L’allargamento Ue fra speranze e incognite
Piccolo contrasto nelle scorse settimane fra Germania e Francia sulla questione dell’esenzione dei visti per il Kosovo, in considerazione delle tensioni con la Serbia. Nulla di clamoroso, ma indicativo di quanto sia ancora lunga la strada dell’Europa per i Balcani del Sud e di quanto il ritardo del percorso condizioni il cammino degli altri pretendenti all’allargamento della Ue. L’anticamera è sempre più affollata - il che può essere indice di buona salute dei valori della Ue e di speranze di sviluppo democratico ed economico in diversi Paesi - ma la gerarchia delle ambizioni e delle legittimità è complicata, nonché stravolta dalla guerra in Ucraina e dall’allargamento della Nato. L’opzione militare in qualche modo si sovrappone alla dimensione politica, ma i due ambiti non sono meccanicamente componibili.
"Dobbiamo essere pronti per l'allargamento entro il 2030", ha detto Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, al forum strategico annuale di Bled, in Slovenia, lo scorso agosto. Parole che enfatizzano una prospettiva e forse una volontà comune. Quanto ai passi in avanti, ha precisato che l’obiettivo non è una data (simbolicamente il 2030) ma una più stretta collaborazione con i Paesi candidati, i quali dovranno superare difficili esami in materia di corruzione, sistemi giudiziari, regole di mercato, amministrazione pubblica. Esami cui si aggiunge, per l’Ucraina, il peso immane della ricostruzione che - c’è da giurarci - sarà in ogni caso sulle spalle degli europei, una volta svuotati i magazzini militari americani.
Attualmente i Paesi candidati sono otto: Albania, Moldavia, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Turchia e Ucraina. La Georgia e il Kosovo sono candidati considerati “potenziali”, ma si accettano scommesse sulle conseguenze politiche di eventuali “posticipi”. Dall'adesione della Croazia nel 2013, i progressi in materia di allargamento sono stati limitati. La guerra in Ucraina ha ravvivato il dibattito su una necessità strategica in rapporto all’aggressività russa e all’espansionismo cinese. Una visione che mette in soffitta i buoni rapporti con la Russia coltivati dalla fine degli anni Novanta ed è tuttavia condizionata, proprio nei Balcani, dalle posizioni filorusse dei leader della Serbia e della Repubblica dei serbi di Bosnia, teatri di permanenti tensioni.
Ma l’allargamento è anche fonte di preoccupazioni per gli attuali equilibri istituzionali che potrebbero essere sconvolti. Nessuno si nasconde, anche allo stato attuale, la necessità di una profonda riforma della governance. L'idea che l'Europa debba riformarsi prima di accettare nuovi membri è ormai condivisa. In primis, la questione delle decisioni a maggioranza qualificata. L'adesione dei nuovi candidati rappresenterebbe un aumento di un terzo della popolazione dell'UE, con un reddito pro capite inferiore a quello della Bulgaria, per citare l’ultimo posto in gerarchia economica.
Ciò significa che una grossa parte dei fondi di coesione verrebbe reindirizzata verso nuovi membri, con il risultato che alcuni beneficiari potrebbero diventare contribuenti. L'ingresso nell'UE di un esportatore di prodotti agricoli come l'Ucraina potrebbe rivoluzionare il mercato interno. Intanto, Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia hanno vietato esportazioni agricole ucraine per proteggere produttori nazionali.
Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione dello scorso anno aveva detto: “Le istituzioni democratiche devono costantemente conquistarsi e riconquistarsi la fiducia dei cittadini. Dobbiamo essere all'altezza delle nuove sfide che la storia continuerà a porci. Proprio come lo sono stati gli europei quando milioni di persone provenienti dall'Ucraina hanno bussato alla loro porta. Questa è la migliore espressione dell'Europa: un'Unione fatta di determinazione e solidarietà”. Nel suo discorso di quest’anno, l’ultimo prima delle elezioni di primavera e l’ultimo del suo mandato, ha tracciato il bilancio delle cose fatte e degli impegni futuri. Ma una volta ribaditi obiettivi e ideali, la sensazione è che l’Europa sia ferma alle buone intenzioni, su cui pesano, più concretamente, sondaggi e possibili nuovi assetti politici. Un terreno tutt’altro che favorevole alla coesione e all’unanimità.
Come ha scritto Paolo Lepri sul Corriere della Sera, un modello che all’indomani del primo allargamento era considerato “vincente” oggi è diventato “necessario”, proprio in considerazione del contesto attuale condizionato dalla guerra in Ucraina e dalle nuove minacce geopolitiche.
Ma “necessario” per chi? Certamente per i nuovi membri che avrebbero tutto da guadagnare sul piano economico e della sicurezza (anche in rapporto all’allargamento parallelo della Nato). Un po’ meno per la “vecchia” Europa, che accantona definitivamente il sogno di de Gaulle per un’Europa indipendente, nella sfera occidentale, ma ponte equidistante “dall’Atlantico agli Urali”. Un po’ meno per le democrazie condizionate da egoismi nazionali e movimenti populisti che in genere non simpatizzano per gli ultimi arrivati.