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Politica

Votare ha conseguenze; farne a meno, anche

26 October 2022
Francesco Olivieri

La prima reazione degli americani, dopo aver ascoltato i telegiornali del 25 settembre, è stata duplice: bene, si è scelta una donna, la prima volta nella storia italiana; ma subito dopo anche inquietante, cosa dobbiamo ora aspettarci da un partito che racchiude nella memoria foschi ricordi, che si pensava fossero ormai consegnati alla storia?

Fin qui i riflessi di primo acchito. Eppure la parola “fascismo”, nelle sue varie declinazioni, tutt’altro che scomparsa dal dialogo politico degli americani, era convenientemente neutralizzata dal fatto che in Italia, il paese dove l’idea era nata, il partito fascista era estinto. Ora alcune delle molecole che ne facevano parte si sono diversamente ricombinate in diversi paesi, non esclusi gli USA, e la reazione è perplessa. Il tema oggi recita: abbiamo un problema fascista, in Italia e altrove? Come si esprimerebbe? “Italy First”? L’Europa è un castello troppo grande e con troppe colonne, e sta in piedi solo se ciascuno contribuisce. Sansone dimostrò oltre ogni dubbio il proprio orgoglioso puntiglio, e rimase sepolto nelle macerie. Di colpo, si pensa, forse dovremo ricalibrare.

Vista da oltremare, nel sottofondo, la preoccupazione ha un fondamento nella diffusione mondiale di progetti politici che riposano su una base autoritaria, le cui tracce sono presenti in Europa ma anche nelle Americhe e nel Pacifico – ed anche in paesi con una storia diversa, e un lungo passato democratico.

Su questo sfondo, per il momento e per quanto riguarda il nostro paese, non mancano commentatori che conoscono la realtà italiana a fondo, e che aiutano il lettore americano a ricavare una analisi informata ed un giudizio equilibrato. Per citarne uno, Alessandro Stille, il secondo grande giornalista con questo cognome, ha dato una magistrale analisi del momento politico italiano, che si legge su “The New Republic”.  Altri hanno invece ceduto al primo istinto, e hanno immediatamente concluso che l’Italia stia scivolando verso una riedizione del movimento di Mussolini, quel che è peggio una versione adattata al 21mo secolo. Il sospetto che si indovina è che il fascio non fosse dunque mai morto, solo mutato, e nel mondo di oggi, data l’esistenza di possibili eredi e simpatizzanti, sarebbe anzi potenzialmente più nefasto di quello di cent’anni fa. Altro era il momento in cui -dopo una guerra di violenza e crudeltà sino allora senza pari- dalla violenza di quel passato sorgeva cent’anni fa un movimento politico radicale e disperato; se lo stesso movimento nel nostro secolo, animato di buone intenzioni, trovasse nuovamente radici sarebbe un segno inquietante. Se risorgesse il fascismo in Italia, da dove era stato violentemente estirpato al termine di una guerra anche fratricida, non ci sarebbe garanzia che una nuova rispettabilità non lo porti a legittimarsi altrove.  Dietro questa reazione si intravede il concetto che se le democrazie del mondo -anche quelle “vaccinate”- sono suscettibili di cedere a questo virus che si credeva letteralmente debellato, si dovrebbe anche indagare quale loro debolezza ne permette la rinascita.

Forse si dovrebbe cominciare prima col capire se le elezioni italiane dimostrano che davvero è il partito di Mussolini ad avere vinto le elezioni. L’autorevole periodico “The Atlantic”, che intitola “Il ritorno del fascismo in Italia”, non sembra avere tanti dubbi, ed è preoccupato. Sulla stessa falsariga anch’io ho ricevuto messaggi di studenti americani, allarmati, che mi scrivono per essere rassicurati: l’Italia che hanno conosciuto ancora in questi mesi non era l’Italia di Mussolini, come può essere cambiata ora, di colpo? Respingendo questi riflessi immediati, gli americani, nell’insieme, hanno registrato con prudenza gli sviluppi dalla penisola, e si sono riservati un giudizio. In parte forse perché non hanno ancora una chiara percezione di come si comporterà il nuovo governo di Roma; e forse anche un pochino perché dai governi italiani si attendono comunque una certa impermanenza.  A riprova, i media hanno raccolto con molta attenzione ogni segnale -al contrario- di continuità con la rotta seguita dal nostro paese in tutti questi anni.

Resta da capire come si sia arrivati qui. Esiste infatti anche un altro un elemento di questa elezione, che sembra aver colpito gli osservatori americani meno degli italiani, e certo meno di quanto dovrebbe. Si tratta della scarsa affluenza alle urne, in termini che da noi -a differenza degli USA- non hanno precedenti.

L’assenteismo non è sfuggito agli americani, anche se non ne hanno tratto tutte le possibili conclusioni. Sarebbe stato facile concludere che in Italia stia restringendosi la fetta di popolazione che crede nella democrazia, o che il paese si affidi ciecamente alla democrazia altrui.  Se sovranismo, nativismo, populismo -dopo la cura che ci siamo sorbiti dalla guerra mondiale in poi- ci attraessero di più che i successivi tre quarti di secolo di democrazia, si porrebbe il quesito per Washington di come situarsi in un mondo in cui queste ideologie affiorano in modo crescente in luoghi lontani del nostro pianeta. Per non dire fino a che punto gli USA saranno capaci di sfuggire essi stessi a questa ventata, che ha le sue aree di risonanza nel paese.

Il crollo dell’affluenza alle urne è sintomo più serio quanto le percentuali di voto ottenute dai singoli partiti.  Dopo settant’anni di assiduità nel voto, averlo disertato in massa non è un incidente passeggero; sembra piuttosto una indicazione seria che gli italiani sono sostanzialmente delusi dal funzionamento della loro democrazia (anche se si dicevano soddisfatti del governo più recente).

È per questo che il vero partito dominante risulta quello degli indifferenti; “Fratelli d’Italia” ha vinto, e lo ha fatto con l’ampia delega degli assenti. Non è una consolazione pensare che se la democrazia dovesse davvero traballare in Italia, ciò avverrebbe sullo sfondo della distrazione di metà del paese. Ma per gli Americani -nel cercare una analisi degli effetti e delle cause- sembra sia per ora sfuggito il peggio, cioè che gli astenuti sono concentrati in una precisa metà del paese, la metà meridionale. Che dopo centosessanta anni l’Italia sia ancora un paese tagliato in due è un triste risultato per la nostra democrazia, che vi ha regnato per quasi la metà del percorso. Torna alla memoria l’amaro detto del Guicciardini cinque secoli fa, “Franza o Spagna, purché se magna”, quando queste erano le potenze che si contendevano la penisola. Evidentemente questo spirito agnostico non è morto, e quest’anno è stato il partito di chi è rimasto a casa.

L’attenzione che ha suscitato questo momento politico del nostro paese, dunque, non si spiega solo per il fantasma di un’Italia che esca dalla famiglia delle democrazie; nasce anche da un sospetto di debolezza presso queste ultime.  Quando un’ideologia autoritaria si diffonde come un virus, è naturale una sincera ricognizione delle debolezze dei nostri sistemi. Passata la prima ondata, dobbiamo aspettarci che gli osservatori dei nostri alleati compiranno questo lavoro. Fin dove agisce l’attrazione impaziente e decisista dell’autoritarismo, e dove subentra l’insoddisfazione per le sfuggenti promesse mancate della democrazia?

Il timore di un mondo che recede dalle promesse di comune intesa e di condivisa opportunità, centrale per gli ideali della democrazia, nella realtà della politica all’interno degli ‘States’ può portare ad un blando senso di impermanenza e di inefficacia imputabile al sistema. In entrambe le nazioni in senso lato, quella americana come quella europea, la spinta verso il nativismo sembra essere lo sbocco naturale di un elettorato preoccupato di un futuro di declino in cui non vede chiaro.  Peraltro fare un parallelo con i perigli della democrazia in America richiede cautela: in quel paese la democrazia è minata non dai delusi che la vorrebbero più proattiva, ma da coloro che invece -al di là delle parole che spendono per inneggiarla- la vivono come un pericolo esistenziale, e questo è un rischio peggiore.

Una scorsa dei “media” americani suggerisce che dopo la salva iniziale di inquietudini sull’imminente governo Meloni è sopravvenuta una misura di cautela. Si registra con soddisfazione il fatto nuovo di una donna a Palazzo Chigi, e le sue prime dichiarazioni sono state rassicuranti (su Putin, sull’Ucraina… perfino sull’Europa). Che abbia mostrato segnali di indipendenza da Berlusconi e altri alleati non guasta. Ha grinta, e la grinta in America piace. Se va bene agli italiani, e non distrugge settant’anni di tessuto europeo e atlantico, prudenza può essere buona consigliera. Il Governo Meloni potrebbe essere un buon momento per Washington nominare finalmente un ambasciatore nel nostro paese; Biden ha solo due anni ancora avanti a sé prima delle nuove elezioni presidenziali, e la “sede vacante” a Palazzo Taverna in un momento di rimescolamento di carte sarebbe imbarazzante.