I Balcani periferia d’Europa

Stefano Bianchini
Professore ordinario, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Bologna

Sarà interessante osservare, nei prossimi mesi, quale impatto eserciterà nel medio periodo la difficile e complessa trattativa, conclusasi di recente a Bruxelles per l’adozione del Recovery Fund, sul processo di allargamento nel Sud-Est europeo. Quale nesso, infatti, lega un difficile, a tratti aspro, negoziato (ancorché positivo nel suo risultato) fra i paesi membri dell’UE – e dal carattere, potremmo dire, “interno” – ad una strategia comunitaria “esterna”, perseguita sin dall’inizio degli anni Novanta verso l’Est post-socialista e post-sovietico, e successivamente estesa ai paesi cosiddetti dei Balcani occidentali?

Questo nesso riguarda, in realtà, l’efficacia e la credibilità della condizionalità europea che, negli ultimi anni ha sofferto di un netto declino. Molte ne sono state le cause. Fra queste, si possono annoverare il prevalere di timori e pregiudizi verso i nuovi membri, nei confronti dei quali è scaturita un’asserita esigenza di privilegiare la “capacità di assorbimento” dei vecchi Stati membri di fronte alle novità scaturite dall’allargamento del 2004. In seguito, nei governi e nelle opinioni pubbliche si è fatto strada un atteggiamento critico tanto verso Romania e Bulgaria (principalmente per i problemi riscontrati nel funzionamento della giustizia e nella lotta alla corruzione), quanto verso Polonia e Ungheria (allorché sono emerse preoccupazioni sul rispetto dello stato di diritto). Su tutto ciò, detto molto in sintesi, hanno poi gravato le politiche di austerità imposte a causa della crisi finanziaria del 2007-2008, devastanti per la Grecia, ma altresì dure per l’Est europeo, che aveva dovuto già applicarle fra il 1989 e la metà degli anni Novanta. Ulteriori divisioni sono scaturite dopo il 2014 rispetto alla gestione dei processi migratori, mentre si sono acuite le divergenze intergovernative nelle priorità da attribuire alla politica di vicinato verso Est o verso il Mediterraneo.

Benché molto di quanto sommariamente qui ricordato abbia poco o parzialmente a che vedere con i paesi successori della Jugoslavia e con l’Albania, il clima politico interno alla Ue, instauratosi a causa dei contesti sopra menzionati, ha ridimensionato notevolmente la forza attrattiva della Ue e della sua condizionalità esterna, nonostante il successo registrato a cavallo fra il XX e il XXI secolo. Un successo, questo, che si deve, in larga misura, alla coesistenza di approfondimento e ampliamento, ossia ad una doppia strategia di governance e di inclusione che è parsa dar forza al “sogno europeo” in alternativa al declinante “sogno americano”, come Jeremy Rifkin ha efficacemente scritto in quegli anni.

Come ricuperare, allora, un ruolo influente e nuova forza attrattiva alla condizionalità europea, soprattutto in tempi di Covid-19?

In effetti, nonostante le tensioni multiple che hanno pesato in questi anni, una volta posti di fronte ad un’epidemia su scala mondiale e difficile da controllare, con un impatto incalcolabile sul funzionamento economico, i paesi membri della Ue sono riusciti a definire un quadro innovativo e finanziariamente rilevante di interventi a sostegno delle economie in difficoltà attraverso l’impiego di eurobond. Diventa, allora, inevitabile chiedersi, a cascata, quali prospettive potrebbero dischiudersi per la “periferia” d’Europa, ossia per una regione ancora afflitta dalle tragiche eredità legate alla frantumazione di uno Stato (la Jugoslavia) e al dramma del collasso istituzionale vissuto dall’Albania sul finire del XX secolo. Tutti eventi, questi, che, in una forma o in un’altra, hanno lasciato strascichi rilevanti non solo nelle relazioni bilaterali, ma anche all’interno degli Stati dell’area.

Sicché, a guardar bene al contesto odierno, si potrebbero ipotizzare due possibili sviluppi. Il primo, più ottimista, parte dal presupposto secondo cui il risultato positivo raggiunto dal negoziato di luglio a Bruxelles costituisce un esempio e un convincente catalizzatore delle opportunità che l’integrazione europea è in grado di innescare, convincendo, di conseguenza, le riottose leadership balcaniche a trattare a loro volta con simile caparbietà fino a realizzare quelle riforme strutturali necessarie per rendere i loro paesi compatibili con la Ue. Il secondo, meno ottimista, potrebbe rimanere condizionato, invece, dalla conflittualità manifestatasi in tutta la sua durezza durante la trattativa che ha preceduto l’accordo del 21 luglio, inducendo le élite balcaniche ad alzare reciprocamente la posta, a rinviare ulteriormente decisioni cruciali, ritenendo la UE troppo assorbita dai suoi problemi interni per affrontare efficacemente le insolute questioni macroregionali.

Ad esempio, è chiaro – dai dati più recenti di diffusione del Covid-19 - come i sistemi sanitari di quei paesi siano particolarmente fragili e inadeguati ad affrontare la recrudescenza dell’epidemia, avendo dovuto in passato applicare politiche liberiste di riduzione della spesa (su richieste occidentali) a danno del welfare locale che pure esisteva, anche se pur con vari limiti. Quale sostegno finanziario la Ue sarà in grado di offrire in questi frangenti in modo da evitare che questi paesi si sentano “abbandonati”? In altre parole, esiste nel Sud-Est europeo una situazione sociale ed economica che non può essere lasciata a detrimento di altre questioni più politiche, e certamente molto urgenti, che affliggono l’area. Ma la Ue è disposta ad agire con fermezza in un ulteriore quadro di incertezze che riguardano, questa volta, il suo vicinato, tonando a lavorare simultaneamente su governance e inclusione? Lo vedremo.

Intanto, lo sforzo diplomatico che di recente è stato riavviato dall’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Unione Josep Borrell a favore del dialogo fra Serbia e Kosovo è solo la punta dell’iceberg dei problemi regionali. Per quanto complessa e difficile sia la questione dei rapporti fra Pristina e Belgrado, l’Ue deve necessariamente dispiegare uno sforzo multilaterale e complessivo a partire dalla necessità di far ratificare gli accordi già raggiunti sui confini fra i paesi candidati o potenzialmente tali, quando non avviare mediazioni su confini ancora in discussione, a partire da quello fra Slovenia e Croazia nella baia di Pirano. Analogamente, le elezioni recentemente avvenute in Macedonia del Nord sembrano aver confermato l’orientamento europeista e pro-NATO della precedente coalizione governativa, ma bisognerà seguire con molta attenzione la trattativa per la formazione del nuovo esecutivo, giacché esiste il rischio che essa non conduca ad una maggioranza chiara, fino ad aprire le porte a nuove elezioni. Se è vero, infatti, che il partito socialdemocratico guidato dall’ex premier Zaev ha ottenuto la maggioranza dei seggi, è altrettanto vero che le sue relazioni con il più forte partito albanese, il DUI, si sono deteriorate durante la campagna elettorale e potrebbero condurre, ora, ad un pericoloso gioco di veti incrociati.

Anche il piccolo Montenegro, nonostante sia stato aperto l’ultimo capitolo del negoziato con la Ue lo scorso giugno, resta afflitto da un conflitto politico-religioso di estrema delicatezza in seguito all’approvazione della nuova legge sulla libertà religiosa del dicembre 2019. Una legge, questa, che ha innescato uno scontro frontale con il Patriarcato serbo, con conseguenze laceranti per l’identità nazionale del piccolo Stato.

Resta poi aperta la questione della Bosnia-Erzegovina, dove l’unica novità al momento risiede nella decisione di indire le elezioni per il sindaco di Mostar dopo dodici anni di sospensione per l’impossibilità delle parti croata e bosgnacca di trovare un accordo. Ma i contrasti fra le due entità e all’interno della Federazione permangono, riproducendo una situazione di logorante impasse che dura ormai da anni e sui cui esiti gravano i potenziali sbocchi cui potrebbe condurre la trattativa in corso sul Kosovo.

Ecco perché la UE avrebbe bisogno di delineare una strategia complessiva, sia di sostegno economico, sia di intermediazione politica in tutta la regione, invece di focalizzarsi su situazioni specifiche e, spesso, a fasi alterne. Gli strumenti non le mancano, mentre c’è necessità di caparbietà politica. Si pensi, ad esempio, all’iniziativa cosiddetta del “piccolo Schengen” avviata da Albania, Serbia e Macedonia del Nord. Si tratta di una strategia che ha l’ambizione di attuare le quattro libertà della Ue in tutti i paesi candidati o potenzialmente tali e che potrebbe rafforzare le economie locali, consentendo loro, gradualmente, di soddisfare il secondo criterio di Copenaghen. Un decisivo aiuto europeo in questo campo sarebbe essenziale, nonostante esistano alcune resistenze politiche locali, soprattutto in Kosovo, ma che solo una decisa iniziativa comunitaria potrebbe contribuire ad attenuare e, quindi, a superare.

In questa prospettiva, anche la macroregione adriatico-ionica potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo leader, non solo sul piano politico-culturale e di coesione territoriale, ma anche finanziario, sanitario e di gestione dei flussi migratori. L’Italia è il paese preponderante all’interno di questa configurazione che, nel suo insieme, si presenta come la più arretrata d’Europa, e in cui cinque dei nove paesi membri sono ancora esterni all’Ue. Sarebbe, allora, importante che l’Italia – benché a sua volta afflitta oggi da gravi problemi economico-sanitari – utilizzi il recentemente conquistato prestigio internazionale anche come paese fondatore dell’Unione, per spingere la Commissione e le istituzioni comunitarie a varare dei programmi specifici per sostenere le aree socialmente e politicamente più fragili della “periferia” d’Europa, facendo leva sia sulle amministrazioni locali, sia sulle reti già sorte nell’area adriatico-ionica, e in particolare quelle delle Università (con Uniadrion), dei forum delle città e delle Camere di Commercio.

Purtroppo, al momento, le resistenze delle istituzioni intergovernative della Ue e la disattenzione di quelle comunitarie non attribuiscono a queste strategie un valore prioritario per la stabilità e la pace in Europa. Esse si limitano “a contenere” il disagio, senza investimenti complessivi e attività diplomatiche di respiro onnicomprensivo. Di conseguenza, si rischia di trascinare nel tempo una situazione di incertezza geopolitica alle porte d’Europa, lasciando spazi inattesi ad altre potenze, inclusi gli Stati Uniti che non necessariamente operano in coordinamento con la Ue, così come è successo di recente, quando hanno fatto capire di essere disponibili a sostenere un aggiustamento territoriale fra Serbia e Kosovo. Un’ipotesi, questa, che, in realtà, rischierebbe di riaprire il vaso di pandora di tutti i problemi rimasti ancora insoluti.