fugge ed era necessario un ulteriore specificazione e ravvicinamento delle normative nazionali. E vennero, così, le nuove Direttive sull’accoglienza (2013/33/UE), sulle procedure (2013/32/UE) e sulle qualifiche (2011/95/UE).

E poi? E poi il vento di Tampere si fermò.

Forse erano cambiati i tempi, forse l’Unione era andata troppo avanti concedendo protezione a situazioni “normali” in un continente “esplosivo” come l’Africa. L’azione dell’Unione rallentò, facendosi molto più attenta alle pulsioni interne e agli interessi dei singoli Stati membri che all’attuazione di quanto dichiarato a Tampere.

E venne il 2015. La folle primavera e l’ancor più folle estate del 2015. Ci fu un naufragio, nella primavera del 2015, che scosse le coscienze europee. Nelle fredde sedi di Bruxelles maturò una timida agenda europea sulle migrazioni. Una prima breccia sui ferrei principi di Dublino. Si parlò di ricollocazione dei richiedenti protezione; si parlò di alleggerire l'Italia dall'eccessivo peso di disperati che sulle sue coste erano sbarcati sol perché quelle coste erano il più vicino scoglio dell'Europa. Ma nulla fu approvato. Gli egoismi prevalsero. Non si riuscì a trovare il consenso necessario per ricollocare 40.000 migranti in due anni nell’intera Unione europea. Tanti quanti arrivavano in Italia in appena due mesi.

E poi ci fu la grande confusione dell'estate del 2015. I migranti riscoprirono la cosiddetta rotta balcanica. Dalla Turchia alle isole greche e poi, a piedi e con ogni mezzo, in Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria per arrivare nei posti sognati, Germania e Svezia. E fu vera confusione. Le porte ora si aprirono ora si chiusero, furono costruiti muri di sbarramento e forniti autobus per il trasporto. I migranti furono accolti e picchiati, aiutati e sgambettati.

Il Regolamento di Dublino fu invocato per non accogliere i migranti e ignorato per farli andar via. Dichiarazioni di fuoco contro chi fugge e scarico di responsabilità fra Stati membri di una Unione europea molto poco unita. Dichiarazioni sui rifugiati a la carte tipo “prendiamo solo i siriani”. E dichiarazioni su una totale apertura rettificate e contraddette nello spazio di un mattino.

Nel settembre di quell’anno, la Commissione nel vano tentativo di riprendere in mano la situazione, tramite il Consiglio, riaffermò l’obbligo della ricollocazione obbligatoria di 40.000 “profughi”, inascoltate nel maggio precedente (Decisione 2015/1523 del 14 settembre 2015) aggiungendone un’altra per il ricollocamento di 120.000 “profughi” (Decisione (UE) 2015/1601) da Italia e Grecia (e Ungheria che, furbamente, rifiutò).

Ma non fu un rigurgito di decisionismo. L’Europa cominciava a tremare di fronte alle reazioni “sovraniste” e riottose di molti Stati. Molti furono i “paletti” posti nelle due decisioni. Italia e Grecia dovettero accettare il controllo dell’EASO sulle procedure di identificazione e non tutti i “profughi” potevano esser ricollocati, ma solo quelli la cui nazionalità dava alte possibilità di accoglimento della protezione internazionale.

Le “Decisioni” del Consiglio, prese ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE sono obbligatorie per gli Stati che ne sono oggetto. Nonostante ciò parecchi Paesi non hanno mai adempiuto, o adempiuto, in toto alle loro obbligazioni.

La marea umana cominciava a far paura e la Commissione non ebbe la forza di ribadire non solo quanto, nel 1999 il Consiglio europeo aveva affermato a Tampere, ma anche le stesse sue proposte.

La Commissione compì una inversione ad U. Venne così la proposta di Dublino IV (COM(2015) 450) e il pacchetto della rifusione delle Direttive Accoglienza (COM(2016) 465), Procedure,(COM(2016)467)  e Qualifiche COM(2016)466  che, pur ribadendo i “principi cardine” delle precedenti, stringevano, e di molto, le possibilità e i diritti dei richiedenti protezione, spostando l’esame più sulla nazionalità che sulla situazione individuale, introducendo nuovi motivi di esclusione e puntando molto su un rapido giudizio di (in)ammissibilità. Attualmente queste proposte sono ancora sui tavoli di negoziazione.

Come “chicca” finale, la Commissione, non avendo il coraggio di comprimere i diritti e le garanzie riservate agli espellendi con la “Direttiva rimpatri” del 2008, riformandola in senso restrittivo in linea con il “pacchetto” appena presentato, nel marzo 2017 presenta due nuovi documenti di rango inferiore: una Comunicazione [COM(2017)200 final] e una Raccomandazione [C(2017) 1600 final]. A leggerle si vede ancor di più il cambiamento di rotta. La Commissione invita “gli Stati membri a sfruttare immediatamente tutte le possibilità offerte dall’attuale legislazione in materia di asilo al fine di ovviare agli abusi del sistema da parte dei migranti irregolari che non necessitano di protezione internazionale. Essi dovrebbero in particolare applicare le disposizioni concernenti le procedure accelerate di asilo, il trattamento delle domande reiterate, l’effetto sospensivo non automatico dei ricorsi, in particolare per i migranti provenienti da paesi che sono ritenuti sicuri o vantano un basso tasso di riconoscimento” citando specificamente il caso dei nigeriani che hanno un tasso di riconoscimento della protezione pari al solo 8%. Pertanto, sostiene la Commissione, visto che cittadini di quel Paese, nel 2016 hanno presentato più di 47.000 domande di asilo, si può supporre che, di queste, oltre 40.000 potranno esser respinte. Non più quindi un esame individuale, ma fortemente incentrato sul Paese di provenienza.

Fortunatamente, in controtendenza, il Parlamento europeo – forse ultimo custode di quel che resta del “refolo” di Tampere – approva un testo su Dublino IV che, finalmente, supera il principio della responsabilità del primo Stato di arrivo ponendo le basi per arrivare al “rifugiato europeo”. Ovviamente Commissione e, soprattutto il Consiglio, lo affossano subito.

Ma Tampere è ormai lontana, altri nomi l’hanno sostituita: sovranismo, gruppo di Visegrad, euroscettici e l’Unione europea continua a cedere terreno agli Stati membri.

Prova ne è il Consiglio europeo del giugno 2018 che, senza tanti complimenti, nelle sue conclusioni afferma: “nel territorio dell'UE coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria”, Mettendo una pietra tombale sull’obbligatorietà dell’accoglienza delle decisioni del 2015. E non è finita. Per evitare che la proposta del Parlamento europeo su Dublino IV possa trovare qualche adepto, il Consiglio afferma che “È necessario trovare un consenso sul regolamento Dublino per riformarlo sulla base di un equilibrio tra responsabilità e solidarietà” e “consenso” del tecnicismo del Consiglio significa “all’unanimità” e siccome tale unanimità sarà impossibile, il principio della responsabilità del primo Stato membro di ingresso rimarrà molto, molto a lungo.

Come è facile intendere, dal 1999 la continua contrattazione fra Commissione e Stati membri si è spostata, e di molto, a favore di questi ultimi e, oggi, è il Consiglio europeo a comandare, ancorché esso non possa prendere decisioni.

La Commissione, almeno nelle materie di asilo e migrazione è molto debole, non sembra avere una sua linea, si limita a rincorrere i nuovi sovranismi, imitandoli nel considerare i migranti come un fastidio, senza prendere iniziative, provvedendo solo a compensare con quattrini quegli Stati che più sopportano il peso dei nuovi arrivati.

Forse perché ormai è in scadenza, l’anno prossimo ci sarà una nuova Commissione. Ma è d’obbligo un avvertimento per l’attuale e la prossima Commissione: come in tutte le tenzoni politiche chi imita perde, perché sempre si preferisce l’originale alla copia.

Se è vero che i Commissari sono designati dagli Stati membri, è pur vero che l’articolo 17 TUE ne sancisce la piena indipendenza: essi sono politici e non burocrati. Se la nuova Commissione non saprà trovare una propria e autonoma linea “nell’interesse generale dell’Europa” e a “vigilare sull’applicazione dei Trattati”, ho paura che, nella prossima legislatura, assisteremo alla assoluta sovranità del Consiglio, con la Commissione mera esecutrice dei suoi dettati e, forse, potremo dire addio, non solo al vento di Tampere, ma all’idea stessa di Unione europea come insieme di Stati membri che, nell’interesse comune, cedono molta parte della loro sovranità ad un organo che li rappresenti tutti.

Mi auguro che non sia così. Io credo nel sogno di Spinelli, Adenauer e De Gasperi, padri fondatori, di un disegno che allarghi il concetto di patria al mondo, contrapposto al concetto ristretto di Heimat, restrittivo e miope disegno di perpetuare il passato come ineluttabile futuro.