Transizione in Ciad: tra continuità nazionale e disordine regionale
Il 20 aprile 2021 i vertici militari ciadiani hanno reso pubblica la notizia della morte di Idriss Déby Itno, uno dei più longevi leader africani, al potere in Ciad da oltre trent’anni. Nonostante le circostanze rimangano poco chiare, fonti ufficiali riportano che il Presidente è morto in seguito alle ferite provocate da uno scontro a fuoco con le forze del “Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad” (FACT), gruppo ribelle nato nel 2016, insediatosi in Libia e in espansione nel nord-ovest del Ciad. Le forze armate guidate da Idriss Déby stavano contrastando i ribelli nel quadro di una vasta campagna militare nei pressi di Mao, nella regione di Kanem, a nord della capitale N’Djamena.
“Grand Homme d’État” e ufficiale di grande esperienza, noto per le sue tattiche militari fin dalla guerra di Libia per il controllo della striscia di Aozou alla fine degli anni ottanta, Déby ha conquistato il potere nel 1990, con un colpo di stato che aveva destituito il regime di Hissène Habré. Nel corso della sua presidenza, iniziata nel 1996, Déby ha progressivamente accentrato i poteri costituzionali su di sé e instaurato un’”autocrazia elettorale”, costringendo l’esercizio democratico ad elezioni di facciata che lo hanno riconfermato con grandi maggioranze nel 2001, 2006, 2011, 2016 e, da ultimo, il 19 aprile 2021, poche ore prima della morte, con quasi l’80% dei voti.
Rendita petrolifera, leva militare e diplomatica
Per alimentare un potere tanto solido quanto autoritario, Déby ha potuto contare su un’ingente rendita petrolifera e su una leva diplomatico-militare non comune fra i suoi vicini africani. Alle fine degli anni novanta, la scoperta di importanti giacimenti nei pressi del lago Ciad ha trasformato in pochi anni il paese in uno dei maggiori esportatori di petrolio del continente, facendo quadruplicare il PIL nel decennio successivo. La rendita petrolifera era stata inizialmente inquadrata in un accordo con la Banca Mondiale, al fine di finanziarne l’estrazione per destinarne i proventi alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali in tutto il paese. Tuttavia, gli investimenti sono stati dirottati per finanziare la spesa militare, alimentare il clientelismo politico e reprimere le forze di opposizione.
Il suo capitale ed expertise militare hanno fatto del Ciad un garante della stabilità regionale, rendendolo capace di assistenza strategica e militare a partner regionali ed europei nel contrasto al terrorismo, e fungendo da raccordo fra l’iniziativa francese e il G5 Sahel, la coalizione di cooperazione fra gli stati della regione. Le truppe ciadiane sono state dispiegate in numerosi contesti di crisi: prima in Repubblica Centrafricana, nel quadro della missione di pace dell’Unione Africana MISCA, poi in Mali, per sostenere l’operazione francese Serval (oggi Barkhane) contro l’insurrezione jihadista, e ancora in Nigeria e Niger, nella lotta al gruppo estremista “Boko Haram”, come membro della Multinational Joint Task Force (Mnjtf). Elementi ciadiani sono impiegati anche in Yemen, a fianco della coalizione saudita contro i ribelli huthi.
L’attivismo militare nell’intento di sedare l’instabilità politica e pacificare il Sahel è valso al Ciad numerosi incarichi e riconoscimenti diplomatici. Fra il 2014 e il 2016, Il Ciad è membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel 2016, presiede l’Unione Africana e l’anno successivo l’ex primo ministro Moussa Faki Mahamat viene eletto Presidente della Commissione dell’Unione Africana (in carica fino al 2024). A guidare la missione ONU in Mali (MINUSMA) è sempre un ciadiano, il diplomatico Mahamat Saleh Annadif, così come per la Comunità economica degli Stati dell'Africa centrale, presieduta dall’ex ministro degli esteri e rappresentante permanente presso l’ONU Ahmad Allam-Mi.
Repressione politica e crisi economica
Il dominio di Déby sulla scena politica nazionale e il suo exploit internazionale sono arrivati al prezzo di una dura repressione politica interna e di un’economia sempre più alla deriva. L’opposizione e la società civile sono state oggetto per anni di una pesante censura, vittime di leggi restrittive delle libertà civili, come il divieto di manifestazioni e il blocco della rete internet. La nuova costituzione, approvata nel maggio 2018, ha di fatto compromesso la separazione dei poteri e annullato alcuni organi costituzionali, permettendo al presidente di esercitare poteri assoluti. Al contempo, la popolazione ha beneficiato poco o nulla dalla rendita petrolifera che ha reso l’economia dipendente dall’esportazione del greggio (circa il 75% del bilancio nazionale) senza aumentare la spesa sociale. Il forte calo del prezzo del petrolio ha aumentato l’inflazione e i costi dei beni primari, effetti esasperati dalle restrizioni legate alla pandemia di covid-19, rendendo impossibile il sostentamento delle famiglie, soprattutto nella capitale. Il paese rimane al terz’ultimo posto assoluto per indice di sviluppo umano (187esimo su 189), alle prese con una crisi umanitaria senza precedenti che coinvolge centinaia di migliaia di sfollati dai conflitti armati e dagli effetti del cambiamento climatico, specie nel bacino del lago Ciad.
Scenari futuri
“Sono un uomo solo”aveva dichiarato Déby alla stampa francese nel 2017, riferendosi alla conduzione della sua presidenza. Ora che le Maréchal è uscito di scena, si apre un vuoto politico e probabilmente una competizione per colmarlo. Il futuro è pieno di incognite e gli scenari politici difficili da prevedere.
Per ora il governo ha scelto la continuità: è stato nominato un Consiglio Militare di Transizione (CMT) guidato dal figlio di Déby, Mahamat Idriss Déby, capo dei servizi di sicurezza ciadiani (DGSSIE), per traghettare il paese a nuove elezioni democratiche entro 18 mesi. Un colpo di stato che sospende l’ordine costituzionale e che ricorda quanto accaduto in Sudan dopo la destituzione di Omar al-Bashir nel 2019, dove al golpe militare e all’istituzione di un CMT seguì l’apertura dei militari nel governo di transizione alla componente civile, sostenuta da forti proteste e manifestazioni in tutto il paese. Idriss Déby ha sempre puntato a un rapporto privilegiato con gli omologhi sudanesi che potrebbe ispirare una transizione più inclusiva anche in Ciad. I buoni rapporti bilaterali con Khartoum a partire dal 2010, sugellati da un matrimonio simbolico di Déby con la figlia del leader delle milizie janjaweed nel 2012, hanno favorito ulteriori iniziative di cooperazione e maggiore stabilità lungo i confini.
Ciononostante, in Ciad l’opposizione al regime si è indebolita, le istituzioni sono rimaste fragili, mentre le rivendicazioni della società civile stentano a far presa su un élite militare intransigente e forte del ruolo chiave che il Ciad ricopre per i suoi partner nel contesto regionale. A questo si aggiungono le tensioni etniche, anche all’interno dell’etnia al potere (zaghawa), e la minaccia ribelle del “Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad” (FACT) in rapida espansione, elementi che rendono i militari poco inclini al compromesso politico con gli altri attori nazionali. La strada del dialogo per una transizione democratica e inclusiva rimane quindi un’ipotesi possibile ma remota. Nei prossimi mesi di transizione, è più probabile aspettarsi il predominio delle gerarchie militari ciadiane e la persistenza di logiche clientelari su base clanica, piuttosto che lo sviluppo di processi costituzionali ed elettorali in senso democratico. Un’evoluzione che punta in senso contrario rispetto agli sviluppi dell’altra “autocrazia elettorale” in Sahel, il Burkina Faso, che grazie a un intenso dialogo nazionale, animato da partiti di opposizione e attori chiave della società civile ma non privo di sporadici episodi di violenza, ha invece visto la transizione con successo dal regime quasi trentennale di Blaise Compaoré al governo democraticamente eletto del presidente Roch Mare Christian Kaboré nel 2020.
Sulla scena internazionale, la scomparsa di Déby priva la Francia e i suoi partner di un alleato politico e personale di lunga data in Sahel. I due presidenti si riferivano spesso al Ciad come “diga” o “chiavistello” dell’entropia regionale, ultimo bastione di stabilità in mezzo ai confinanti e travagliati Niger, Nigeria, Libia, Repubblica Centrafricana e Sudan, nonché quartier generale dell’operazione francese Barkhane, con sede nella capitale N’Djamena. All’inizio dell’anno, la Francia aveva apprezzato il maggior coinvolgimento delle truppe ciadiane all’operazione, le uniche fra gli stati del G5 Sahel dispiegate con efficacia oltre i propri confini, auspicando un graduale disimpegno di quelle francesi. Un ritiro o un declassamento dell’apporto militare ciadiano potrebbe favorire un’escalation di violenza nella regione, specie nella polveriera del Liptako-Gourma, regione al confine fra Niger, Mali e Burkina Faso, dove si registrano continue violenze e rapimenti da parte dei gruppi armati jihadisti, anche a danno del personale europeo. Mentre il paese cerca di consolidare la nuova guida politica, il nuovo argine a questa instabilità dovrà erigersi anche con il contributo di “costruttori” internazionali, Francia e paesi del G5 in primis, che dovranno favorire una stabilizzazione più duratura, radicata nelle istituzioni nazionali, nello stato di diritto e nello sviluppo socio-economico, anziché nell’”uomo forte” al potere.
La transizione in Ciad è appena cominciata: se l’ordine democratico è ancora lontano, il disordine nel Sahel potrebbe essere alle porte.