L’integrazione europea dei ‘Balcani occidentali’. Il punto di vista degli attori

Tatjana Sekulić
ricercatrice del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Milano-Bicocca

La riflessione in questa breve analisi parte da un primo presupposto che i paesi dei cosiddetti “Balcani occidentali” siano già da tempo indubbiamente e profondamente legati all’Unione Europea, a partire dal Summit di Zagabria nel 2000 e dal Consiglio Europeo di Salonicco nel 2003. Nonostante il processo di integrazione proceda lento e non dia segni immediati e sufficienti della sua efficacia, va tenuto in mente che nel corso dell’ultimo ventennio turbolento prima la Slovenia (2004) e poi la Croazia (2013) sono diventate membri dell’UE, mentre lo status di candidato è stato riconosciuto ad altri quattro paesi. Montenegro e Serbia hanno avviato i negoziati nel 2012 e 2014, mentre la situazione della Macedonia del Nord e dell’Albania si è finalmente sbloccata a marzo di quest’anno, promettendone l’inizio entro la fine del 2020. Rimangono indietro Bosnia Erzegovina e Kosovo, a cui i conflitti degli anni Novanta hanno inflitto danni strutturali e istituzionali più pesanti e per certi aspetti sigillati nell’assetto politico dello Stato emerso dagli accordi internazionali. Nonostante le grandi difficoltà nel procedere gradualmente con le trasformazioni condizionate dal processo di adesione, e le situazioni contestuali molto diverse, entrambi questi paesi, ancora con lo status differenziato di candidati potenziali, diventano sempre più fortemente vincolati dai legami economici e politici con l’Unione europea.

I cittadini dei sei paesi esprimono ancora un alto grado di fiducia nelle integrazioni europee e hanno necessità di progredire a passo più deciso verso il miglioramento delle condizioni di vita. Queste condizioni sono rese ancor più precarie dal susseguirsi delle crisi – da quella finanziaria del 2008 a quella dei migranti nel 2015, all’attuale crisi dell’emergenza Covid 19, di cui si intuiscono già le pesanti ricadute. La stessa Unione Europea si trova attualmente in un’enorme difficoltà politica oltre che economica. In tal senso torna cruciale l’intervento europeo nella ripresa dell’impegno verso l’allargamento, annunciata nel febbraio 2020.

Il secondo presupposto di questa analisi riguarda il pericolo di uno sguardo meramente geopolitico verso l’adesione dei Balcani occidentali. Un orientamento di questo tipo potrebbe alimentare soprattutto le forze politiche illiberali e nazionalistiche, populiste e sovraniste di questi paesi, in quanto capace di nutrire quel tipo di argomentazione che fa entrare in gioco una strategia di ricatto reciproco tra le élite politiche locali riguardo l’accesso alle risorse europee. L’indecisione con cui l’UE ha gestito la questione dell’allargamento negli ultimi dieci anni ha permesso che i Balcani occidentali diventassero il poligono di giochi strategici delle vecchie e delle nuove potenze, in particolare la Russia e la Cina, e in parte la Turchia. I tre paesi in effetti non hanno un interesse genuino per la regione balcanica e per la sua prosperità, essendo gli Stati ex jugoslavi e l’Albania afflitti da condizioni economiche difficoltose e da una situazione socio-politica potenzialmente conflittuale, in relazione ai clivaggi specifici che riguardano ciascuno di questi paesi separatamente e nella loro interazione. Si può quindi ipotizzare che l’interesse di questi attori sulla scena internazionale riguardi soprattutto il mantenimento delle tensioni sia nell’ambito della politica interna e nei rapporti tra i gruppi etnonazionali nella regione, sia un ulteriore rallentamento della già cronica indeterminazione dell’adesione dei Balcani occidentali all’UE, a danno dell’Europa stessa.

Il processo di Berlino (2014-2019) si può definire in tal senso un tentativo di alcuni Stati membri dell’Unione di arginare il divario creato dalla moratoria all’allargamento entrata in forza con la commissione Juncker verso la fine del 2014. I sei Summit – l’ultimo quello di Poznań in 2019 – hanno senz’altro contribuito a prevenire un possibile allontanamento dei sei paesi dallo spazio geopolitico ed economico dell’Unione Europea. Nello stesso tempo un crescente coinvolgimento della società civile, della rete dei giovani (RYCO), e della comunità accademica e scientifica nel corso dei sei anni, oltre all’obiettivo legato alle infrastrutture di connettività e allo sviluppo economico, ha prodotto un modello efficiente di comunicazione e cooperazione nella regione. Questo modello, di un intervento socio-politico mirato, va ulteriormente rafforzato e sostenuto nel tempo, a dispetto del dominante modello competitivo neoliberale i cui danni dovranno essere ancora indagati.

Perciò il terzo presupposto punta soprattutto alla dimensione cooperativa socio-politica del processo di adesione all’Unione Europea, rispetto ai suoi aspetti geopolitici ed economici. Ritengo che a tale scopo sia di enorme importanza differenziare analiticamente la dimensione dell’allargamento dell’Europa unita dalla dimensione dell’adesione dei nuovi paesi aspiranti membri. A partire dall’ottobre 2008 fino alla costituzione della Commissione von der Leyen a novembre 2019 ho esplorato le due dimensioni del processo nel caso dei Balcani occidentali. Ho analizzato i report annuali nazionali della Commissione Europea e altri documenti strategici che interpretavano il progresso ottenuto in vari segmenti delle società in questione, e definivano in base a quei risultati la sequenza dei passi successivi. Ho intervistato gli attori di questo processo a Bruxelles e nelle capitali ex jugoslave e di Albania, la prima volta nel 2009 e 2010, la seconda nel 2018 e 2019. La ricerca (Sekulić T., The European Union and the Paradox of Enlargement. The Complex Accession of the Western Balkans, Basingstoke: Palgrave Macmillan. ) ha dimostrato che la cornice dentro la quale si dispiega il processo di integrazione viene costruita nel rapporto dialettico tra queste due dimensioni – allargamento e adesione.

Una molteplicità crescente di attori che agiscono dentro i campi specifici politici, istituzionali e civili, producono e creano di giorno in giorno in modo discorsivo ciò che chiamiamo integrazione europea, per via del processo di europeizzazione. In questo difficile modo si struttura e si istituzionalizza normativamente un tessuto sottile delle riforme di queste società sempre più incluse, ma cambia e si trasforma anche il modus operandi delle istituzioni europee, trasformando le proprie capacità e competenze. Questi attori, situati nel DG NEAR, nelle commissioni parlamentari europee, nelle Delegazioni UE nei paesi balcanici, nelle Missioni a Bruxelles, nelle istituzioni governative e organizzazioni non governative dei paesi aspiranti, portano il fardello del processo creando nello stesso tempo una fragile società europea sovra e transnazionale.         

Per la discussione nell’ambito di questo forum vorrei sottolineare un esito emerso dalla ricerca: l’analisi ha dimostrato che, in questo flusso comunicativo circolare degli enti e delle istituzioni il cui lavoro quotidiano riguarda il processo di integrazione dei WB6 (Western Balkan Six), esiste e si perpetua una zona grigia di incomprensione sistemica, attraverso la quale una parte di energia e di possibili soluzioni defluisce e a volte scompare. I messaggi testualizzati quotidianamente all’interno di questo denso spazio comunicativo vengono spesso codificati in un certo modo e decodificati in un altro. Parliamo di una cornice comunicativa dentro la quale il potere politico e decisionale è distribuito in modo asimmetrico, iniquo. Se il messaggio del mittente contenente una condizione specifica viene traslato e interpretato in modo errato da parte del destinatario, la realizzazione dell’obiettivo indicato molto probabilmente non potrà corrispondere alle aspettative, e la condizione non potrà essere adempiuta. I miei interlocutori a livello nazionale asserivano spesso che le richieste della Commissione non corrispondevano alle reali capacità politiche e sociali di questi paesi per poter essere realizzate entro l’arco temporale prefissato. Si tratta spesso di interventi che penetrano perfino nell’assetto costituzionale di queste società, il che spesso porta ad una strumentalizzazione del condizionamento europeo nel dibattito politico tra governo e opposizione locale e impedisce il progresso delle riforme.

Di conseguenza, un’enorme quantità di espressioni testuali negative individuate come “mancanze” – shortcomings – sono contenute nei Report annuali della Commissione, nei quali anche le cose positive vengono di norma relativizzate da un “tuttavia”, seguito dall’elenco di altri obiettivi non ancora raggiunti. I funzionari intervistati, sia europei sia nazionali, nel primo e soprattutto nel secondo ciclo della ricerca, comunicavano un profondo sentimento di insoddisfazione e di frustrazione dovuto alla scarsa efficacia degli sforzi collettivi, in particolare nell’ambito dello stato di diritto, della riforma giudiziaria, dei diritti umani e civili, del rafforzamento dell’economia, nonché considerando le numerose e persistenti dispute bilaterali e le tensioni etnonazionali interne. I funzionari locali notano che il premio – la carota – risulta sempre troppo piccolo, mentre la sanzione – il bastone – viene percepita sempre come troppo dolorosa. Prendo in prestito questa metafora per sottolineare quanto sia importante ascoltare questi protagonisti rivelatisi lontani dal business-as-usual, che hanno accumulato nel tempo un sapere specifico sulle integrazioni europee e che non va perso. Come diceva una funzionaria del DG NEAR: “Noi siamo la memoria dell’allargamento europeo, fondamentale per il processo di integrazione”. Appare invece che siano altri gli interessi e le premesse che guidano le decisioni politiche europee nei confronti dei paesi candidati e potenziali candidati.

Quale novità in tal senso porta la comunicazione della Commissione Europea del 5 febbraio 2020? Nell’ottica della ricerca di cui si è parlato prima, noto che già il suo titolo, Rafforzare il processo di adesione - Una prospettiva europea credibile per i Balcani occidentali, sposta l’accento dall’allargamento all’adesione, e dalla responsabilità dei paesi in questione alla credibilità europea riguardo alla capacità di sostenere il processo e di portarlo al successo. Il contenuto del testo punta soprattutto all’impegno di ogni singolo paese, e delle sue élite politiche e istituzionali, oltre che alla cooperazione interregionale e intergovernativa. Vorrei sperare però che ci sia davvero una decisione politica forte dietro le considerazioni espresse dalla nuova Commissione. Se fino ad un certo punto era ancora vero, come a volte emergeva nelle interviste con gli attori locali nel 2009 e 2010, che lo sforzo trasformativo di raggiungere gli standard europei della democrazia, della sicurezza, della prosperità e del benessere, era più importante del diventare membri dell’UE a pieno titolo, oggi questo argomento non risulta più valido.

La mancanza di una chiara e credibile prospettiva di vedere premiati i cambiamenti raggiunti a volte a caro prezzo sociale, politico ed economico, non può che rinvigorire forze politiche retrograde e anti-europeiste in ciascuno di questi paesi.