Il pericolo di buttare la democrazia insieme all'acqua sporca

Raffaele Nocera
Docente di Storia dell'America latina, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Se alla fine degli anni Novanta del Novecento si fosse chiesto alle popolazioni di diversi paesi latinoamericani se ritenessero la democrazia preferibile a qualsiasi altra forma di governo, la risposta sarebbe stata affermativa in ben oltre il 50% dei casi. Per essere più precisi, nel 1998 il 64,6% degli intervistati, secondo un sondaggio realizzato da Latinobarómetro – organizzazione no profit che dal 1995 realizza sondaggi di opinione in 18 paesi dell’America Latina – affermò di prediligere la democrazia.

Stando all’ente in questione, per i successivi 19 anni il sostegno alla democrazia è sempre stato superiore rispetto al favore dimostrato, in alcune circostanze, verso i governi autoritari, anche in occasione di cicli economici negativi – come quello del quinquennio 1998-2002 – e di crisi politico-istituzionali a dimensione più o meno regionale (in particolare nel triennio: 2001-03). Questo sino al 2018, quando il dato è sceso al 47,8% : oggi, quindi, la maggioranza dei latinoamericani è disposta a tollerare restrizioni alle libertà civili e politiche in cambio di più ordine e sicurezza.

Si tratta di numeri significativi, che indubbiamente invitano a riflettere. Tanto più se si tiene conto che nell’ultimo decennio del XX secolo la maggioranza dei paesi della regione si trovava ancora in piena fase di transizione democratica, dopo gli anni bui delle dittature che avevano dominato la scena un po’ dovunque, e mentre la capacità dei militari di influenzare la vita politica era ancora molto elevata.

D’altronde, senza voler andare troppo indietro nel tempo, occorre dire che nel corso del Novecento e sino ai giorni nostri la democrazia non ha di certo avuto vita facile in America latina. Tutt’altro l’alternanza tra regimi democratici e autoritari ha infatti costituito per molto tempo il modello dominante. Se facciamo riferimento alla “prima ondata” teorizzata da Samuel Huntington (The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century, New York, 1993), essa si è affermata nel subcontinente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento e si è limitata per molto tempo a pochi paesi – principalmente quelli del Cono sud e la Colombia -, dove peraltro fu sostituita da regimi autoritari guidati dagli uomini in divisa (si pensi all’Argentina dall’inizio degli anni Trenta  sino all’elezione di Juan Domingo Perón nel 1946) o di stampo nazional-populista (in questo caso gli esempi sono molteplici: basti quello di Getúlio Vargas in Brasile). Vero è però che nella difficile congiuntura tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato secondo dopoguerra, in una fase di transizione del sistema internazionale, la regione sperimentò un’intensa apertura democratica per effetto soprattutto della vittoria degli Alleati e della democrazia sul totalitarismo.  Si trattò tuttavia di una stagione molto breve, cui fecero seguito una svolta reazionaria e il ritorno, in special modo nell’area centroamericana e caraibica, di governi dispotici (Leslie Bethell e Ian Roxborough (eds.), Latin America between the Second World War and the Cold War 1944-1948, Cambridge, Cambridge University Press, 1992). Il vento della democrazia spirò forte nuovamente nella seconda metà degli anni Cinquanta e per quasi tutto il decennio successivo coinvolgendo per la prima volta paesi, solo per citare alcuni esempi, come Venezuela, Bolivia, Ecuador. Perù (Davide Grassi, Le nuove democrazie, Bologna, il Mulino, 2008, p. 57). Poi come già anticipato, irruppero i golpe degli anni Settanta a spazzare via alcune delle principali (ma non per questo meno fragili) democrazie dell’area, trascinandole nelle tenebre dittatoriali per lungo tempo.

Con la fine della Guerra Fredda, diversi studiosi che si occuparono dei processi di transizione democratica considerarono – in maniera forse troppo frettolosa, come oggi sappiamo – l’approdo al modello democratico un evento irreversibile, non intaccabile neanche da fasi di grave instabilità economica. Un “ottimismo” che in effetti sembrò trovare conferma, in termini di continuità democratica, nell’andamento dei processi politici registrato nei dieci anni che seguirono il periodo dell’autoritarismo militare. Se infatti nell’arco di tempo compreso tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento tutti i paesi latinoamericani subirono ben 277 cambi di governo, 104 dei quali (ossia il 37,5%) prodottisi attraverso colpi di Stato, tra il 1980 e il 1990 solo 7 dei 37 cambi di governo ebbero come causa un intervento militare,  il numero più basso dell’intera storia latinoamericana dai tempi dell’indipendenza (Tom Farer (ed.), Beyond Sovereignty: Collectively Defending Democracy in the Americas, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1996, p. 258). A ciò si aggiunga che, svanita la minaccia rappresentata dal comunismo, promozione della democrazia e del “buon governo”, accanto al libero commercio ed alla cooperazione finanziaria, si imposero nell’agenda politica della Casa Bianca nella regione, costituendo alcuni dei principali pilastri dell’“egemonia liberale” statunitense.

Nel giro di pochi anni l’entusiasmo intorno ai progressi compiuti dalla democrazia andò gradualmente diminuendo. Crisi politiche, esplosioni sociali, caduta di governi, scandali e accuse di corruzione divennero il segnale del fatto che l’instabilità politica si stava nuovamente affermando come la norma in numerosi paesi latinoamericani. Ben presto divenne evidente come libere elezioni, diritti civili, pluripartitismo, non avessero cancellato deficit antichi, in molti casi strutturali, delle fragili democrazie latinoamericane, tra cui il persistere della corruzione, il personalismo, il malaffare, le frequenti e mai tramontate risposte di tipo autoritario. Tutto ciò, accompagnato a una sostanziale incapacità se non addirittura indifferenza verso i problemi urgenti della vita quotidiana, favorì frustrazione e crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni democratiche da parte delle popolazioni.

In questo contesto furono in particolar modo i tradizionali fenomeni del clientelismo, del nepotismo e della corruzione che contribuirono a delegittimare profondamente la democrazia e le sue istituzioni agli occhi dei cittadini. Tutto ciò fu anche il risultato di una transizione democratica sostanzialmente incompiuta, piena di falle e priva, nella maggior parte dei casi, di tagli netti con i trascorsi autoritari su diverse questioni, fra cui l’indipendenza del potere giudiziario da quello politico. Non di minor conto è stato il persistere delle tradizionali barriere alla partecipazione politica: barriere etniche, di genere e di classe che, nella pratica, fanno in modo che l’esercizio del potere sia appannaggio di ristrette élite che spesso gestiscono la cosa pubblica come affare personale.

Questo quadro è ulteriormente aggravato dalla debolezza - anch’essa tradizionale ma approfonditasi ulteriormente negli ultimi anni, - dei partiti politici, organizzazioni sempre meno strutturate e sempre meno diffuse sul territorio, e sempre più interessate esclusivamente ad accedere al potere e a conservarlo, piuttosto che a rappresentare le classi sociali di riferimento (Manuel Plana-Angelo Trento, L’America Latina nel XX secolo. Economia e società, istituzioni e politica, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, p. 191). Una deformazione appesantita da un presidenzialismo distorto nella sua applicazione e dal rafforzamento del potere esecutivo a discapito degli altri poteri.

A cavallo dei due secoli, in un contesto di sfiducia ulteriormente alimentata dalle fallimentari ricette economiche neoliberiste negli anni Novanta del “Consenso di Washington”, in diversi paesi iniziarono ad occupare uno spazio politico quelle forze politiche della “sinistra” (“radicale” e “moderata”) che, non essendo mai state al governo, non erano investite dal diffuso sentimento di diffidenza di cui erano sempre più oggetto i partiti tradizionali, ormai concepiti come corrotti, clientelari e lontani anni luce dalle esigenze delle masse popolari.

L’esaurimento di tale “ciclo progressista” (parlare di fallimento non sarebbe corretto, alla luce dei passi in avanti – in alcuni casi anche straordinari – compiuti in particolare in ambito sociale), non ha fatto altro che allontanare ulteriormente la cittadinanza dal “gioco della politica”, giudicata sempre meno capace di incidere nei processi reali e, nello specifico, sulla qualità della vita di milioni di persone.

Il discredito della democrazia ha determinato e sta determinando una grave crisi di rappresentanza, nel solco della quale, approfittando della debolezza di un sistema che non si è ancora dotato delle difese necessarie, sembra si stia reinserendo il virus dell’autoritarismo. Il ritorno dei militari in Brasile, alle spalle di Jair Bolsonaro, e in Bolivia nel favorire l’uscita di scena di Evo Morales, rappresenta in tal senso un campanello d’allarme.

Sarebbe tuttavia improprio attribuire questo ritorno in auge di un vecchio fantasma a una natura intrinsecamente autoritaria della cultura politica latinoamericana a causa del passato coloniale iberico e dell’influenza della Chiesa cattolica, così come a una sorta di abitudine diffusa nella società ad accettarlo come lascito inevitabile delle esperienze dittatoriali precedenti. La verità è che l’America Latina sfugge alle facili generalizzazioni, così come ai tentativi (da sempre ostinati) di piegarla alle categorie proprie di altri contesti e tradizioni.

17 January 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)