Mali:una crisi annunciata

Dopo mesi di proteste da parte di un ampio e differenziato fronte politico-sociale, cresciuto su larga scala dopo l’accusa al partito del Presidente Ibrahim Boubacar Keita (IBK) di aver falsato il risultato alle recenti elezioni legislative di marzo 2020, il 18 agosto si è mosso l’esercito e ha deposto il Presidente, avocando a sé il potere politico.

Quando cio succede in uno stato “fallito”, qual è il Mali, le cause sono sempre complesse e di lungo periodo. Certamente vi è la frustrazione dell’esercito per la difficoltà di vincere la guerra ai jihadisti, la cui offensiva partita dal nord desertico del paese ha ora investito prepotentemente il centro, e addirittura si spinge verso la capitale Bamako a sud ovest.

L’esercito, costretto ad immergersi nel pantano di questa aspra guerra, si é sentito strattonato dalla pressione esercitata innazitutto dalla Francia e dal governo presidenzale "di fatto"  di IBK, e continuamente sottoposto a perdite umane - e nei mesi scorsi sono state molte le proteste delle famiglie dei quotidiani caduti sul terreno – aumentate dalla scarsità di risorse e dall’inefficienza del sistema statale. Criticato da una parte per la sua inefficienza, platealmente misconosciuto per la presenza della missione militare francese Barkhane con gli stessi compiti ma con più mezzi e poteri – per esempio la possibilità di attraversare i confini con il Niger e il Burkina Faso, alla cui intersezione si svolgono i combattimenti più aspri e passa una delle vie di contrabbando illecito più grandi – e censurato per i suoi eccessi e le rappresaglie nelle zone rurali, immerso nella contraddizione di una rivolta partita come etnica nel 2012 (dai touareg) per poi diventare etnico religiosa con l’arrivo dei jihadisti di tutte le specie e i colori, dallo Stato Islamico ad Al Qa’ida, l’esercito ha via via accumulato frustrazione e risentimento soprattutto nei suoi gradi medio-alti più giovani. Quelli che oggi guidano la rivolta.

Questa frustrazione ha fatto cortocircuito con la protesta di una sempre più forte opposizione sociale al regime di IBK, considerato non solo inefficace, ma anche corrotto a partire dalla ristretta cerchia familiare e di collaboratori del Presidente. Protesta che ha visto saldarsi l’opposizione politica - il cui capo è stato rapito dai jihadisti durante la campagna elettorale prima delle elezioni ed è ancora in prigionia - con il malcontento dei dipendenti statali, e la sempre più aperta opposizione delle moschee radicali, cresciute di numero e forza negli ultimi anni soprattutto per contributo di Turchia e Qatar, in primis quella dell’influente Imam Dicko. Questo variegato fronte è via via cresciuto da marzo fino al 5 giugno, quando ha ufficialmente debuttato con richieste politiche e una piattaforma. Un malcontento diventato senso comune tra la popolazione e tra i moltissimi elettori disillusi di IBK: secondo un « sondaggio » (puramente indicativo perché fatto senza campione rappresentativo) realizzato dalla fondazione maliana Tuwindi, vicina all’opposizione più progressista, il 77% dei maliani è favorevole al movimento del 5 giugno RFP, l’80% alla dissoluzione della neoletta Assemblea Nazionale e il 79% alle dimissioni del Primo Ministro, che è comunque espressione di fatto se non di diritto del Presidente della Repubblica.

Quando questi due torrenti, uno carsico e di più lunga data e quello politico neonato degli ultimi mesi, si sono incontrati, il sistema è collassato. Per fragilità e decrepitezza interne, più che per un disegno politico preordinato. Tanto che la rivolta della più grande caserma del paese a Kati si è poi concretizzata in un vero colpo di Stato per l’accoglienza festante che sin da subito gli è stata tributata dal popolo, oltre che dall’assenza di qualsivoglia reazione contraria. Tanto da permettere l’arresto pacifico del Presidente IBK, nessuno spargimento di sangue, e la redazione di un documento politico di rinascita del paese che cerca di indirizzare politicamente il malcontento popolare finora represso su obiettivi interni di pulizia e riforma piuttosto che sull’ostilità’ antifrancese, che isolerebbe il neonato assetto. Che non a caso ha subito confermato tutte le alleanze e gli impegni internazionali, a cominciare dalle missioni europee di training militari (EUTM Mali) e di capacity building (EUCAP Sahel Mali) per finire con la missione di peacekeeping Onu MINUSMA e addirittura la missione militare francese Barkhane e la missione militare internazionale di sostegno Takuba.

Questa lucidità politica indica che se non la tempistica, sicuramente la strategia è frutto di numerosi apporti, non tutti locali. Tra i principali attori vi è la Turchia, sia come fondazioni di welfare in supplenza crescente allo Stato, sia come spinta al proliferare delle moschee. Non a caso nella blogsfera, nelle ore del golpe, la simpatia verso i golpisti era dichiarata da tutti gli account turchi. La Turchia è infatti l’unico paese che al momento ha dichiarato che “continuerà comunque a stare accanto al fraterno e amico popolo del Mali”, di fatto avallando il golpe. Ed è probabile che vi sia un ruolo, anche se più defilato, della Russia, che è stata, dopo l’indipendenza del 1960, punto di riferimento per il Mali dal 1961 fino al 1991. E sono legami sentimentali che non si sciolgono in un giorno. E infine va approfondito se e come il golpe abbia avuto un riservato via libera  dalla Francia.

Come questa strategia evolverà e si svilupperà nel futuro non è però questione che interessa solo i maliani. Innanzitutto perché in Mali si svolge una guerra al terrorismo jihadista guidata dalla Francia, ma che riguarda anche gli altri 4 paesi del Sahel e tutti gli attori internazionali che sostengono questo sforzo direttamente o indirettamente nelle due mission europee o in quella Onu.

In particolare l’Italia deve urgentemente fare il punto della situazione, visto che ha recentemente, con il suo ultimo decreto missioni, giustamente deciso di riconoscere il ruolo di « profondità strategica » giocato dal Sahel nella questione libica e nei flussi di migranti, e quindi di accrescere il suo sforzo nell’area con la partecipazione diretta alla forza Takuba, e con l’annuncio di apertura della ambasciata italiana a Bamako.

Questa riconsiderazione deve innanzitutto fare una valutazione sull’efficacia non tanto dell’intervento multilaterale europeo, che ha i noti limiti di incisività ma che comunque gioca un ruolo soprattutto nella riforma e evoluzione del settore della sicurezza, quanto sul tipo di contrasto al terrorismo jihadista.

Sinora si è seguita l’impostazione francese : contrasto puramente militare al terrorismo jihadista. L’inefficacia di questa strategia che prescinde dalla « conquista di cuore  e menti » della popolazione è oramai sotto gli occhi di tutti. Sia perché il jihadismo si è innestato in dinamiche interetniche oramai indistinguibili dalla storia del Mali e del Sahel e dal fallimento dello Stato maliano, sia perché è difficile che una ex potenza coloniale possa mai davvero conquistare le menti e i cuori di un Paese a lungo dominato.

Occorre allora elaborare una strategia alternativa, che parta dalla considerazione anche politica della mancata autosufficienza della Francia in questa guerra. Per altro implicitamente riconosciuta con la creazione della forza multinazionale Takuba. L’Italia puo giocare un grande ruolo in questa rielaborazione. Non avendo l’Italia una storia coloniale cosi invasiva come quella di Francia e Gran Bretagna, questa « debolezza » si è rivelata nel mondo postmoderno una forza e una virtù, che fanno dei soldati italiani l’asset più ricercato da tutte le missioni di peacekeeping. Di fronte al nuovo scenario politico del Mali l’Italia ha di fronte due possibilità. Può decidere di  ritrarsi e dire « ci eravamo sbagliati, questo approccio non funziona, torniamo a casa ». Ma così verrebbe indebolita anche la credibilita residua della nostra presenza in Libia. Oppure può decidere di costruire un percorso comune con la Francia che vada verso la creazione di un credibile binario di « soft power » nel contrasto al terrorismo, e che dunque lavori davvero a curare lo stato fallito del Mali e dell’area del Sahel mentre si conduce un’ opera di contenimento del fenomeno terroristico jihadista. Puntando per esempio su un ruolo accresciuto dell’Ue come potenza civile, entro cui « costringere » la Francia e cercando il coinvolgimento degli Stati Uniti.

Da una crisi può scaturire un’opportunità. I fatti maliani segnalano la crisi definitiva della presenza francese diretta così come la si è conosciuta per decenni nell’Africa dell’Ovest. Se non vogliamo che il vuoto sia riempito da altri attori non europei, l’Italia può usare la conferma e addirittura il rilancio della sua presenza accanto alla Francia con l’obiettivo di farla evolvere in  una presenza europea in senso multilaterale, non solo nel Sahel ma in tutto il Mediterraneo, a partire dalla Libia.