Articolo di Dario Conato

Nicaragua: urne aperte, opposizione reclusa

Per il prossimo 7 novembre sono convocate in Nicaragua le Elezioni presidenziali e parlamentari. Il presidente Ortega si presenta per avere il quarto mandato consecutivo, confermando sua moglie Rosario Murillo come vice-presidente.

Il quadro istituzionale e politico di un sistema che ormai larga parte della comunità internazionale non esita a definire “dittatura” può essere ben sintetizzato dalla semplice descrizione delle condizioni in cui le elezioni si tengono:

  • L’identificazione fra il Fronte Sandinista (FSLN) e lo Stato è pressoché totale, senza distinzioni di sorta;
  • Il Consiglio Supremo Elettorale è costituito da sette magistrati indicati dal FSLN e 3 da piccole formazioni politiche che hanno sempre favorito riforme volte a consolidarne il predominio istituzionale;
  • dopo aver escluso quei partiti che avrebbero potuto attrarre il voto anti-orteghista, il regime  si presenta praticamente senza avversari, salvo alcuni micropartiti fiancheggiatori con candidati sconosciuti e invisibili, comparse di un apparente “pluralismo” che non riflette in alcun modo una società in cui molto diffuso è il malcontento;
  • in totale sono circa 150 gli oppositori politici e sociali in carcere in pesanti condizioni di isolamento e di incertezza giudiziaria, con accuse che vanno dal complotto con potenze straniere al riciclaggio di denaro. Molti esponenti e simpatizzanti dell’opposizione si sono esiliati in altri paesi per evitare arresti e persecuzioni;
  • il regime ha respinto la richiesta dell’Organizzazione degli Stati Americani, dell’Unione Europea, i larga parte della comunità internazionale affinché fossero ammessi osservatori internazionali imparziali;
  • la sede del quotidiano di opposizione “La Prensa” è stata chiusa nei mesi scorsi e la versione online del giornale è curata da redattori in esilio.

Dopo oltre un anno di manifestazioni ed eventi di massa promossi dal governo in barba a qualsiasi raccomandazione della OMS e mentre nel paese la pandemia da Covid-19 dilagava nonostante i dei dati diffusi dal Ministero della Sanità e considerati non attendibili dall’Organizzazione Panamericana della Salute, il Consiglio Supremo Elettorale ha drasticamente ridotto la durata della campagna elettorale e ha stabilito che le manifestazioni pubbliche  non possano superare le 200 presenze (del resto nessuna manifestazione politica o sociale non governativa è mai stata autorizzata dai moti del 2018 ad oggi).

Sull’immagine del regime di Daniel Ortega e di Rosario Murillo pesano ancora l’uccisione di oltre 320 cittadini che protestavano pacificamente nel 2018; le persecuzioni, le sparizioni, il carcere contro oppositori di centro, di destra, di centro, di sinistra, dei movimenti sociali;  l’approvazione di leggi che restringono notevolmente l’agibilità politica democratica; il tentativo di sostituire la realtà della profonda disgregazione del tessuto sociale causata da politiche autoritarie e repressive con la narrazione artefatta di un conflitto “stile guerra fredda” fra un modello sociale “alternativo” e l’Impero statunitense – cui si aggiungerebbe un’Europa che viene identificata con le potenze coloniali dei secoli scorsi, – mentre le proteste sociali vengono sempre definite “golpismo”. La presidenza Ortega-Murillo cerca così di proporsi come continuatrice diretta della rivoluzione degli anni Settanta-Ottanta, una rivoluzione gran parte dei cui esponenti dei vertici e della base si sono allontanati da molti anni dal sistema dominato dalla famiglia Ortega. Figure di primo piano della rivoluzione sandinista sono in esilio, altre sono in carcere senza processo come Dora María Téllez e Hugo Torres, che durante la dittatura somozista diressero azioni armate che portarono alla liberazione di numerosi dirigenti sandinisti tra cui lo stesso Daniel Ortega. E come non ricordare il caso dello scrittore Sergio Ramírez Mercado, uno dei maggiori letterati di lingua spagnola? Già vice-presidente del Nicaragua negli anni Ottanta ai tempi della prima presidenza Ortega, poi separatosi dal partito in dissenso con l’autoritarismo di Ortega, su Ramírez (oggi residente in Spagna) pende un mandato di cattura per riciclaggio e azioni anti-patriottiche, mentre il suo ultimo romanzo giace sequestrato nelle dogane nicaraguensi.

L’ondata repressiva scatenatasi nel mesi scorsi ha stupito molti osservatori, perché in realtà ha aumentato la credibilità di leader politici di opposizione che sino a quel momento non erano stati in grado di costruire un’alternativa politica solida che desse uno sbocco unitario alle diverse componenti del malessere sociale (studenti, contadini, professionisti, imprenditori, settori urbani e rurali, comunità indigene, lavoratori dipendenti, pensionati, femministe). Le decine di mandati di cattura e arresti, la chiusura del quotidiano La Prensa e la persecuzione contro giornalisti e leader locali hanno improvvisamente spazzato via divisioni, contraddizioni, fragilità e dissidi nel variegato arco dell’opposizione portando in primo piano l’immagine di un regime che rovescia il tavolo in faccia all’ampio schieramento internazionale (Unione Europea in prima fila) che chiedeva elezioni trasparenti, pluraliste e con osservatori internazionali.  Nulla di tutto questo, anzi l’esatto contrario. Con l’introduzione in extremis delle figure degli’ “accompagnatori elettorali”, esponenti di partiti e gruppi che in diversi paesi hanno sostenuto in questi anni il presidente Ortega e che oggi arrivano in Nicaragua: “amici che vengono a conoscere, non osservatori che vengono a sindacare”, spiega bene una funzionaria governativa.

In un contesto del tutto privo di una normale dialettica democratica circolano sondaggi radicalmente divergenti: secondo l’istituto nicaraguense che da anni realizza inchieste per conto del governo il FSLN avrebbe un consenso pari al 71 per cento, con un crescendo trionfale senza interruzioni dal dicembre 2019 a oggi, mentre gli altri partiti presenti sulla scheda arriverebbero all’11 per cento, con un 18 per cento che non si esprime. La Cid-Gallup, invece,  sostiene che in caso di elezioni pluraliste solo il 19 per cento voterebbe per Ortega mentre il 65 per cento sarebbe disposto a votare uno qualsiasi dei pre-candidati di opposizione oggi in carcere.

Esprimendo forti dubbi sull’attendibilità dello scrutinio molti Intellettuali, oppositori dall’esilio, associazioni di nicaraguensi nel mondo stanno intensificando gli appelli a non recarsi alle urne come unico modo per rendere visibile il rifiuto verso il partito al potere. L’affluenza diviene quindi il dato più immediato per misurare il consenso verso il governo, o almeno l’accettazione dell’evento elettorale. Secondo alcuni la recente riduzione del 30 per cento dei seggi dove si potrà votare punta a creare situazioni di affollamento che possano essere presentate come prova di una forte partecipazione popolare.

Fra poco conosceremo i dati ufficiali e vedremo come la comunità internazionale reagirà alla proclamazione della coppia presidenziale (titolare e vice)  e della nuova Assemblea nazionale. E’ di questi giorni la dichiarazione di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, secondo cui “la situazione in Nicaragua è una delle più gravi nel continente americano” e il Senato degli Stati uniti ha approvato il 1 novembre  la legge Renacer che inasprisce le sanzioni contro il governo di Managua. La  Commissione Interamericana per i diritti umani aveva già dichiarato nelle settimane scorse la repressione in corso “rende impossibile un processo elettorale davvero libero”.

L’8 novembre si aprirà un nuovo capitolo della difficile storia del secondo paese più povero dell’America latina e dei Caraibi, con l’opposizione in carcere o in esilio, gli organi d’informazione indipendenti chiusi e in esilio, le richieste degli organismi internazionali e dell’Unione Europea in difesa dei diritti umani e politici ufficialmente gettate nella spazzatura. Avremo tempo per ragionare più a fondo su ciò che l’esito di questa tornata elettorale significherà per il paese e per il continente americano, un continente in cui sempre più spesso le società si trovano ad affrontare uno scontro fra autoritarismo e democrazia, indipendentemente dal colore politico di cui si ammanti il potere.