Ricominciare dai Balcani: per il rilancio dell’integrazione Ue

Nicola Minasi
Ambasciatore d’Italia in Bosnia ed Erzegovina

Quest’anno ricorrono i 25 anni dall’Accordo di Dayton e come giustamente individuato dal CeSPI con quel passo si volle vedere nella prospettiva europea la chiave della nuova stabilità nei Balcani. L’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina a marzo 1992 fu un momento drammatico, appena pochi giorni dopo la firma a Maastricht, a febbraio, del trattato che creava formalmente l’Unione Europea. Negli stessi giorni una parte d’Europa si consolidava, un’altra si sfaldava. Nel 1999 ecco un altro conflitto, in Kosovo. Stavolta l’Ue non si volta dall’altra parte e la NATO non aspetta: visto cosa è accaduto a Srebrenica nel 1995, l’Occidente interviene sulla base della “dottrina umanitaria”, per evitare catastrofi peggiori dell’attacco stesso. Ancora una volta, è la prospettiva europea che è demandata a curare le ferite, come accaduto nel secondo dopoguerra a partire tra Francia e Germania.

Quest’Atto di nascita della prospettiva europea per i Balcani, insito già dal 1991 con il riconoscimento dell’indipendenza di Croazia e Slovenia da parte degli Stati CEE, si è basato sin dall’inizio su un presupposto implicito: la mancanza di alternative al processo europeo ed una sorta di ineluttabilità storica, oltre che geografica, per la creazione di una massa critica per l’integrazione nell’Ue. Questa prospettiva ha fatto credere che l’attrazione europea avrebbe modificato le dinamiche politiche e sociali dei Paesi balcanici e che questi si sarebbero trasformati nell’interazione con l’Ue in un gioco di vasi comunicanti.

Ad oggi si può dire che il processo non è ancora compiuto: la lettera di Dayton vede un’applicazione problematica, la situazione del Kosovo non è definita, le relazioni regionali restano difficili. Certo, l’approssimazione progressiva al diritto comunitario è stata avviata ed è stato messo in piedi un grande armamentario d’investimenti infrastrutturali su scala continentale, con componenti importanti nei Balcani. Tuttavia la costruzione funzionale dal basso, prima l’economia e poi la politica, mostra i suoi limiti: il processo arranca e l’opinione pubblica, nell’Ue e nei Balcani Occidentali, appare logorata.

Uno dei motivi è che negli ultimi 25 anni le classi politiche dei Paesi vicini hanno messo a fuoco un ulteriore presupposto implicito da parte dell’Ue: non l’anelito al completamento di una visione continentale generale, ma la limitazione dei problemi e dell’instabilità, favorendo nel frattempo l’integrazione economica dal basso. I partiti locali sanno che da loro non ci si aspetta di essere modelli democratici, ma di mantenere con l’Ue un collegamento sufficiente, senza riaprire il vaso dell’instabilità.

Questa situazione consente ai vertici locali di essere piromani e pompieri allo stesso tempo: di attizzare le fiamme del nazionalismo e dell’instabilità quando necessario ai fini del controllo elettorale e di vestire i panni dei riformatori europei nei contatti con Bruxelles. Ciò provoca a sua volta un’integrazione controllata con l’Ue, dove l’esportazione di manodopera soddisfa ad un tempo le esigenze dei più grandi Stati Ue e consente una maggiore presa sulla società locale, un po’ come accadeva con i “gastarbeiter” iugoslavi negli anni Settanta e Ottanta.

Il risultato è che in definitiva i responsabili politici possono decidere la velocità delle riforme e della partecipazione sociale adattandola alle proprie esigenze, giocando altresì sulle obiettive lentezze da parte UE. Questo limbo riduce l’impatto del modello europeo ed allo stesso tempo stanca la popolazione dappertutto: l’esodo dei giovani verso l’Ue è la dimostrazione che “si vota con i piedi”.

Come riaccendere un meccanismo virtuoso nella relazione reciproca? Prima di tutto l’Ue deve aumentare la posta in gioco: dare molto in cambio di molto. Politicamente sarebbe più efficace capovolgere il sistema negoziale e fissare in anticipo date d’ingresso per i Paesi richiedenti, a patto che questi adottino efficacemente le riforme secondo un calendario concordato. Ove i governi non rispettassero il calendario, gli elettori avrebbero un parametro chiaro per giudicarli e punirli. I referendum di approvazione nei tornanti più difficili, come nel caso del cambiamento del nome per la Macedonia del Nord, o per il riconoscimento del Kosovo, andrebbero incoraggiati come strumento decisivo per spingere i governi a scelte coraggiose. Per gli obiettivi di minore gittata, alla carota della collaborazione tecnica andrebbe unito più spesso il bastone di un blocco dei finanziamenti a dono. Sul piano degli investimenti strutturali finanziati dall’Europa, inoltre, si dovrebbe trovare il modo di mobilitare il risparmio privato, affiancandolo al partenariato con i governi locali, senza lasciare che questi abbiano il controllo totale dei flussi finanziari dall’Ue. Solo così infatti la popolazione diventerebbe un soggetto economico autonomo, affiancato ai rispettivi governi e fattivamente coinvolto nella costruzione dei propri Paesi, con un interesse concreto e diretto per l’integrazione.

Secondo elemento necessario è investire molto di più sulla società civile e soprattutto sui giovani. Il Piano Marshall comportò un esborso finanziario importante, ma minore di tanti attuali interventi europei. L’effetto più importante fu però psicologico: governi e società percepirono la forza prorompente della novità, la necessità di adeguarsi a nuove realtà e comportamenti, la possibilità di un rilancio collettivo. Questa è la prospettiva irreversibile che l’Ue può e deve creare nei Balcani, prima di tutto sul piano sociale, partendo da un riconoscimento e superamento del passato. La verità giudiziaria sui fatti degli anni Novanta è problematica ovunque. Gli scambi tra i giovani sono minimi e non incoraggiati dalle istituzioni. In Bosnia Erzegovina i governi locali ostacolano nei fatti le gite scolastiche nelle aree “altrui” e per uno studente di Sarajevo e più facile partire per l’Erasmus ad Helsinki che andare a Belgrado.

Tutto questo deve cambiare: l’Ue deve investire massicciamente nelle scuole e nell’istruzione e chiedere che i libri di testo diano conto di fatti acclarati, incluse le conclusioni della giustizia internazionale, dando una prospettiva concreta alla riconciliazione delle generazioni più giovani. Gli ultimi anni hanno visto invece la tendenza opposta e le nuove leve sono più confuse e radicalizzate dei genitori che hanno vissuto direttamente la guerra. L’Europa non deve temere di pensare in grande e per il lungo termine, seminando diffusamente ed in ogni momento germi di novità negli animi più giovani. Germania e Italia hanno avuto il coraggio di cambiare dopo il nazi-fascismo e il quadro europeo le ha aiutate: lo stesso deve accadere nei Balcani e ciò richiede un impegno quotidiano, generazione per generazione, cosa purtroppo quasi del tutto ignorata attualmente.

In tale prospettiva l’Italia ha un ruolo prezioso da giocare. Per motivi storici e geografici gli italiani sono percepiti come i cugini dall’altra parte dell’Adriatico; nel bene e nel male ci vediamo simili e per certi versi diversi, ma certamente uniti nella capacità di accettare grandi sfide, quando la posta in gioco giustifica l’impegno di tutte le risorse dell’animo e della società. L’Italia è in grado di parlare a tutti e di fatto si offre come ponte per il dialogo reciproco. Lo testimoniano anche le gite scolastiche che giungono in Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo da vari anni: risultato questo di un’attenzione vivissima della nostra società civile, fortemente impegnata nei Balcani fin dalle guerre degli anni Novanta. Diffondere la cultura e l’economia italiana può essere un volano di crescita, a patto di continuare l’approccio già promosso dall’Italia fin dagli anni Novanta, d’impegno paritario e spesso disinteressato, basato su una reale simpatia e non su un disegno coloniale, crollato peraltro con la Seconda Guerra Mondiale.

Creare reali passi avanti nel dialogo e nell’integrazione regionale dev’essere infine la bussola concreta per misurare l’efficacia delle tante organizzazioni regionali a vocazione balcanica. Una recente indagine della Commissione Ue ne ha censite addirittura 70. Peraltro, con l’evoluzione dell’integrazione Ue molte organizzazioni regionali stanno diventando “sub-appaltatrici” di pezzi di programmi europei e dipendono sempre più dalla Commissione Ue per il proprio funzionamento. Questo è un bene, ma il valore di ogni organizzazione va considerato rispetto al risultato complessivo, più che al valore iniziale.

La scelta è se situarsi nell’inerzia amministrativa, complementare al limbo dell’integrazione ed al “paradosso balcanico” della stabilità al costo della democrazia, o apportare un contributo decisivo e misurabile alla vita dei cittadini in tutta l’area. Il “Regional Cooperation Council” con sede a Sarajevo, di cui l’Italia è parte, ha contribuito ad esempio all’abbattimento dei costi del “roaming” telefonico nei Balcani nel 2019, mentre nel 2020, all’inizio della pandemia da COVID-19, ha facilitato il transito degli autotrasportatori tra Ue e Balcani, per mantenere aperte le fabbriche e i supermercati: due risultati concreti e tangibili, in cui l’Italia ha giocato la sua parte.

La vera sfida, ancora una volta, è creare quella massa critica politica che permetta ai rapporti tra Ue e Balcani di attrarre e includere anche altri attori. Che Russia, Cina e Turchia lottino per mettere un piede all’ingresso dell’Ue è normale. Che decidano d’investire lì in un quadro orientato all’Europa, in un contesto d’attrazione irreversibile dell’area verso l’Ue, non è invece scontato e dipende dal quadro complessivo che l’Ue potrà offrire ai Paesi candidati.

Il “pacchetto europeo” è onnicomprensivo, convincente e ineluttabile? A parole sì, ma non è ancora percepito e realizzato come tale. Quando lo sarà, anche le scelte degli altri si adatteranno di conseguenza. Alle organizzazioni regionali spetta l’obbligo di stimolare questa visione, a patto che abbiano le risorse negoziali e politiche per permettere l’emersione del nuovo quadro.