Democrazia e coronavirus in El Salvador e in Nicaragua: diversi i percorsi, simili i rischi

Dario Conato
Responsabile area America Latina del CeSPI

Le politiche adottate contro il coronavirus aiutano a valutare lo stato delle democrazie. Questa nota intende verificare la “salute democratica” del Nicaragua ed El Salvador: l’arrivo della pandemia sembra accentuare aspetti problematici nella gestione politica di quei paesi, sia pure attraverso percorsi divergenti. Cercheremo  di individuare le grandi tendenze, pur nel fuoco di una crisi che costringe ad aggiornare continuamente il quadro delle informazioni, i dati e il posizionamento delle forze in campo.

Origini e profilo politico dei presidenti

Nelle due repubbliche presidenziali sono al potere leader molto diversi: il salvadoregno Najib Bukele, appartenente a una delle più ricche famiglie del paese, già sindaco della capitale con l’appoggio del Fronte Farabundo Martì per la Liberazione Nazionale (Fmln) con il quale è presto entrato in rotta di collisione, poi divenuto presidente nel febbraio 2019 con un proprio movimento e utilizzando le strutture di un partito di centrodestra, la Grande Alleanza per l’Unità Nazionale (Gana); il nicaraguense Daniel Ortega, da decenni leader assoluto del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (Fsln), al potere dal 2007 dopo aver eliminato la norma anti-rielezione contenuta nella Costituzione.

Nel 2019 Bukele vinse le elezioni in El Salvador grazie a un discorso “anti-casta” con cui si contrapponeva ai due maggiori partiti già protagonisti della guerra civile degli anni Ottanta e ancor oggi preponderanti nell’Assemblea nazionale (la sinistra del Fmln e la destra dell’Alleanza Repubblicana Nazionalista Arena) e un programma di investimenti pubblici a favore delle economie locali, oltre alla disarticolazione delle bande criminali note come maras. Bukele innesta alcune suggestioni “di sinistra” su un discorso d’ordine orientato a destra, appoggiandosi su una macchina elettorale gestita da dirigenti che dalla destra provengono.

In Nicaragua Ortega domina la scena dagli anni Ottanta: presidente della Repubblica durante la guerra civile che opponeva il governo sandinista ai contras finanziati dagli Stati Uniti, leader del Fsln (da cui si sono allontanate le voci critiche) durante gli anni dell’opposizione ai governi liberali dal 1990 in poi, e infine rieletto presidente dal 2007 a oggi, Ortega governa con la vice-presidente Rosario Murillo, sua moglie, attraverso quello che gli analisti internazionali concordano nel definire un sistema di forte accentramento autoritario.

Da una parte abbiamo dunque un presidente “anti-partiti” e dall’altra un presidente legato al “socialismo del XX secolo” dell’asse Cuba-Venezuela. Eppure le politiche sanitarie dei due governi a fronte dell’emergenza Covid-19 sono anomale rispetto ai rispettivi profili: il “populista” Bukele ha applicato misure rigorose che hanno via via assunto connotati sempre più autoritari e secondo molti, tra cui Human Rights Watch, lesivi di diritti fondamentali; il “dittatoriale” Ortega ha invece scelto il laissez-faire, non utilizza la crisi per rafforzarsi attraverso coprifuoco e controlli di polizia sui comportamenti quotidiani ma esplicitamente minimizza la portata del rischio sanitario interno. Un comportamento per il quale Amnesty International accusa il presidente di non avere a cuore i diritti umani dei nicaraguensi, lasciati indifesi di fronte all’epidemia.

Pur nella loro radicale differenza, i due sistemi rischiano entrambi di approfondire criticità che si sono già manifestate nel corso degli anni in Nicaragua e in questo primo anno di presidenza Bukele in El Salvador.

Prima di analizzare le politiche adottate per l’emergenza coronavirus, è opportuno un cenno ai mesi che hanno preceduto la fase attuale.

A due anni dall’inizio delle proteste che hanno scosso il Nicaragua, si mantiene una profonda spaccatura sociale e politica di cui non si vedono vie d’uscita all’interno di un normale dialogo democratico. Ortega e Murillo mantengono un controllo assoluto su tutte le istituzioni – compreso il potere legislativo, il potere giudiziario e il tribunale elettorale, - e su ampi settori pubblici e privati dell’economia, lasciando a chi non sta dalla parte del governo pochi margini di agibilità: sono vietate le manifestazioni all’aperto delle forze dell’opposizione, le riunioni al chiuso sono spesso oggetto di intimidazioni della polizia o di gruppi filo-governativi mentre continuano gli arresti di chi esprime dissenso. Le uniche forze di opposizione “riconosciute” dal governo sono i piccoli partiti presenti nell’Assemblea nazionale, dopo che ai partiti più battaglieri è stata tolta la personalità giuridica. Si registrano omicidi e sparizioni di leader legati alle proteste degli scorsi mesi. Il principale giornale di opposizione, La Prensa, continua a uscire – pur nelle difficoltà frapposte ai suoi approvvigionamenti di materie prime – e da Managua trasmettono – con problemi di agibilità sopra indicati – vari canali televisivi e giornali online contrari al governo. Ortega ha ripreso il controllo delle vie di comunicazione ed è stato capace di impedire nuove manifestazioni di massa del disagio sociale al prezzo di morti, feriti, scomparsi, arresti, condanne e persecuzioni, senza però riuscire a rendersi credibile sul piano politico ed economico internazionale. Il Prodotto interno lordo, cresciuto fra il 2010 e il 2019 di quasi il 56% (con una forte contrazione nel 2018) è presentato dal governo come indicatore della “salute” del paese, non ha comunque spostato il Nicaragua dal gruppo di coda dell’America Latina e dei Caraibi quanto a povertà e indice di sviluppo umano.

Agli inizi di febbraio El Salvador è stato teatro dello scontro fra il presidente Bukele e l’Assemblea nazionale (dove la maggioranza è a lui ostile essendo elezioni presidenziali ed elezioni legislative sfasate di due anni) sull’approvazione di fondi per la lotta contro le maras: a fronte delle critiche delle opposizioni su alcuni investimenti previsti, il presidente in un primo momento aveva cercato di imporre all’Assemblea un calendario accelerato; vista la resistenza dei gruppi parlamentari ha quindi fatto appello al popolo richiamando il diritto costituzionale alla “insurrezione” in caso di pericolo per le istituzioni. È entrato nell’emiciclo accompagnato da militari in armi, si è seduto al posto del presidente dell’Assemblea per poi uscirne poco dopo ad annunciare alla folla di sostenitori che Dio (spesso richiamato nei suoi discorsi) gli aveva appena consigliato pazienza. Dopo aver attaccato la Corte costituzionale che ne aveva censurato il comportamento, Bukele ha poi accettato il confronto parlamentare con l’opposizione. I fatti del 9 febbraio hanno ulteriormente alimentato gli attacchi del presidente alle forze di opposizione e agli altri poteri dello Stato. Il livello della contrapposizione cresce di giorno in giorno.

Strategie contro il coronavirus

Il primo caso di Covid-19 in Centroamerica si registra a Panama il 9 marzo. 

Il Nicaragua ha dichiarato subito che non avrebbe preso misure di contenimento, una decisione che fa i conti con la diffusione della povertà nel paese: uno studio della Banca Centrale del Nicaragua (Brenes e Cruz, “Determinantes de la informalidad en Nicaragua”, in Revista de Economía y Finanzas vol. III, 2016) spiega come “il paese [presenti] uno dei livelli più alti di informalità dell’America Latina” e, riportando dati riferiti al 2012, segnala come l’82% degli occupati e il 71% delle imprese si trovino in condizioni di informalità salariale, contributiva, fiscale e normativa. La Banca Mondiale ha recentemente stimato una tendenza all’aumento della povertà a oltre il 30%. Il presidente Ortega sostiene che “se il Nicaragua non lavora, la gente muore”, spiegando così il fatto che non siano state prese misure di quarantena, non siano state limitate le attività economiche, le scuole pubbliche restino aperte, mentre militanti del FSLN e operatori sanitari visitano le famiglie per distribuire volantini sulla “prevenzione delle malattie respiratorie”. Colpisce la convocazione in tutto il paese di iniziative di massa senza alcuna misura di distanziamento fisico, quasi a voler trasmettere una sensazione di “normalità”. Gli interventi giornalieri della vice-presidente Murillo, i comunicati del governo e i brevi aggiornamenti del Ministero della Sanità contengono sempre richiami di carattere religioso. Le informative ufficiali sull’epidemia, che riportano pochissimi casi, lasciano perplessi soprattutto se confrontate con i dati dei tre paesi più vicini, aventi dimensioni demografiche non molto diverse dal Nicaragua: il 30 aprile El Salvador, Costarica e Honduras registrano rispettivamente 395, 719 e 804 casi, a fronte dei 14 casi riportati dal Nicaragua. (Un’inattesa smentita dei dati forniti dal governo è venuta da Cuba, che ha comunicato di aver rilevato il coronavirus in tre cittadini cubani provenienti dal Nicaragua quando il governo di Managua ha sempre escluso l’esistenza di casi di contagio locale). La “stranezza” di questi dati aumenta se si considera che gli altri tre paesi hanno introdotto misure di contenimento sino a includere la chiusura delle frontiere. Un Osservatorio indipendente fornisce dati molto diversi (circa 370 contagi al 27 aprile) e accusa le autorità di falsificare le cause di molti decessi attribuendole a polmonite, infarto o tubercolosi. Sempre più circolano testimonianze relative a casi probabilmente riconducibili a Covid-19 che sarebbero nascosti dalle autorità. Le autorità a loro volta spiegano la modesta diffusione dell’epidemia come il risultato delle iniziative di informazione realizzate a livello familiare in tutto il paese e assicurano che il sistema pubblico ha a disposizione sufficienti strumenti tecnici per far fronte a un’eventuale impennata dei contagi. Questa insolita gestione dell’epidemia non è priva di contraddizioni: mentre le frontiere restano formalmente aperte, il governo ha recentemente impedito l’atterraggio di due voli umanitari organizzati dal governo delle Cayman per rimpatriare circa 150 lavoratori nicaraguensi là bloccati e ha proibito l’ingresso a lavoratori nicaraguensi provenienti da El Salvador e che erano riusciti a raggiungere la frontiera nord del Nicaragua attraversando l’Honduras: questi migranti di ritorno sono poi rientrati nel loro paese attraverso passaggi non presidiati, senza quindi alcun controllo sanitario all’ingresso. American Airlines ha reso noto di aver ricevuto comunicazione della chiusura fino al 1. giugno dell’aeroporto internazionale di Managua, ma di questa decisione non v’è traccia nei siti istituzionali.

Ortega attacca gli Stati Uniti per le sanzioni economiche verso il Nicaragua: queste però non colpiscono il paese – salvo il veto opposto dagli Stati Uniti negli organismi finanziari internazionali alla concessione di prestiti ordinari al governo di Managua – bensì singoli esponenti della famiglia Ortega e del governo, oltre alla Polizia Nazionale come istituzione accusata di gravi violazione dei diritti umani. Tuttavia nessuna iniziativa è stata presa per definire con le opposizioni una riforma della legge elettorale, condizione posta dall’Organizzazione degli Stati Americani, dall’Unione Europea e da molti paesi – fra cui Stati Uniti e Canada – per riconoscere il risultato che dovesse uscire dalle urne. Il governo ha inoltre cercato di dividere l’opposizione indicando come suoi unici interlocutori i piccoli partiti con personalità giuridica ed escludendo importanti forze politiche di opposizione e soprattutto le organizzazioni sociali presenti nella Coalizione Nazionale che cerca di unificare forze molto diverse e talvolta in dissenso fra di loro e raccolte nei due schieramenti dell’Alleanza Civica per la Democrazia e la Giustizia e dell’Unità Nazionale Azzurro-Bianco.

Il Nicaragua sta applicando poche delle raccomandazioni del Piano di Emergenza Regionale contro il Coronavirus indicate dal Sistema dell'Integrazione Centroamericana (Sica). La popolazione conosce le misure di contenimento adottate dagli altri paesi e molti si sentono a rischio, in assenza di informazioni e indicazioni certe. Il fatto che tutto vada avanti “come sempre” fa sì che la stragrande maggioranza di quell’86% dei nicaraguensi che sta ancora lavorando lo faccia fuori di casa. La mancanza di misure di quarantena ha mitigato l’effetto immediato della pandemia sull’economia familiare, anche se la crisi della domanda interna e internazionale ha portato molte imprese nazionali e straniere a sospendere le proprie attività. In questi casi i lavoratori nicaraguensi di qualsiasi comparto “formale” restano privi di salario e di protezione sociale salvo l’accantonamento per la tredicesima e per la liquidazione.

Ma per la gran parte dei nicaraguensi il lavoro è di tipo informale e quindi ha ragione Ortega quando dice che se il paese si chiude la gente rischia di morire di fame. Non può essere altrimenti,  mancando iniziative misure di sostegno economico, forme di distribuzione di beni alimentari alle famiglie, misure fiscali espansive o di flessibilizzazione dei pagamenti di rate e bollette. Il previsto crollo di oltre il 20 % delle rimesse a causa del coronavirus peggiora le prospettive.

Negli anni di Ortega la sanità pubblica gratuita ha ampliato la disponibilità di posti-letto ospedalieri e di centri di salute ma vi sono forti lacune quanto a dotazione di macchinari, medicinali, strumentazione. Il Nicaragua non sta ricevendo fondi di organismi internazionali per far fronte all’emergenza coronavirus – salvo una donazione di un milione di dollari di Taiwan per apparecchiature sanitarie e 26 mila tamponi dalla Banca Centroamericana di Integrazione Economica, – come invece sta avvenendo per Panama, Honduras ed El Salvador. La sottovalutazione della pandemia non favorisce l’attenzione della Banca Interamericana di Svilluppo, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale verso il Nicaragua, mentre gli analisti non considerano un ostacolo la decisione degli Stati Uniti di negare prestiti al governo del Nicaragua in tutti gli organismi internazionali dal momento che dal veto sono esclusi gli aiuti umanitari come sarebbero quelli di sostegno alle politiche di contenimento al coronavirus.

Prima ancora che venisse rilevato il primo caso a Panama, Bukele ha adottato in El Salvador misure per limitare l’espansione dell’epidemia in un paese la cui deteriorata sanità pubblica non sarebbe in grado di reggere una forte domanda di ricoveri in terapia intensiva, A fine febbraio si è stabilito che chiunque entri nel paese sia rinchiuso per 30 giorni in un centro di confinamento: nelle prime settimane si è trattato del centro di Jiquilisco, un capannone con centinaia di letti. Questa sistemazione coatta ha favorito il contagio: il procuratore per i diritti umani (istituzione statale indipendente) ha accusato il governo di “improvvisazione” e di violazione dei diritti delle persone confinate. Si è quindi sostituito il modello dei mega-centri con la reclusione in camere d’albergo (3-4 persone ciascuna, quasi mai appartenenti a uno stesso nucleo familiare), senza però evitare il ripetersi di episodi di contagio. Nei giorni seguenti è stata decisa la chiusura completa delle frontiere, anche per salvadoregni che si trovano all’estero e che chiedono di rientrare. È stato adottato il lockdown domiciliare sul modello italiano, con la particolarità che nelle decisioni di Bukele si intrecciano aspetti di “normale” carattere emergenziale e vere e proprie misure da “stato di eccezione” che sospendono garanzie costituzionali: confinamento di possibili contagiati in centri ad alto rischio epidemico; trasferimento ai centri di chi venga trovato in strada senza motivo, con sequestro del veicolo; possibilità per polizia e personale sanitario di entrare in un’abitazione, senza mandato. La Corte costituzionale ha ordinato la sospensione di arresti e deportazioni, misure eccezionali mai approvate dall’Assemblea nazionale a differenza di quanto avvenuto con l’isolamento domiciliare. Il presidente ha subito risposto che non l’avrebbe rispettato tale ordine.

La rigida chiusura decretata da Bukele – estesa a tutte le imprese considerate non essenziali –   costituisce un colpo per l’economia a più basso tasso di crescita della regione e con alto tasso di informalità: secondo la Direzione Generale di Statistica oltre il 66% dei lavoratori è privo di forme di previdenza sociale e il 29,2% dei salvadoregni vive in condizioni di povertà (Digestyc, Encuesta de Hogares de Dirección General de Estadística y Censos 2017). La Camera di Commercio stima che circa il 72% delle imprese sia di carattere informale. Solo il 56% dei salvadoregni sta lavorando durante la quarantena e la forte riduzione delle rimesse dall’estero contribuisce a peggiorare le condizioni di vita. Per alleviare la situazione si è stabilito un sussidio di 300 dollari e aiuti alimentari, puntando a raggiungere il 75% delle famiglie; è inoltre decretata la sospensione per tre mesi di tutte le bollette di luce, gas, acqua, telefono per famiglie e piccole e medie imprese nonché lo slittamento di affitti e rate di prestiti.

Un altro tema che nei giorni del coronavirus sta mettendo alla prova il rispetto delle prerogative dei diversi poteri dello Stato è la persecuzione delle maras, la cui diffusione fa di El Salvador uno dei paesi più violenti al mondo. La popolazione è esasperata dalle estorsioni accompagnate da omicidi e rappresaglie per chi si rifiuta. Nei primi mesi della presidenza Bukele l’aumento di polizia e militari sul territorio ha ridotto il numero degli omicidi – storico indicatore del grado di aggressività delle maras – di quasi il 90%. Le maras hanno peraltro “aderito” alla quarantena, picchiando chi è sorpreso in giro o distribuendo viveri a famiglie bisognose sull’esempio dei narcos messicani. Ma dal 24 al 27 aprile, per motivi ignoti, vi è stata un’ondata di oltre settanta omicidi in tutto il paese, attribuiti ad alcune fazioni delle maras. Si ritiene che gli omicidi vengano ordinati dalle carceri attraverso segnalazioni visive: per questo Bukele ha ordinato la creazione di celle miste con appartenenti a gang rivali, chiuse 24 ore su 24 e con la parete a sbarre che dà sui corridoi chiusa da grandi pannelli metallici Ha autorizzato l’uso “letale” delle armi nei conflitti con le maras da parte di polizia e militari, che riceveranno dallo Stato assistenza legale nel caso scatti per questo un procedimento penale. Il presidente ha diffuso via twitter le immagini di centinaia di detenuti seminudi ammassati l’uno contro l’altro, molti dei quali senza dispositivi di protezione, mentre il personale carcerario sistemava le celle secondo le nuove disposizioni. Ciò ha preoccupato le organizzazioni di difesa dei diritti umani ed entusiasmato i politici vicini a Bukele, alcuni dei quali chiesto l’introduzione della pena di morte e hanno insinuato che dietro agli omicidi vi siano Arena e il Fmln.

Preoccupazioni per il futuro e prospettive della cooperazione politica e sanitaria dell’Unione europea

La società demoscopica Cid-Gallup indica come il Nicaragua sia l’unico paese centroamericano dove solo una minoranza della popolazione approva l’azione del presidente (32%), mentre in quasi tutti gli altri paesi i giudizi positivi sono vicini al 90% (59% in Honduras). Il consenso verso Bukele in El Salvador continua ad a essere altissimo, intorno al 96%: gli aggiornamenti con dati puntuali e credibili sul contagio forniti quotidianamente rafforzano l’apprezzamento popolare di cui gode l’esecutivo. Non sembra diffusa la preoccupazione che i caratteri arbitrari del trattamento cui sono sottoposti i mareros detenuti per crimini efferati si traduca in una gestione autoritaria della vita sociale, di cui detenzione e confinamento di chi viola la quarantena potrebbero essere i primi, preoccupanti segnali.

Diverso nei due paesi è l’atteggiamento rispetto al coordinamento delle politiche di contrasto al virus: Bukele aderisce pienamente alle indicazioni dell’Oms, dell’Organizzazione Panamericana della Salute e del Piano d’Emergenza del Sica, mentre Ortega le accoglie solo in parte. Nel piccolo e interconnesso istmo centroamericano le politiche di contrasto al virus funzionano solo se fortemente integrate: le relazioni transfrontaliere di vicinato sono fitte, sia attraverso i varchi di frontiera sia mediante la diffusa pratica del passaggio per zone non presidiate. Una volta allentata la quarantena e riaperte le frontiere, saranno ancor più necessarie norme coordinate su mobilità e distanziamento fisico. L’attuale mancata applicazione di misure comuni – ennesima dimostrazione della fragilità del Sica – mette a rischio la sicurezza sanitaria presente e futura della regione.

Entrambi i presidenti sembrano contare su quattro pilastri: persistente richiamo a Dio e alla religione; delegittimazione dell’opposizione (delinquenti per Bukele, golpisti per Ortega; mai avversari, sempre nemici); appello al popolo per aggirare la “fatica” di un sistema di pesi e contrappesi; uso di militari e polizia come guardia pretoriana, talvolta esibita, spesso attivata con un uso sproporzionato della forza. La Commissione Interamericana per i Diritti Umani ha criticato le violazioni dei diritti nel sistema carcerario e nell’azione di polizia ed esercito verso i cittadini che non rispettano la quarantena in El Salvador, l’opacità informativa nella gestione della crisi del coronavirus in Nicaragua.

Il Nicaragua ed El Salvador mostrano ognuno a suo modo i pericoli che la gestione della pandemia può determinare per la stabilità democratica, il bilanciamento dei poteri, la trasparenza delle istituzioni, mettendo sul tappeto anche il rispetto dei diritti umani: le prossime settimane e mesi diranno se le criticità emerse in questa prima fase della gestione della pandemia diventeranno una componente strutturale dei sistemi politici dei due paesi, con il consolidarsi di pulsioni autoritarie che – almeno in una fase iniziale – abbiamo spesso visto consolidarsi in America latina anche grazie a un vasto consenso popolare alla ricerca dell’uomo forte. Ma si può anche sperare che l’evoluzione della crisi sanitaria spinga a una maggiore cooperazione internazionale multilaterale attraverso la quale possano “entrare” approcci che cercano di mettere insieme trasparenza, distanziamento fisico e diritti sociali e democratici.

Per entrambi i paesi la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi affinché la vita politica si svolga in un quadro rispettoso delle regole costituzionali e della libera dialettica fra forze di governo e opposizioni politiche e sociali, garantendo un’informazione completa e trasparente. Dovrebbero essere lasciate da parte le invocazioni a forme extra-istituzionali di legittimazione del potere, quali la religione o la mobilitazione popolare contro corpi istituzionali o sociali di ostacolo al predominio di una fazione politica. Un altro punto di un’agenda di cooperazione democratica dovrebbe riguardare i diritti di organizzazione e manifestazione del dissenso, l’abbandono di tentazioni verso scorciatoie “militariste”, il pieno rispetto dei diritti dei cittadini, un trattamento umano delle persone private della libertà indipendentemente dai reati di cui sono accusate e condannate. Il sostegno a politiche di welfare universale può essere uno strumento importante per il progresso e l’inclusione, che diviene particolarmente urgente alla luce dell’impatto del Covid-19.

Per l’Unione Europea ciò significa legare la cooperazione tecnica al rispetto di quegli stessi valori fondamentali sui cui si basa il processo di integrazione europea e che sono considerati valori universali e da promuovere nei rapporti di cooperazione internazionale.

17 January 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)