Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell'allargamento

Nadan Petrovic
docente dell'Università di Roma La Sapienza, collaboratore del CeSPI

L’esito delle recenti elezioni in Montenegro (tenutesi il 31 agosto scorso) rappresenta più di un campanello d’allarme, non solo per il processo di adesione all’Ue da parte del paese balcanico – che vale la pena ricordare è quello più avanti nel processo dell’integrazione europea, nonché l’unico paese candidato con il quale sono già stati aperti tutti i capitoli di negoziato – ma anche per la stabilità stessa dell’intera regione. Difatti, la vittoria di tre partiti dell’opposizione (Za budućnost Crne Gore, Mir je naša nacija, Crno na Bijelo) mentre da un lato crea le condizioni per il definitivo superamento della controversa trentennale esperienza di governo del DPS - Partito Democratico dei Socialisti (e prima ancora del suo leader indiscusso, Milo Djukanovic, che tuttora ricopre il ruolo di Presidente della Repubblica), pone purtroppo anche seri interrogativi circa la direzione che la nuova maggioranza vorrà imprimere alla propria politica estera (anche in relazione alla volontà di proseguire sulla strada delle integrazioni euro-atlantiche).

Al momento della stesura di queste righe non si è arrivati peraltro alla composizione del nuovo governo, ed è giusto attendere i suoi primi passi. Tuttavia, i festeggiamenti per la vittoria (tanto da parte della popolazione montenegrina che si sente “tutt’uno” con quella serba, quanto da parte delle stesse Belgrado e Banja Luka!) hanno riportato in auge molti ornamenti e simbologie che si sperava fossero stati definitivamente sepolti nel repertorio degli anni Novanta.

Tale preoccupante risveglio va letto tuttavia oggi in un contesto geopolitico più ampio. Del resto, lungi del ricadere nella pur facile russofobia (che in alcuni Stati Membri Ue talvolta appare decisamente sopra le righe), non si può non osservare il compiacimento ufficiale per il risultato elettorale da parte delle autorità russe (attraverso una prima reazione di Konstantin Kosachev, presidente della Commissione per la politica internazionale del Parlamento della Federazione Russa, che nell’auspicare “un Montenegro diverso, che da secoli è legato alla Serbia e alla Russia da interessi comuni” prevede “un cambiamento nella direzione strategica della politica estera del Montenegro”, Jutarnji List, 1 settembre 2020).

Montenegro a parte, le diverse “sfumature di grigio” della realtà balcanica odierna (paralisi istituzionale e politico-economico-sociale che pervadono la Bosnia Erzegovina a ben venticinque anni dalla firma degli Accordi di Dayton; tentennamenti della Serbia nell’intraprendere una definitiva direzione europea; l’irrisolta “questione kosovara”, con il rischio di imprevedibili “implicazioni regionali” di alcune ipotetiche ed avventurose soluzioni), unitamente ad un oggettivo deficit di credibilità dell’Unione Europea stessa, risultato di una politica di costanti rinvii dell’apertura dei negoziati, hanno creato nei Balcani un’incertezza non semplicemente circa la reale volontà dell’Unione, bensì anche in relazione alle sue reali capacità di portare avanti il processo di allargamento. Tale ondivago atteggiamento dell’Ue ha avuto il suo culmine nella frustrazione delle attese della Macedonia del Nord che, dopo aver addirittura accettato – al fine di superare il veto della Grecia - di cambiare il proprio nome, si è vista negare in un primo momento la decisione dell’apertura dei negoziati.

Difatti, visto dai Balcani, il processo di allargamento - per un insieme di ragioni non necessariamente in contrapposizione tra loro – sembra conoscere un parziale raffreddamento” della sua “spinta propulsiva”. Peraltro, tale atmosfera di sfiducia non è più prioritariamente ascrivibile alla pur proverbiale incapacità delle élite politiche locali di agganciare il treno europeo (nell’ambito del recente incontro “Ue-Balcani Occidentali: la sfida dell’allargamento”, tenutosi a Roma il 10 settembre u.s., il Commissario europeo per la Politica di Vicinato e di Allargamento, Olivér Várhelyi ha dichiarato: “Quando i paesi balcanici saranno pronti, saremo pronti anche noi!”; tuttavia, osservando la situazione sul terreno, in particolare in alcuni paesi, il dubbio si pone: saranno [mai] pronti?), ma piuttosto ad un progressivo cambiamento dello scenario geo-politico globale, che non può non avere conseguenze anche sulle dinamiche balcaniche.  

Negli ultimi anni e mesi – anche a causa della pandemia in corso – la già precaria situazione nei Balcani occidentali si è aggravata sotto ogni aspetto, non ultimo quello economico. Bene ha fatto quindi la Commissione a prendere con tempestività alcune misure di supporto macroeconomico e di assistenza immediata alla regione (per un ammontare di ca. 3.3 miliardi di Euro) e a metterne in cantiere altre. Ciò nonostante, tuttavia, nel profondo animo dei Balcani sembra serpeggiare più di un dubbio circa la reale forza “dell’Occidente” (il termine ancora frequentemente in uso da quelle parti) di inglobare i paesi balcanici nella propria sfera d’influenza. Quella forza che era stata data per scontata ai tempi della pace di Dayton del 1995 e dell’Accordo di Kumanovo del 1999 e tuttora ben presente ai tempi del vertice di Salonicco del 2003.

In altre parole, non è il “comune sentire europeo” da parte dei cittadini balcanici a venire a mancare. Più semplicemente, nei Balcani, più che altrove, più che i desiderata, contano i riflessi storici e la realpolitik

Ad esclusione della Slovenia e della Croazia, che da sempre appartengono all’orbita “occidentale”, gli altri paesi della regione oscillano storicamente tra l’“orbita europea” (austro-ungarica, tedesca, italiana o angloamericana che sia) e quella “russo-ortodossa” e “turco-ottomana”. Di conseguenza, un indubbio crescente attivismo ed una influenza globale della Federazione Russa e della Turchia non possono non avere conseguenze, dirette ed indirette, sugli assetti della regione. Peraltro, non si tratta solo di un puro retaggio storico-culturale, bensì della crescente considerazione da parte delle élite balcaniche della vera o presunta potenza di tali paesi e delle forme autoritarie di governo che gli stessi esprimono.

Un'ulteriore chiave di lettura storica è rappresentata dai rimasugli della “specificità jugoslava”, tradotta in questo caso nei pur goffi tentativi di richiamare i fasti della politica estera titoista attraverso gli sforzi “di mantenere i piedi in più scarpe” (tentativi perseguiti in particolare dalla Serbia), a partire dallo stretto rapporto con un altro key player globale, la Repubblica Popolare Cinese. Alla luce della considerazione di cui sopra, non è un caso che il paese che ad oggi appare più committed sulla strada delle integrazioni europee sia l’Albania (ovvero una realtà “non ex jugoslava”). 

Ma questi aspetti “tattici” assumono un significato secondario rispetto ad una dimensione di carattere globale e “strategica”. Nella loro lunga e turbolenta storia i Balcani non sono mai stati immuni a cambiamenti epocali degli assetti geopolitici. Del resto, pur non sottovalutando le spinte autoctone locali, non bisogna dimenticare che la prima Jugoslavia è nata a Versailles, che la seconda Jugoslavia fu resa possibile non solo grazie alla schiacciante vittoria militare del movimento di resistenza ma anche grazie ad un accordo tra Churchill e Stalin sulle zone d’influenza (che lasciava il paese al riparo del controllo esclusivo di un unico blocco politico-militare), e che l’esperienza dello Stato jugoslavo finisce quasi di colpo quale effetto collaterale (oppure voluto?) della caduta del muro di Berlino. È pertanto netta la percezione che il processo di integrazione europea dei paesi balcanici porterà al suo approdo naturale solo nella misura in cui la Ue saprà preservare il suo ruolo di grande potenza – fosse pure di “gigante gentile” – attraverso l’esercizio del suo “potere di attrazione” anche in un mondo post-Covid. Purtroppo, ad oggi, è ancora troppo presto per dare ciò per scontato. 

Paradossalmente – per chiudere con una nota di velato ottimismo – l’attuale posizione di “limbo” non ostacola per niente, ed anzi aumenta, gli spazi per potenziali iniziative bilaterali italiane (finalizzate al risveglio della “spinta propulsiva” pro-Europa). L’Italia è percepita nei Balcani – e in questi tempi ciò rappresenta un vantaggio – non come una (delle tante) potenze egemoni, bensì come un paese di soft power, al quale tutti i popoli balcanici guardano con estrema simpatia ed amicizia, oltre che con il desiderio di imitarne i paradigmi di sviluppo (da paese impegnato in una difficile ricostruzione postbellica ad una delle maggiori potenze industriali) e lo “stile di vita”. Può sembrare poco, ma ciò rappresenta un prezioso asset (che gli altri paesi non possiedono) in un puzzle che appare assai complicato.