Tra democrazie in crisi, lotta alle disuguaglianze e sviluppo sostenibile

Fabio Porta
Deputato dal 2008 al 2018 per la Circoscrizione Estero - Ripartizione America Meridionale

Per il sesto anno consecutivo la media di crescita dei Paesi latinoamericani sarà bassa: dal 2014 al 2019, secondo i dati confermati dalla Segretaria esecutiva della Cepal Alicia Barcena, nel corso della sua conferenza presso l’IIILA il 6 febbraio scorso, il Pil pro capite ha subito una contrazione pari al 4%. Il tasso medio di crescita del 2019 è stato di appena lo 0,1%, mentre per il 2020 è previsto un incremento medio dekl’1,3% sul dato dello scorso anno. Questi numeri confermano una crisi ormai diffusa e strutturale che i governi della regione stanno cercando di affrontare con ricette diverse ma con analoghi livelli di preoccupazione. Sarebbe riduttivo quanto sbagliato dare della crisi in atto, come anche dei fenomeni di protesta esplosi in quasi tutto il continente nel corso del 2019, una lettura politica semplicistica e univoca; siamo infatti di fronte a fenomeni complessi ed eterogenei con punti in comune (primo tra tutti la persistenza delle grandi diseguaglianze) ma altrettante caratteristiche differenti, dovute alla specificità politica ma anche economica dei singoli Paesi. La tentazione (se non la tendenza) di dare a quanto succede in America Latina una lettura univoca o addirittura ideologica ci porterebbe lontano dalla comprensione reale e approfondita di una realtà estremamente più complessa e articolata di quanto si possa immaginare. Ciò non vuole dire affatto che la politica sia estranea alle cause della crisi sociale ed economica del continente; al contrario, i dati socioeconomici degli ultimi anni ci confermano un sostanziale e generalizzato “affanno della democrazia” in America Latina, in parallelo con una crisi più generale delle istituzioni democratiche di tutto il mondo.

2010-2020: un decennio difficile

Se vogliamo concentrarci sui principali aspetti della crisi dell’ultimo decennio dobbiamo partire dalla crisi economica e finanziaria che ha colpito tutto il mondo dal 2008, arrivata qualche anno dopo in America Latina in coincidenza con la caduta verticale del prezzo delle commodities. La crisi mette a nudo in quel momento soprattutto la fragilità delle esperienze progressiste e di sinistra, dopo le grandi speranze e i significativi successi del primo decennio del nuovo millennio: “Le esperienze progressiste, che avevano saputo ridistribuire il reddito ai tempi delle vacche grasse, si sono dimostrate incapaci di governare in tempi di vacche magre, riproponendo il drammatico ciclo dell’indebitamento pubblico-inflazione” (Alfredo Somoza in Sinistra Desaparecida, Ed. Castelvecchio, 2017).

Logico e comprensibile, quindi, il progressivo spostamento a destra dei Paesi dove più significative e più estese nel tempo erano state le esperienze dei governi di sinistra; soprattutto perché ai fattori di tipo economico se ne sono aggiunti altri di tipo politico, come saggiamente sottolineato sempre da Somoza nel suo saggio del 2017: “Corruzione, insicurezza e autoritarismo. Tre vizi della politica latinoamericana, in generale, che non hanno risparmiato le sinistre al governo. Forze votate per ribaltare il tavolo, per dare protagonismo ai senza voce, che una volta dentro gli ingranaggi del potere, con onorate eccezioni ovviamente, accettano lo status quo, si adagiano sui meccanismi ben oliati di gestione del potere.“ Ciò spiega bene sia il moltiplicarsi nella regione latino-americana del cosiddetto “voto di punizione” sia la difficoltà per tutte le opposizioni (di destra come di sinistra) di guidare e orientare i numerosi movimenti di protesta spontanea sorti in questi anni.

Ma se le grandi aspettative generate dai governi progressisti si erano infrante sul muro della crisi economica e sulle sabbie mobili della crisi politica, non sembrerebbe che una sorte migliore stia accompagnando il ritorno al potere dei partiti di destra espressione delle tradizionali élite economiche: “Le recenti svolte conservatrici o di destra populista tra numerosi e influenti governi della regione non hanno affatto mantenuto le promesse di portare nuova crescita, stabilità e trasparenza con le riforme di mercato. Anzi, oggi rischiano di aggravare impoverimento, collassi dei deboli ceti medi, drammi di corruzione e spirali di esasperate proteste per l’assenza di qualunque riforma efficace” (Marco Valsania, “Il Sole 24 ore” 21.10.2019).

Emblematico il caso del Cile, probabilmente il Paese latinoamericano più vicino – perlomeno nell’immaginario comune dentro e fuori il continente – a standard sociali ed economici di tipo europeo. Ebbene, proprio il Cile è oggi uno dei paesi più diseguali del mondo, dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza, e il 50% più povero solo il 2%. Ciò è il frutto, secondo il professor Agostinis dell’Università cattolica di Santiago “di un regime fiscale regressivo, in base al quale tutti pagano poche tasse, senza alcuna distinzione tra l’1% e il resto, e lo Stato abiura al suo ruolo ‘equilibratore’ di garante del patto sociale”. Sotto accusa il sistema dell’istruzione, tra i più cari del Sudamerica con conseguente catalizzazione delle disuguaglianze sociali esistenti; la sanità pubblica, limitata nella sua copertura come anche nella qualità delle prestazioni (favorendo in parallelo la crescita del sistema delle polizze private); il sistema previdenziale, anche questo “appaltato” a compagnie assicurative che erogano misere pensioni di valore medio di 400 dollari. Morale, sempre secondo il prof. Agostinis: “È lo Stato che in Cile non ha fatto il suo lavoro: garantire alla popolazione l’accesso ai servizi basilari, garantire quel minimo di equilibrio funzionale alla stabilità politica e sociale del paese”.

Democrazie deboli e ambiente minacciato

Di fronte a un tale quadro socio-economico non appaiono quindi più sufficienti le tradizionali risposte della politica, tanto di destra che di sinistra; meno ancora è possibile affidarci alla ormai sterile dialettica Stato-Mercato per la soluzione di crisi profonde e complesse, impossibili da affrontare in assenza di un nuovo ‘patto sociale’ condiviso tra tutti i gruppi sociali e politici dei singoli Paesi. Urge una ristrutturazione radicale delle agende di cambiamento di tutti i Paesi dell’America Latina, con al centro la riduzione delle disuguaglianze a partire da un maggiore investimento in salute e istruzione, essenziali per una efficace redistribuzione del reddito.

Tra le tante priorità, sono forse due le sfide in grado di dare supporto e continuità a questo nuovo patto sociale: il rafforzamento della democrazia e l’adozione di un modello di sviluppo sostenibile.

Il continente che nella seconda metà del secolo scorso ha sofferto, forse più di altre regioni al mondo, la presenza di regimi dittatoriali uniti tra loro da un piano di spietata collaborazione strategica (il Plan Condor) volto a silenziare il dissenso e a reprimere l’opposizione, non può oggi permettersi esitazioni in questo campo. Significative, a questo proposito, le dichiarazioni parallele dei ministeri degli esteri di Argentina e Messico (due paesi del G20 attualmente governati dalla sinistra), a sostegno della legittimità dell’Assemblea Legislativa del Venezuela e contrarie a qualsiasi interferenza forzata da parte del presidente Maduro. Come ha opportunamente sottolineato un osservatore attento di cose latinoamericane, Maurizio Stefanini: “Ultimamente, in America Latina un po’ troppi presidenti sono saltati in maniera traumatica e un po’ troppe piazze sono state insanguinate. Fermare una certa deriva ormai sta diventando interesse di tutti: a destra come a sinistra e al centro” (L’INKIESTA, 9.1.2020).

Analogamente, il continente dell’Amazzonia, il polmone del mondo che occupa parte di ben 9 Paesi dell’America Latina, non può che essere il capofila della campagna mondiale per lo sviluppo sostenibile, indicando e attuando politiche innovative e coerenti con questa sfida. Una sfida lanciata da Papa Francesco con la convocazione del Sinodo straordinario sull’Amazzonia e accolta dai vescovi della Conferenza episcopale latinoamericana che, all’indomani della conclusione del Sinodo, hanno condiviso l’invito contenuto nell’esortazione apostolica del Papa rilanciando il sogno di “una Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa”; l’invito è a proteggere l’Amazzonia, “cuore del pianeta”, affrontando con decisione questioni come “la deforestazione, il flagello della tratta delle persone, l’inquinamento ambientale”. Una sfida gigantesca, che non attiene solo al campo della difesa dell’ambiente e dei diritti umani, ma anche – per certi versi soprattutto – a quelli della crescita economica e dello sviluppo. Il Presidente del Brasile, il Paese che contiene oltre il 60% dell’immensa foresta, farebbe bene ad affrontare questo tema con più sensibilità e meno superficialità.

Italia ed Europa: una scommessa comune

Concludo questa panoramica della situazione latinoamericana dell’ultimo decennio, centrata con enfasi sulla crisi sociale ed economica acutizzatasi nel corso dello scorso anno, con un dovuto riferimento al contesto internazionale, europeo e italiano.

L’Italia e l’Europa dovrebbero puntare sempre più a un protagonismo in America Latina, se non altro in ragione della storica presenza delle proprie comunità nella regione del pianeta che più di altre al mondo ha accolto nel corso dei secoli flussi successivi di immigrazione dal vecchio continente.

Mentre gli Stati Uniti dell’era Trump ondeggiano tra le tentazioni dello splendido isolazionismo e quelle di un rinnovato interventismo nella regione, a seconda delle convenienze politiche economiche; mentre la Cina ha già da anni avviato in Africa e in America Latina una straordinaria offensiva sul piano commerciale e degli investimenti; e mentre, infine, la Russia sta giocando nello scenario latinoamericano, a partire dal Venezuela, una partita delicatissima che fa parte di una ritrovata ambizione di grande player mondiale, l’Europa non può permettersi di stare a guardare, tutt’altro.

L’accordo Ue-Mercosur siglato nel giugno del 2019 dopo anni di trattative lunghe e complesse e oggi in attesa delle ratifiche degli Stati contraenti, può e deve costituire un formidabile strumento per il rilancio di una politica strategica di integrazione e collaborazione tra i due continenti.   Una politica che porterebbe beneficio a entrambi, in un contesto internazionale dove Ue e Mercosur possono rispondere con questa alleanza al neo-sovranismo americano da un lato e, dall’altro,  alle sempre più esplicite ambizioni russe e cinesi sul fronte economico e commerciale.

Ma è sul piano sociale e politico che Italia, Europa e America Latina devono sempre più puntare a un partenariato strategico, a partire dall’impegno comune per il rafforzamento della democrazia, la sostenibilità ambientale e – soprattutto – la lotta alle disuguaglianze crescenti. Come ha recentemente affermato la Vice Ministra degli Esteri italiana, Marina Sereni, a conclusione della già citata conferenza organizzata all’IILA con la Cepal: “La lotta alle disuguaglianze non è una lotta solo della regione latinoamericana. Se la questione è ripensare parametri e priorità dello sviluppo capitalistico, allora il tema è anche nostro, dato che il malessere sociale è sorto anche nel continente europeo.”

È questo il vero senso della grande scommessa che l’America Latina si trova di fronte; una scommessa che chiama in causa e interpella tutti, in primo luogo le forze politiche che sono nate per difendere i princìpi democratici e i diritti dei più deboli.

17 January 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)