Ue-Balcani: la necessità di una strategia inclusiva

Gjergji Kajana
Giornalista freelance, Collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

In termini di relazioni, oggi i Balcani Occidentali sono nei fatti molto legati all’Unione. Innanzitutto si rileva un aumento degli interscambi economici e politici: il 70% del volume commerciale dei 6 paesi si svolge con la Ue, la quale investe nella regione oltre 10 miliardi di euro e agisce come principale partner e garante esterno di sviluppo; quattro dei paesi balcanici (Montenegro, Serbia, Macedonia del Nord, Albania) sono impegnati nei negoziati per l’adesione. Però è innegabile che il processo di allargamento sia sottoposto a “stop and go” ciclici, decisi da Bruxelles e forieri di malumore nell’area. Storicamente l’attenzione europea verso i Balcani è stata alta soprattutto durante le ricorrenti crisi nell’area, senza capire che l’azione in tempi di stabilità è la migliore cura per prevenire nuove crisi. Quella migratoria del 2015 ha ampliato lo sguardo sui paesi dell’area (corridoio di passaggio dei rifugiati dall’Asia), rimarcando il fatto che senza uno sbocco esterno (nel caso specifico il “Ce la faremo” tedesco del 2015) essi non possono affrontare tali fenomeni senza rischiare la loro tenuta sociale. Ogni futura crisi migratoria rafforzerebbe nella penisola il razzismo e le forze estreme, che nei Balcani spesso covano sotto la cenere.

Da costruire, per la piena appartenenza dei Balcani Occidentali all’universo Ue, è l’adesione ai valori comuni liberaldemocratici enumerati nell’articolo 2 del Trattato dell’Unione Europea (rispetto per la dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto della legge e per i diritti umani). I valori comuni rappresentano un “core business” dell’allargamento e la loro assimilazione, così come quella dei criteri di Copenaghen, è necessaria ai Balcani per uscire dal limbo storico-politico. Nell’area l’adesione ad essi è recente: ha iniziato a svilupparsi negli ultimi 30 anni, dopo la fine del comunismo. Le oligarchie politiche però hanno messo a lungo un’ipoteca sul potere anche dopo la Guerra Fredda, creando false aspettative di benessere generale che, una volta deluse, hanno portato a fenomeni come la voglia generalizzata di abbandonare il proprio paese e l’emigrazione di cervelli e professionisti. Spiegava nell’ottobre 2019 Vuk Velebit, analista politico serbo, durante un convegno all’Istituto Internazionale per la Pace a Vienna: “Le persone lasciano i propri paesi perchè sono alla ricerca di una vita normale, per avere la sicurezza che un domani i loro figli troveranno un impiego non in base a chi conoscono ma a che cosa conoscono.” Una tendenza al ricambio delle élite da lungo tempo al governo si è manifestata con i risultati elettorali dal 2013 in poi in Albania, Macedonia del Nord e più recentemente Montenegro.

Oltre al difficile radicamento della democrazia intesa sia come prassi elettorale sia come “governance”, a influire sul percorso travagliato dell’allargamento pesa il fatto che tanta parte delle opinioni pubbliche nei paesi dell’Unione resta contraria al processo, con i balcanici visti come potenziali emigranti economici e beneficiari delle risorse dello stato sociale. Nel 2017 era contrario all’allargamento il 64% degli olandesi e il 59% di belgi e lussemburghesi. Un’altra preoccupazione riguarda le possibili delocalizzazioni produttive di imprese, già realtà entro l’area Ue. Bisogna spiegare, a questo proposito, che i paesi membri economicamente meno sviluppati ricevono trasferimenti netti dal bilancio comunitario e usufruiscono della ricchezza prodotta dalle imprese delocalizzate, ma generano altresì profitti una parte dei quali ritorna nei paesi d’origine delle imprese. Come dimostra uno studio del World Inequality Database, network di ricercatori coordinati da Thomas Piketty, se solo la metà degli investimenti privati netti in uscita dai paesi dell’Est membri Ue andasse all’Europa Occidentale questo basterebbe a pareggiare i conti con i trasferimenti pubblici arrivati agli orientali da Bruxelles. Scenario verosimile anche nel futuro dei rapporti Ue-Balcani Occidentali dopo l’eventuale adesione.

La penetrazione di Cina (verso la quale Bruxelles vorrebbe riconsiderare l’approccio), Russia (con la quale la Realpolitik impone la ripresa di un dialogo sereno), Turchia (detentrice di un potere di ricatto migratorio) e paesi arabi mette a rischio il ruolo primario dell’Ue nella penisola balcanica. Anche questo fenomeno evidenzia perché l’Unione debba assumere un ruolo politico guida, rendendo certa la prospettiva dell’adesione, non limitandosi a stimolare e prendere atto degli sviluppi su criteri di Copenhagen, riforme e capitoli d’adesione. A questo scopo servirebbero anche segnali e risultati come lo sono stati quest’anno l’apertura dei negoziati di adesione con Tirana e Skopje, il pacchetto da 3.3 miliardi di euro per affrontare le conseguenze del Covid-19 accordato da Bruxelles all’area, e magari la liberalizzazione dei visti per il Kosovo, ancora bloccata. Passi tangibili come questi, una volta che i governi abbiano adempiuto ai criteri tecnici (negoziati e visti) o si trovino in stato di necessità (pandemia), segnalebbero ulteriormente all’area che l’Ue è un partner e vicino affidabile.

Dal 2008 fino all’insediamento della Commissione Von der Leyen (2019) l’Ue ha attraversato una crisi esistenziale sotto i colpi di recessione, secessione (Brexit), populismo, minacce allo stato di diritto dentro i confini dell’Unione (Ungheria, Polonia), peggioramento delle relazioni con la Russia, allentamento del vincolo transatlantico, terrorismo e immigrazione. Da ultimo c’è stato l’inatteso arrivo del Covid-19, affrontato istituzionalmente attraverso il compromesso sul Recovery Fund. I Balcani continuano a non ricevere l’attenzione di cui godettero – per effetto sia della guerra che delle prime timide riforme - nei primi due decenni dopo la fine del comunismo.

Per poter rilanciare decisamente il percorso d’adesione (e spingere l’Unione verso un necessario federalismo integrato che ne favorisca una maggiore incisività decisionale) sono necessarie tra l’altro: 1) una strategia di incremento del peso della Ue (strategia da realizzarsi internamente all’Unione e che si ispiri a una visione geopolitica più ampia dell’attuale); 2) modifiche delle modalità decisionali interne, favorendo l’adozione futura del principio del voto a maggioranza qualificata anche sull’allargamento; 3) una collaborazione stretta e il più paritaria possibile con tutti i paesi della regione. Rimane soprattutto vitale (come sottolineato anche dalla nuova metodologia di allargamento), la stretta collaborazione con i paesi balcanici (che appare più facilmente adottabile fin dall’inizio) perché è molto probabile che l’auspicata adesione avvenga a diverse velocità (Bosnia-Erzegovina e Kosovo sono criticamente indietro nel percorso), ma la preparazione degli aspiranti deve essere la più omogenea possibile per poter approfittare delle esperienze altrui.  

Sul successo dell’allargamento riposano le più fervide speranze di un migliore futuro della maggior parte dell’opinione pubblica dei 6 paesi. La più recente edizione (giugno 2020) del Barometro Balcanico registra un 59% dei cittadini dei Balcani Occidentali favorevoli alla adesione all’Ue, con un consenso da parte della società civile in aumento del 10% rispetto al 2019. Società civile che è stata rimotivata nel 2014 dal lancio, su iniziativa della cancelliera Merkel, del Processo di Berlino, finalizzato ad attivare la cooperazione regionale anche con nuovi forum che la includevano. È una strategia condivisibile: per effetto del ritardo storico accumulato sul fronte del pluralismo i paesi balcanici stentano nella formazione di una società civile critica verso le storture operate dalla corruzione in politica e economia, e attiva nel terzo settore. La nascita del Processo di RYCO (Ufficio per la Cooperazione Giovanile Regionale), WBF (fondo per aiutare le iniziative nei campi della cultura, istruzione, ricerca, sviluppo sostenibile, questioni di genere), il Forum della Società Civile dei Balcani Occidentali (piattaforma di think tank e organizzazioni), WB6 CIF (piattaforma cooperativa di camere di commercio e industria che annovera tra i fondatori anche la Camera di Commercio del Friuli Venezia Giulia) dimostra che tali iniziative possono trovare un riscontro di attivismo in larghi settori delle società coinvolte.

Vanno citati almeno due esempi virtuosi negli ultimi anni dell’impegno Ue alla sicurezza e allo stato di diritto nell’area. Il più importante è il dialogo tra Kosovo e Serbia, incanalato nel 2013 dall’allora Alto rappresentante Ue per la Politica estera e di sicurezza Ashton in binari costruttivi tramite la mediazione di un accordo per l’autonomia sostanziale delle regioni a maggioranza serba nel Kosovo Settentrionale. Da allora Belgrado e Pristina, che non hanno relazioni diplomatiche reciproche, usufruiscono di un canale diretto di contatto, minimizzando così il rischio di una nuova guerra. La credibilità di Bruxelles a Pristina deve essere rafforzata, come già menzionato, dalla liberalizzazione dei visti d’ingresso nell’area Schengen per i cittadini kosovari. Di grande importanza per lo stato di diritto risulta l’appoggio tecnico e politico fornito all’Albania nel processo costituzionale (2016) di riforma del sistema giudiziario. Indirettamente, invece, il “soft power” esercitato dalla prospettiva Ue ha indotto la Macedonia del Nord a risolvere la storica diatriba con la Grecia sulla questione del nome della ex-repubblica jugoslava. I tre casi sottolineano il potenziale stabilizzante della Ue nell’area.

Il ruolo della Germania, il più importante paese della Ue, deve essere menzionato a parte perchè molto incisivo nella spinta all’allargamento. Durante il cancellierato della Merkel la Germania ha molto investito su questo processo, con iniziative decisive miranti a comporre i contrasti Serbia-Kosovo prima della eventuale futura adesione dei due paesi, incentivare la cooperazione regionale (Processo di Berlino, un summit nel 2019 nella capitale tedesca con i leader regionali) e il disgelo Albania-Serbia, far avanzare il processo di candidatura della Bosnia-Erzegovina. All’interno dell’Ue, la Germania rappresenta un grande partner commerciale dei paesi dell’area, ha una fortissima rappresentanza sul terreno delle proprie associazioni economiche (tramite il German Eastern Business Association, OAOEV) e una conoscenza diretta (tramite le attività dei principali partiti tedeschi) delle dinamiche politiche nei vari paesi. Sono state soprattutto le sollecitazioni tedesche ad incentivare un aumento della collaborazione regionale tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord, che progettano di realizzare entro il 2021 un’area di libero scambio tra di loro (giornalisticamente definita “Il MiniSchengen” balcanico). Il Kosovo si è impegnato ad unirsi all’iniziativa, vista con vivissimo interesse anche dal Montenegro.

Questo impegno tedesco deve essere affiancato fortemente dall’Unione “in toto” o almeno da pesi massimi come la Francia e l’Italia, che potrebbero rilanciare un approccio proattivo tramite la ripresa e l’allargamento a partner Ue o altri paesi balcanici di iniziative diplomatiche come la Trilaterale dei Ministri degli Esteri con Serbia e Albania iniziata nel 2015. Ogni passo diplomatico diretto ai Balcani dei grandi paesi Ue, fautori ed esecutori dell’approccio intergovernativo dentro l’azione comunitaria, deve essere ricondotto all’Unione per poterla rendere più credibile, informata e presente in dinamiche in movimento. Oltre alla locale società civile, partner da attivare proficuamente in termini di contatti sul terreno sono le grandi associazioni economiche di categoria dei paesi Ue come l’OAOEV, la Confindustria italiana o l’AICS.

L’Ue non possiede ancora un’architettura operativa federale e quindi, per spingere l’allargamento, risulta indispensabile al momento l’approfondimento delle relazioni anche bilaterali già in atto, accompagnato dalla chiara comunicazione ai sei paesi della ineludibilità della integrazione. Il processo non può che rimanere “top down”, ma deve contenere più certezze. I Balcani sono Europa, l’interdipendenza è già forte e la strategia tesa ad includerli politicamente dentro i confini comunitari rafforza Ue e penisola balcanica in termini di stabilità, dinamismo economico, proiezione geopolitica e diffusione della democrazia.