Tornare alla banalità

Massimo Nava
Editorialista del Corriere della Sera.

Il campionato del mondo di calcio ha visto in campo, alla fine vincenti e comunque molto forti, squadre europee piene di giocatori stranieri di origine, campioni figli di immigrati, molti dei quali con un colore della pelle un po’ più scuro dell’immagine dominante della nazionale di appartenenza. Svezia, Inghilterra, Belgio, e soprattutto Francia, hanno messo in campo la loro nazionale con sangue africano, per non parlare della Svizzera, infarcita di giocatori albanesi e kosovari d’origine, che hanno addirittura festeggiato un gol facendo con le mani il segno dell’aquila!

Può sembrare banale e forse poco «in medias res» un accenno ai mondiali di calcio per parlare di futuro dell’Europa e di stato di salute dell’europeismo, ma credo che non si andrà avanti né si recupererà il tanto terreno perduto nei confronti dei populismi e degli antieuropeisti di varia natura, se non si compie un salto di qualità - direi in questo caso, di «banalità» del linguaggio, della riflessione collettiva, della narrazione. Come si possono riavvicinare agli ideali e alle sfide europee ceti popolari, masse giovanili, cittadini che - nella dimensione comune delle difficoltà economiche e delle problematiche sociali - vengono investiti da un lato da slogan ad effetto, parole d’ordine brutali e al tempo stesso falsamente rassicuranti, promesse astruse ma seducenti e, dall’altro lato, da una sorta di ideologismo istituzionale sui vantaggi della costruzione europea e sui valori fondanti da Schumann in poi. Vantaggi che spesso sembrano conosciuti solo dalle èlites di riferimento - quelle cioè sommariamente condannate e osteggiate dal populismo - e che in fine dei conti sembrano estranei alla realtà e non utili alla vita quotidiana dei cittadini.

Ho accennato ai mondiali di calcio, (che, detto fra parentesi, resta una straordinaria metafora della vita) per provare a chiederci perchè nessun tifoso della propria nazionale (e della propria squadra di club) si sognerebbe di mettere in discussione la presenza di stranieri d’origine se questo «serve» a vincere, a migliorare la qualità complessiva del gioco e del sistema nazionale, in fin dei conti, come si é visto, ad affermare la superiorità del calcio europeo rispetto a quello sudamericano o cinese o africano. E’ ben vero che, soprattutto in Italia e talvolta in Francia, non sono mancati isolati episodi di razzismo negli stadi, ma l’idiozia dei pochi è sommersa dall’ammirazione per i propri campioni, alcuni dei quali con nomi complicati da pronunciare, proprio perché stranieri, molto spesso testimonial efficaci contro razzismo, violenza, droga.

Se analisi del genere avessero trovato spazio sui media, sui social, nel linguaggio dei politici, magari anche in relazione al disastro della nostra nazionale, forse si sarebbe stimolata una riflessione collettiva meno isterica sui rischi delle «ondate» migratorie, su ciò che unisce e su ciò che divide, e cosi via.

Il calcio è solo un esempio. Cinema, televisione, spettacolo, e naturalmente altri sport, possono contribuire a invertire la tendenza. Si tratta di avere un diverso approccio alle tematiche più spigolose e complicate che il populismo sa cavalcare in modo semplicistico e diretto. La mia sarà forse deformazione professionale, ma credo che anche l’europeista possa trovare le parole per parlare alla «pancia» dei cittadini. Non si tratta di dare lezioni o di fare pedagogia, né di contrapporre slogan a slogan, anche perché si vede come certe prese di posizione simboliche da parte di intellettuali o volti noti provochino l’effetto contrario, ma di smontare pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni con un’informazione diretta, documentata, equilibrata. Siccome nulla è più efficace di un luogo comune o di un pregiudizio, come diceva Oscar Wilde - oggi si potrebbe dire, nulla più efficace di una bufala o di una fake news - è illusorio che le bandiere dell’Europa tornino a sventolare con un linguaggio da iniziati che i più non capiscono e che i giovani nemmeno ascoltano.

Grande è naturalmente la responsabilità dei giornali, delle televisioni, dei talk show, dei palinsesti televisivi. Siamo passati dal monocolore democristiano alla lottizzazione partitica, dal ventennio berlusconiano alla cacofonia permanente di tutti contro tutti, che può sembrare un’espressione estrema di libertà ma che si risolve, a mio avviso, in un tutto indistinto di generiche condanne, di confusione fra satira e informazione, di guru autoreferenziati il cui massimo successo è confermare consenso e pregiudizi dei followers facendo alzare l’audience.

Qual è il posto dell’Europa, degli interessi reali dei cittadini, della consapevolezza della posta in gioco, delle questioni internazionali, in questo coro disordinato e futile? Perché è più facile far correre l’idea che ci sia un’Europa «dei banchieri e dei tecnocrati» che l’idea di un’Europa protettrice, solidale, utile alla vita di tutti? Perché per molti «globalizzazione» ha un significato negativo e se ne invoca un’impossibile regolamentazione quando sarebbe più interessante spiegare come il protezionismo, le barriere, i dazi, i nazionalismi commerciali ed etnici danneggiano il progresso di tutti? Perché molti cittadini sono convinti dell’ «invasione» quando - dati alla mano - i migranti sbarcati da gennaio a oggi equivalgono - per restare al calcio - al numero degli spettatori di una partita di serie B?

Trovo infine piuttosto surreale il dibattito - anche all’interno della sinistra- sull’avanzata inesorabile dei populismi quando i buoi sono già scappati dalla stalla. E’ tragico che la sconfitta e il declino politico del primo grande manipolatore dell’opinione pubblica sia coincisa con il trionfo di un comico e di un «capitano» da anni sovraesposti in tutti i media e coniugati in tutte le forme di linguaggio possibile, dal gossip allo stile di vita, e cosi diventati i campioni incontrastati di un’offerta politica drogata.

C’è molto altro da fare, naturalmente, e in molti altri ambiti. Ma le forme del linguaggio e della comunicazione restano essenziali. In Italia si leggono sempre meno libri e giornali, ma siamo sicuri  che si pubblichino e si distribuiscano buoni libri e buoni giornali?  E’ un segno dei tempi, per molti deprecabile, che si faccia politica a colpo di tweet, ma siamo sicuri che sapere scrivere tweet efficaci, credibili, accattivanti sia inutile? Per esempio, «Camerun, Guinea, Algeria, Mali, Angola, Congo, Senegal : la nazionale francese, un simbolo d’integrazione».