Leadership femminile, eurexit, e il tempo che manca

Eva Giovannini
Inviata e conduttrice di Rai3, è stata membro della “Commissione di Saggi sulle prospettive dell’Unione Europea” nominato dalla Presidente della Camera Laura Boldrini e fa parte del Senior Advisory Board del Jo Cox Award. Per Marsilio ha scritto Europa anno zero. Il ritorno dei nazionalismi (2015).

A maggio del 2019, cioè dopodomani, potrebbe realizzarsi il più cupo degli scenari: l'eurexit. Dopo una grexit scongiurata e una brexit riuscita, potremmo assistere alla più nucleare delle previsioni, l'uscita dell'Europa dall'Europa, la fine dell'Unione così come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi. Più che elezioni per il rinnovo del Parlamento, infatti, all'orizzonte c'è uno scontro su due visioni antitetiche di Europa, e il fronte nazional-sovranista rischia di portare giù come una diga rotta ciò che resta dell'ambizioso ma fragile disegno europeo. Non vorrei passare per pessimista, ma della  costruzione europea di Spinelli e Adenauer, di De Gasperi e Ursula Hirshmann rischia di restare in piedi solo la punta di un campanile, simile a quello rimasto alzato – come un indice sollevato contro l'oblio – nella scomparsa cittadina sudtirolese di Curon,  magistralmente descritta da Marco Balzano in Resto Qui, libro finalista all'ultimo premio Strega. Una marea che sommerge tutto, un'onda potente che spazza via decenni di storia unitaria.

Già alle scorse elezioni europee, infatti, partiti radicalmente identitari avevano raggiunto numeri mai visti prima (l'Ukip di Nigel Farage fu il più votato nel Regno Unito), ma negli ultimi cinque anni questo vento invece di affievolirsi si è ulteriormente rafforzato e, nell'afasia generale delle forze progressiste, i nazionalisti hanno anche creato solide reti internazionali.

Quella che segue è un'istantanea della situazione attuale. L'Ungheria ha rieletto per la terza volta Victor Orbán, il leader amato (ricambiato) da Matteo Salvini, l'uomo forte che ha confessato per primo in modo esplicito di avere come modelli le “democrazie illiberali” di Cina e Russia. La vicina Polonia è governata da un partito di destra radicale che, giusto per fare due esempi, vuole sottoporre il potere giudiziario a quello esecutivo (rischiando anche sanzioni europee) e ha riproposto in Parlamento una legge sull'aborto che vieta le interruzioni di gravidanza anche in caso di malformazioni del feto o di stupro. La Repubblica Ceca ha eletto un premier-tycoon, Andrej Babiš, leader del partito euroscettico dei “Cittadini Arrabbiati”, che non ha perso occasione di dire al premier italiano Conte che i nostri richiedenti asilo ce li possiamo tenere tutti. La vicina Austria, con il suo nuovo esecutivo nero-blu, ha portato al governo il partito più a destra dell'arco costituzionale, quell'Fpö erede di Haider, al quale ha consegnato le chiavi dei ministeri più nevralgici: Difesa, Interni, Esteri. In Germania continuano a crescere i no euro di AFD, entrati prepotentemente nel Bundestag con 94 deputati e ormai ufficialmente saldati con i neonazisti di Pegida, come dimostrano le recenti manifestazioni di piazza a Chemnitz, tra hooligan, croci celtiche e slogan degli anni trenta.

E ancora, in quel nord Europa feudo della socialdemocrazia raggiungono la doppia cifra forze nazionaliste e spesso xenofobe come i Democratici Svedesi, il Partito popolare Danese, il Partito del Progresso in Norvegia o il Partito della Libertà di Gert Wilders in Olanda. L'Italia, poi, è un caso unico, con l'alleanza che ha portato al governo il partito di destra sovranista Lega Nord insieme al Movimento Cinque Stelle. Una grande coalizione giallo-verde che strizza un occhio a Mosca e l'altro a Trump.

Il successo di questi partiti alle prossime elezioni potrebbe trasformare per sempre il volto dell'Unione, a partire dalle “famiglie” europee così come le abbiamo conosciute. Che ne sarà, ad esempio, del PPE? Sopravviverà all'opa sovranista di Orbán, dell'austriaco Kurz, o dei cristiano-bavaresi ormai al rimorchio della destra più intransigente? Cosa ne sarà allora di Shengen, e della libera circolazione di idee e persone? E dei diritti civili? Insomma, cosa resterà dell'Europa come patria della democrazia e del pensiero liberale?

Certamente le destre fin qui elencate presentano anche elementi di diversità le une dalle altre, ma sono unite da una comune insofferenza verso lo storico progetto di ever closer union e, senza dubbio, il collante più forte che hanno è l'ostilità verso i movimenti migratori. Pazienza se i numeri degli arrivi sul suolo europeo nell'ultimo anno sono in netto calo: 48.000 contro un milione del 2015. L'importante, per l'internazionale sovranista, è avere un nemico da usare come grande capro espiatorio. D'altronde in un'epoca in cui il primo bersaglio è il razionalismo – come ci ricorda Marco Piantini in questa discussione a più voci sull'Europa – i numeri e i fatti contano poco o niente rispetto a sua Maestà la “percezione”. Sarà anche per questo che, in un dibattito politico inquinato da notizie manipolate e avvelenato dalla retorica esaltata del “cattivismo”, da più parti si iniziano a svegliare proposte di un grande fronte progressista – da Tsipras a Macron - per fare da argine all'avanzata delle destre. Ma oltre al comune nemico, quali parole chiave dovrebbero guidare questo fronte? Per iniziare, forse, sarebbe sufficiente capovolgere le ricette degli ultimi anni: equità contro austerità (adesso che anche la Troika ha ammesso che con la Grecia la “cura” ha rischiato di uccidere il “malato”), solidarietà contro egoismi (a partire dalla questione migratoria), municipalismo contro centralismo (gran parte delle buone prassi arriva dai comuni) e partecipazione contro esclusione. Già, perché mai come negli ultimi anni l'Europa è apparsa immobile, escludente, bloccata. Le ragioni sono molteplici e so che non esistono soluzioni semplicistiche. Eppure, osservando la foto di gruppo dell'ultimo meeting dei leader europei a Bruxelles in cui svettava un solo puntino bianco – il tailleur di Angela Merkel – in mezzo a decine di grigi completi da uomo, si è fatta spazio in me la convinzione che si possa, anzi si debba, ripartire proprio da lì. Quella foto che sembrava scattata dopo un vertice degli anni '50 è stata come la dimostrazione plastica e inquietante che il deficit di democrazia europeo è prima di tutto un deficit di rappresentanza. Tanto per avere un'idea, oggi il 37% del Parlamento Ue è composto da donne, ma la percentuale scende al 10% se si considerano le riunioni dell'Ecofin, e al 3.5% quelle del Consiglio degli Affari Esteri (dove su 28 membri l'unica donna è la presidente Federica Mogherini). E ancora, ad oggi ci sono state solo due donne presidenti del Parlamento Ue (l'ultima è stata eletta vent'anni fa) e solamente quattro Paesi dell'Unione possono vantare una donna come Primo Ministro: Regno Unito (che è già con un piede fuori dalla Ue), Germania, Norvegia e Romania. Davvero poche, per avere l'ambizione di essere un modello mondiale a cui guardare.

Paradossalmente l'esempio in questo momento arriva dagli Stati Uniti che due anni fa hanno eletto Donald Trump, e dove alle primarie democratiche per le elezioni di midterm del 6 novembre, la prima linea di candiate è tutta composta da donne, giovani, multietniche e provenienti dalla società civile.

Insomma, le correzioni da fare al progetto europeo sono tante, e tutte importanti. Questa però, non è più rinviabile. Lasciare aperta la “stanza dei bottoni” alle donne non è una rivendicazione di genere, è molto di più, è un'urgenza democratica.

Perché non ci potrà essere nessuna Europa senza l'Unione Europea, ma nessuna Unione Europea potrà dirsi compiuta senza una vera leadership femminile.