Il nostro corpo sociale

Tana Anglana
Migration and Development Senior Specialist

Next generation, ripresa, ricostruzione. Nella maggior parte dei documenti ufficiali di guida verso il superamento della crisi pandemica il “futuro” è il focus ossessivo per raccogliere un consenso diffuso. Eppure, al di là del marketing sociale che si accompagna alla scelta dei titoli, sembra che l’appuntamento con una reale analisi dei nodi critici che ci hanno travolti in questo anno distopico sia stato per ora disatteso.

Ipsos Flair 2021, il rapporto annuale di Ipsos Italia che decodifica i valori, i comportamenti, le trasformazioni dei singoli individui e della nostra società nel suo complesso, fotografa “lo smottamento del ceto medio e l’accrescersi delle diseguaglianze: il ceto medio italiano perde pezzi e scende, in un anno, dal 40 al 30%. Si ampliano le differenze, con vaste parti delle classi medio basse e basse che hanno difficoltà economiche sempre più serie”.

A questo si aggiunge una tensione sociale crescente, che si è nutrita di frustrazioni, rabbia, sfiducia nelle istituzioni. Tutti elementi che si accompagnano sintomaticamente all’attuale aggravarsi delle vulnerabilità e ad un allargamento della popolazione che ha la necessità e il diritto di accedere a tutele solide. Ovvero, per utilizzare un linguaggio ormai familiare, un virus ha indebolito il nostro corpo sociale che si è presentato alla diagnosi con una serie di co-morbidità: la fragilità dei nostri modelli socio-economici, una struttura sociale iniqua, una troppo negoziabile attenzione ai problemi sistemici che ne conseguono. Il rischio che corriamo è che tale crisi d’identità sociale e culturale ricerchi un capro espiatorio, ovvero un nemico a cui attribuire la causa delle nostre fragilità.

Ecco perché, prima di parlare di inclusione, è necessaria un’analisi multidimensionale delle scelte su cui si è costruita la nostra collettività: non si può concretizzare alcuna inclusione senza un riconoscimento di diritti condivisi in un sistema socio economico più equo.

Eppure siamo abituati a un modello che risponde ai momenti di crisi con decisioni politiche selettive che stabiliscono pragmaticamente delle priorità per garantire la tenuta del sistema. Questa selettività è potenzialmente pericolosa per i diritti umani e sociali, perché ne mette a rischio i principi fondamentali dell’indivisibilità e dell’universalità. La tentazione di stabilire un ordine di accesso è grande, ma altrettanto grande è il rischio di minare in questo modo la possibilità di costruire società stabili, coese ed evolute.

Tuttavia, la discussione pubblica su questi temi è sempre più intrappolata nel vortice della logica degli opposti, con una polarizzazione che poco giova alla nostra evoluzione. Contrapposizione tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, tra società chiusa e società plurale, tra nazionalismo e cosmopolitismo contemporaneo. Questo spinto dualismo delle narrazioni e delle percezioni è un ostacolo significativo alla costruzione di una sana identità sociale, capace di rispecchiare la complessità del suo tessuto, anche a fronte delle sfide dell’inclusione.

La nostra Costituzione stabilisce: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (Art.3). Potremmo cominciare proprio da qui per riconquistare uno dei tratti fondanti della nostra identità sociale.  

Riflettere sulla sua complessità è presupposto imprescindibile anche nella comprensione del fenomeno migratorio. Nutrire la consapevolezza della molteplicità dei legami che esistono tra le vite delle persone anche distanti fra loro, tra le scelte dei singoli e i movimenti delle masse, è fondamentale. Parlare di migrazioni nel nostro mondo globalizzato vuol dire soprattutto parlare di interrelazioni.

Diventa dunque necessario generare una consapevolezza sull’origine e il reale costo umano, sociale e ambientale dei nostri stili di vita, per decostruire la percezione del fenomeno migratorio come evento subìto. Basti pensare ai malsani pilastri delle nostre economie come il land grabbing, la fast fashion, lo sfruttamento di minerali conflittivi. Solo la consapevolezza del ruolo che giochiamo attivamente può generare risposte sostenibili. Siamo al centro del fenomeno come consumatori di un modello culturale, non come popoli sotto attacco.

I migranti che, non a caso, Serge Latouche ha definito “naufraghi dello sviluppo” sono lo specchio delle nostre stesse identità.

E allora, se è urgente ricostruire la nostra identità, perché occuparsi anche di inclusione? Perché “una catena è forte quanto il suo anello più debole”: lasciare che i più vulnerabili nelle nostre comunità vengano travolti dalla corsa allo sviluppo futuro significherebbe sfilacciare il tessuto sociale e minare la stessa risposta alla crisi attuale. Da questa barca nessuno può scendere e dobbiamo imparare a navigare insieme con nuovi sistemi e nuove rotte.

Comprensibilmente, in un momento di così forte incertezza, le persone rivolgono lo sguardo soprattutto verso le istituzioni centrali, alla ricerca di risposte e di guida.

È tuttavia importante ammettere che la portata della crisi attuale è tale e i suoi effetti futuri così spaventosi che pensare al solo governo centrale come in grado di raggiungere tutti i territori e le realtà esposte sarebbe una follia. Anche le Nazioni Unite, nel loro documento di posizionamento sul tema dei diritti umani in rapporto alla pandemia, sottolineano l’importanza dell’azione diretta della società civile e - in generale - delle comunità, per garantire la tutela dei gruppi più vulnerabili.

Il futuro è nelle mani di tutti, la crisi responsabilizza e sottrae all’invisibilità ogni settore sociale, perché parte di un sistema fatto di molteplici componenti attive. È dunque il momento di espandere e fortificare lo spazio di coscienza e azione – fino ad ora progressivamente contratto – della società civile. Perché anche la tenuta dei provvedimenti di sostegno all’economia, dipende da una sana e coesa società civile.

Lo spazio di questa azione dovrebbe essere strutturato soprattutto su due assi: quello della vigilanza e quello dell’esercizio attivo di garanzia di accesso universale ai diritti di base. Vigilare affinché non si concretizzi un modello che prevede esseri umani spendibili, sacrificabili sull’altare di un una idea di paradiso sociale basato su parametri di produttività e consumo di vite. Occuparsi di questi rischi è compito di ognuno di noi e delle nostre comunità, come lo sarà anche vigilare sulla costruzione imprescindibile di strutture sociali e modelli socio-economici rinnovati.

La nostra società civile, ma anche il settore privato più illuminato, hanno già dato prova del loro peso nella fase di alleviamento dell’impatto immediato a cui ci ha esposto il virus. Ora possono giocare anche un ruolo essenziale nell’articolare una richiesta unificata di cambiamento del sistema tutto, non solo perché ci conviene (basta guardare ai braccianti invisibili essenziali all’economia, tuttavia inascoltati nella loro richiesta di esercizio dei diritti umani di base) ma soprattutto perché abbiamo l’opportunità di rimediare alla fragilità del nostro sistema sociale, che ci ha dato prima una serie di allarmi e poi si è frantumato di fronte alla pandemia. Ripartire dalle comunità per fortificare l’intero sistema.

In conclusione, potremmo apprendere qualcosa di importante anche dalla risposta biologica all’aggressione virale: il collasso dell’organismo in alcuni individui è dovuto a una reazione sproporzionata del sistema immunitario. Allarmato dalla presenza del virus, si pone come unico obiettivo la distruzione della minaccia, attaccando così anche le cellule sane e portando alla sconfitta finale dell’intero organismo. La nostra società è un corpo complesso che deve preservare e rinnovare ogni sua cellula, applicare una risposta proporzionata e non dimenticare l’obiettivo finale di evolvere e rigenerarsi, pena il collasso di tutti i suoi organi vitali. 

26 January 2021
di
Sebastiano Ceschi