L'europeismo e l'illusoria speranza di domare la tigre

Riccardo Perissich
E' stato a lungo un alto dirigente dell’Unione Europea: Capo di gabinetto di Altiero Spinelli e capo di gabinetto dei Commissari Guazzaroni, Giolitti, Ripa di Meana; Vicedirettore generale per il mercato interno; Direttore generale per l’industria. Ha poi ricoperto incarichi dirigenti di primo piano in Telecom, Pirelli, Pagine gialle, nonché in Assolombarda, Assonime, Unione industriali di Roma e Confindustria. E’ membro del Consiglio Scientifico del CeSPI, del Consiglio Direttivo dello IAI, dell’ISPI, della Treccani, di Notre Europe e dell’International Institute for Strategic Studies.

Il testo di Marco Piantini è un’utilissima traccia per capire le scadenze europee dell’Italia e prepararvisi. Condividendolo in massima parte, mi limiterò a qualche considerazione personale sull’europeismo italiano.

Una caratteristica del processo d’integrazione europea è che ogni paese ha il “suo” europeismo, nel senso che le motivazioni e quindi gli obiettivi che si perseguono non sono gli stessi, anche se possono essere convergenti. In altri termini, per usare un termine alla moda, gli europei non hanno la stessa “narrazione” per descrivere la propria aspirazione all’unità. In questo quadro variegato, quella italiana è molto particolare. La descriverei come affetta da due fattori che hanno entrambi in comune di essere svincolati dalla realtà.

Chiamerò il primo “il mito di Ventotene”. Che l’Italia abbia aderito al progetto europeo in vista degli Stati Uniti d’Europa non è affatto un male anzi, almeno per dei federalisti come chi scrive, è cosa buona e giusta. L’errore è stato di raccontarci che quello era il senso dell’intero percorso iniziato dai padri fondatori e che le lentezze, le deviazioni e i periodi di stallo come quello attuale siano una forma di tradimento. È sicuramente vero che l’unità politica era presente nella testa di alcuni (non tutti) i padri fondatori, ma era un punto di arrivo ideale: l’araba fenice che, come nei celebri versi di Da Ponte, “che ci sia ognun lo dice, cosa sia nessun lo sa”. La sostanza del progetto consisteva invece nella graduale messa in comune di politiche e parziali cessioni di sovranità a esse funzionali, sempre sotto il controllo degli Stati. Dopo il fallimento della CED, che era invece un vero progetto “politico”, il funzionalismo ha dominato nel bene e nel male il processo europeo. Esso non è incompatibile con un obiettivo federalista, ma è una cosa diversa.

La classe politica democristiana e liberale prima, socialista e comunista in seguito, che ha promosso e sposato l’adesione dell’Italia all’Europa era perfettamente cosciente di quanto sopra, ma il richiamo ideale a Ventotene era utile per creare nell’opinione un’adesione emotiva che le proposte sul tavolo non erano sufficienti a suscitare. Essa si prefiggeva diversi obiettivi. Superare i traumi creati dalle tragedie provocate dal nazionalismo. Far ritrovare alla rinata democrazia italiana il suo posto nel consesso europea e occidentale. Infine, attraverso il confronto con economie più avanzate e dinamiche, favorire la modernizzazione del paese. Da notare che quest’ultima motivazione fu anche uno dei principali argomenti con cui Pompidou superò le reticenze di De Gaulle e lo convinse a mettere in opera il trattato di Roma, già ratificato ma non ancora in vigore.

Gli obiettivi politici sono stati pienamente raggiunti. Si può anzi dire che l’europeismo ha permesso, a partire dagli anni ’70, di porre le basi per una vera unità nazionale nel campo della politica estera. Unità che è durata a lungo e ha cominciato a incrinarsi solo recentemente. La volontà di modernizzazione ha invece funzionato solo in parte. Per una prima fase, la sfida è stata pienamente colta dal settore industriale; sono stati gli anni del miracolo economico a cui l’appartenenza all’Europa ha fortemente contribuito. Meno soddisfacente è stato invece l’effetto sulla modernizzazione del settore pubblico, della politica e della burocrazia. Ciò avrebbe comportato per i fragili equilibri interni costi politici che nessuno voleva veramente pagare. L’elemento emotivo, il mito di Ventotene, fu dunque usato anche per coprire un certo immobilismo. Ricordo una celebre e cinica battuta di Gianni Agnelli: “l’europeismo italiano raccoglie l’80% dei consensi, contraddetti dall’80% dei comportamenti”. Nel corso degli anni l’Europa è passata dall’unione doganale al mercato unico basato su regole comuni e infine all’euro. Altrettante tappe che contribuivano allo sviluppo dell’economia europea e costituivano uno stimolo alla modernizzazione di quella italiana, ma comportavano anche regole più stringenti ed esigenti.   Quello che si è chiamato il “vincolo esterno” ha cominciato a diventare più forte man mano che l’integrazione economica progrediva e la tolleranza dei partners per le anomalie italiane diminuiva. A quel punto la classe politica ha compiuto un errore di cui oggi paghiamo le conseguenze. Invece di spiegare che adeguarsi era un primario interesse nazionale, ha presentato tutti gli sforzi richiesti come un “obbligo europeo”. Ha così cominciato a emergere nell’opinione pubblica la percezione di una contraddizione fra le promesse emotive e la realtà di vincoli, la necessità di riforme, la rinuncia a privilegi a cui il paese non era stato preparato. L’illusione era finita e, come nel poema di Tennyson, “lo specchio di spezzò da parte a parte”.

Qui interviene il secondo problema dell’europeismo italiano che chiamerò “il complesso di Calimero”. Per anni la classe dirigente e la nostra efficientissima diplomazia avevano lavorato molto bene e con successo nel quadro dell’Europa “reale” per ottenere i massimi vantaggi per ciò che ritenevano essere l’interesse nazionale. In alcune fasi l’Italia contribuì in modo decisivo al progresso dell’integrazione. Stranamente e contrariamente ad altri paesi, questi innegabili successi sono stati poco valorizzati. Si continuava a vendere un’Europa mitologica a cui in un certo senso si chiedeva solo di esistere. La situazione è diventata insostenibile con la crisi economica, quando i vantaggi dell’integrazione sono diventati meno visibili, mentre lo erano sempre di più le regole e i vincoli. Si è così installata l’immagine di un’Europa in cui “tutti sono contro di noi” - come per il povero Calimero - e la nostra inetta classe dirigente non è capace di “battere i pugni sul tavolo”. Si è così scoperto che anche in Italia – come avrebbe potuto essere altrimenti? – c’era una potenziale etnia di euroscettici che aspettava solo il suo momento.

I due filoni, il mito di Ventotene e il complesso di Calimero, si sono ora fusi con il risultato perverso di trasformare il paese più europeista in quello più euroscettico. I primi dicono: “se l’Europa non è quella di Ventotene che mi avevano promesso, non mi va più bene e la rifiuto”. I secondi ribattono che “visto che l’Europa funziona contro di noi, bisogna uscirne”. I secondi raggiungono poi l’irrealismo dei primi proponendo delle riforme totalmente insostenibili al funzionamento dell’UE. Concludo con tre meste considerazioni.

Come ho già notato, l’atlantismo e l’Europa sono sempre stati due facce della stessa medaglia. L’America di Trump sembra cambiare completamente il quadro di riferimento. Non sappiamo quanto durerà e quali ne saranno gli sbocchi, ma è un’evoluzione molto destabilizzante per settant’anni di politica estera italiana. Tanto più che una caratteristica comune a quasi tutti gli euroscettici non solo in Italia ma in Europa, è di essere anche filo-russi.

Nel dibattito italiano, fra le varie forme di irrealismo, ne circola una particolarmente pericolosa. Siamo fra i fondatori dell’UE e la terza economia dell’euro-zona. È quindi evidente che una crisi con l’Italia avrebbe effetti devastanti per gli altri paesi e per l’intera costruzione. Circola però la strana teoria che “mai l’Italia potrebbe fare la fine della Grecia” costretta a capitolare dopo un velleitario tentativo di ribellione e che ciò ci conceda una “licenza di provocare”. È un’illusione da dissipare al più presto. Il caso di Brexit dimostra che l’Europa stagnante da molti punti di vista, ha ben presenti le linee rosse che non possono essere superate quando è in gioco la sua stessa esistenza. Una nostra uscita (o la sua minaccia) provocherebbe danni immensi a tutti, ma essi sarebbero molto più devastanti e si manifesterebbero più rapidamente per noi che per loro. Il bluff sarebbe impossibile da sostenere. Ciò che bisogna spiegare è che essere importanti non vuol automaticamente dire essere indispensabili.

Infine, per varie ragioni ho passato mezzo secolo a osservare il complicato rapporto fra la Gran Bretagna e l’Europa. Anno dopo anno è stato spiegato ai cittadini britannici, compreso da parte di quelli che si proclamavano europeisti, che l’Europa così com’era faceva schifo, ma che era interesse del paese restare malgrado tutto. Quando poi l’insipienza di Cameron ha sollevato il coperchio della marmitta, coloro che erano favorevoli a restare avevano il solo argomento della paura dei danni che avrebbe creato l’uscita. La continua denigrazione aveva creato una sindrome irreversibile. In Italia questa continua denigrazione dura da molto meno tempo e possiamo sperare che la malattia sia curabile. Tuttavia i tarli dell’euroscetticismo sono animaletti che lavorano presto e bene.

Non ho una ricetta sicura per riportare l’europeismo italiano entro binari produttivi. Non credo che si debba rinunciare all’appello emotivo; Ventotene è una buona cosa. Tuttavia è necessario che ciò sia accompagnato da una massiccia operazione di verità per spiegare all’opinione ciò che l’Europa veramente è, cosa ci può dare, cosa possiamo chiedere, cosa possiamo ottenere e cosa spetta unicamente a noi. L’euroscetticismo si nutre di insoddisfazione per ciò che l’Europa fa, ma ancor più dell’irritazione per ciò che non fa: le promesse non mantenute e gli annunci non seguiti da risultati. L’errore più grave che ci porterebbe inevitabilmente alla catastrofe sarebbe seguire i populisti sul loro terreno nell’illusoria speranza di domare la tigre.