L’accordo Ue-Turchia sui migranti 5 anni dopo

Ripubblichiamo l'articolo che Valeria Giannotta ha scritto per Europea, pubblicato su Euractiv.it

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Nella memoria collettiva europea è impressa l’immagine dello storico incontro tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che a Istanbul nel  marzo 2016 siglarono quello che è noto come “accordo sui migranti”, sigillando una nuova collaborazione tra Turchia e Unione europea. Ankara, già impegnata da tempo nell’accoglienza di un cospicuo numero di siriani in fuga dalla guerra, si impegnò a gestire il flusso di rifugiati, ospitandoli nel proprio territorio, a fronte del sostegno finanziario da parte di Bruxelles e dell’avvio di un processo che facilitasse la ripresa del negoziato per la piena membership turca nell’Unione, con un particolare occhio di riguardo ai dossier dell’ammodernamento dell’unione doganale e della liberalizzazione dei visti di ingresso in Europa per i cittadini turchi.

Puntando a migliorare le condizioni di accoglienza dei rifugiati e le dinamiche di coesione sociale in Turchia attraverso finanziamenti europei su larga scala, per un totale di 6 miliardi di Euro da ricevere in due tranche (2016-17 e 2018-19), l’accordo mirava a prevenire i flussi di migrazione irregolare verso l’UE in uno spirito di condivisione degli oneri, applicando misure che portassero al rimpatrio in Turchia di tutti coloro giunti ​​in Grecia illegalmente e/o la cui domanda di asilo fosse giudicata inammissibile o infondata.

Si instaurò, inoltre, un meccanismo di reinsediamento 1:1 per coloro che avessero urgenza di stabilirsi in Europa (ad ogni un rifugiato siriano che partisse dalla Turchia verso l’UE doveva corrispondere un siriano da rimpatriare dalla Grecia alla Turchia). D’altra parte la Turchia, sin dall’inizio del conflitto siriano ha adottato un approccio molto pragmatico e proattivo nel rispondere ai bisogni dei rifugiati, che tuttavia non sono considerati tali in base alla consueta definizione di diritto internazionale: i siriani in Turchia sono soggetti sottoposti al regime di protezione temporanea che prevede il libero accesso alle cure sanitarie, all’istruzione, il libero accesso al mercato del lavoro e un minimo stipendio mensile secondo il sistema cash assistance in seguito implementato e supportato dall’Emergency  Social Safety Net (ESSN), promosso dall’UE in partnership con la Croce Rossa Turca, oggi destinato a circa 1,7 milioni di rifugiati.

La risposta del governo turco alla crisi è stata sin da subito repentina, coinvolgendo diversi attori, la cui azione si è ampliata nel tempo. Ad oggi il numero di siriani in Turchia supera i 4 milioni e ciò ha comportato un disborso non indifferente per le finanze di Ankara. Secondo i dati governativi, a conclusione del 2017 il governo avrebbe speso circa 31 miliardi di euro e lo stesso presidente Erdoğan non ha mai perso occasione per ricordare che l’importo delle spese sostenute per i siriani ad oggi sorpassa i 40 miliardi di euro.  Questo è certamente un tasto dolente nell’applicazione dell’accordo, ergendosi a vero e proprio nodo della discordia tra Ankara e i partner europei: registrando ritardi ed inadempimenti nel pagamento della seconda tranche di finanziamenti, il governo turco lamenta da tempo che l’Europa non abbia onorato il principio del pacta sunt servanda.

Al dato economico, inoltre, si sono aggiunti profondi malumori riguardo le mancanze sulle core issue che legano Ankara all’Europa: il processo negoziale non ha registrato alcun miglioramento, anzi oggi è addirittura congelato, mentre l’unione doganale e la liberalizzazione del regime dei visti rimangono questioni pendenti. In una cornice di profonde fratture interne, riconducibili soprattutto al piano economico e al consenso sociale riguardo tali politiche, e di sfide esterne legate principalmente al deterioramento della situazione oltre confine e agli effetti di spill-over sul piano domestico, più recentemente Erdoğan si è mostrato molto insofferente sullo stato dell’accordo, minacciando più volte l’apertura dei “cancelli dell’Europa”.

Alle parole sono presto seguiti i fatti: a fine febbraio 2020 sono state aperte le porte del confine turco con la Grecia in segno di provocazione all’Europa accusata, tra le altre cose, di non impegnarsi abbastanza in Siria dove, a seguito di un attacco russo a scapito delle forze turche nel cantone di Idlib, le dinamiche stavano peggiorando al punto da profilare una nuova catastrofe umanitaria. “Le porte adesso sono aperte. Ora, tu Europa dovrai assumerti la tua parte di responsabilità”, aveva dichiarato il presidente turco, gettando il guanto di sfida a Bruxelles, mentre le immagini degli scontri scoppiati al confine con la Grecia tra rifugiati e forze di polizia facevano il giro del mondo, mettendo in discussione l’efficacia di un accordo che fino a quel momento si era presentato come una soluzione di lungo periodo. Secondo i dati forniti dalla Commissione europea, infatti, nel 2019 gli arrivi irregolari in Europa si sono ridotti del 97% e il numero di vite spezzate in mare è drasticamente diminuito.

In questo la Turchia ha avuto un ruolo chiave, come specificano gli organi europei: “La Turchia ha dato seguito al suo impegno di intensificare le misure per combattere il traffico di migranti e ha collaborato strettamente sul reinsediamento e sul rimpatrio”. La questione migratoria, dunque, si è trasformata da punta di diamante delle politiche di accoglienza proposte dalla Turchia ad arma di pressione con un impatto importante sul legame di fiducia tra Ankara e Bruxelles, che è stato successivamente ravvivato dalle parti, entrambe consapevoli dell’opportunità di cooperare soprattutto alla luce dell’emergenza Covid-19 e del fatto che molti progetti, come l’ESSN, stavano per concludersi.

Con la ripresa dei colloqui, lo scorso 17 dicembre la Commissione europea ha annunciato la contrattualizzazione della parte rimanente del bilancio operativo di 6 miliardi a sostegno dei rifugiati in Turchia per un totale di 780 milioni di Euro destinati ai bisogni di base, all’assistenza sanitaria, alle infrastrutture municipali, nonché alla protezione, formazione, occupazione e allo sviluppo delle imprese sia dei rifugiati che delle popolazioni vulnerabili locali. Sebbene si sia posata la pietra miliare di quello che fino ad oggi è considerato il più grande progetto di aiuti umanitari mai finanziato dall’Europa, la questione dei rifugiati in Turchia rimane all’ordine del giorno soprattutto perché oggi, a dieci anni dallo scoppio della guerra in Siria, i siriani fanno parte del tessuto sociale della Turchia.

Benché, come affermano fonti governative, molti di essi siano stati rimpatriati volontariamente, Ankara è nella delicata posizione di allocare gli oltre 3,6 milioni rimasti sul territorio nel miglior modo possibile tramite pratiche di assistenza e inclusione sociale che, purtroppo, devono fare i conti con una nuova tendenza sociale molto più nazionalista e autoreferenziale rispetto al passato, aggravata anche dalla seria crisi economica vissuta dal Paese. Negli ultimi mesi il presidente Erdoğan, sotto la pressione del dato economico e della continua perdita di consensi a livello domestico, ha lanciato un nuovo pacchetto di riforme in chiave europea volto soprattutto a riacquisire credibilità e a ricompattare pragmaticamente le fratture interne e internazionali.

Nell’agenda di Ankara, la rivitalizzazione dei rapporti con l’UE passerebbe dall’apertura di nuovi capitoli nel processo di adesione della Turchia alla UE, all’aggiornamento dell’unione doganale, dalla liberalizzazione dei visti e al rinnovo dell’accordo sui migranti. Con il passare degli anni, infatti, le condizioni interne e regionali sono cambiate, per cui risulterebbe opportuna una nuova roadmap che vada oltre l’elemento emergenziale.

Al compimento del suo quinto anno, l’accordo sui migranti rimane uno strumento imprescindibile nella gestione dei flussi migratori, marcando l’importanza strategica della partnership strategica tra Ankara e Bruxelles che hanno dato prova di saper andare oltre le frizioni e gli approcci muscolari, facendo prevalere i principi cooperativi propri della real politik.