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Economia

Ripagare il debito

1 June 2023
Francesco Olivieri

Il dibattito in corso in questi giorni in America ha degli aspetti surreali: e i suoi elementi agli occhi dei cittadini non sono evidenti - come invece dovrebbero.

Tutti sanno che il Congresso autorizza la spesa pubblica del governo federale, e tutti sanno anche che è il Congresso a imporre la tassazione necessaria a far funzionare lo Stato federale in modo da far fronte alla spesa preventivata. Tutti sanno anche che il credito di cui dispone questa nazione è elevato e soggetto a tassi di interesse modesti, così che per i governi è forte la tentazione di evitare il ricorso alla tassazione (che colpisce immediatamente gli elettori), assumendo invece nuovo debito, che dovrà essere ripagato con la tassazione di un domani -magari passando la palla proprio al partito avverso. Nel mondo, il solo altro paese che applica tranquillamente questa restrizione è la Danimarca, il cui debito è solo un terzo del suo PIL -cioè 146 miliardi $, contro i 31 trilioni degli USA (121% del PIL, dopo aver sfiorato il 135% in tempo di COVID), attualmente dunque dieci volte quello italiano (3 trilioni, il 134% del PIL). Una curiosità è che una porzione ragguardevole del debito pubblico, negli USA, è detenuto da soggetti economici che appartengono allo stesso Governo federale (compresa la Sicurezza Sociale, che è creditore di quasi tre trilioni).

Anche quando si fronteggiano ingenti spese, che si presentano come inevitabili - tipicamente in caso di conflitto armato- può essere più facile, politicamente, indebitarsi piuttosto che imporre un balzo immediato nella fiscalità: questa non scompare affatto, vene solo rinviata. Prima o poi si dovrà estorcere quel denaro dai cittadini, e il riflesso naturale dei politici è di assicurare che siano altri a effettuare la dolorosa operazione. Il debito presente è la risultante non dell’azione del governo in carica, bensì del cumulo di tutti i governi precedenti.

Visto peraltro dal punto di vista dell’opposizione, obbligare il partito al governo a usare lo strumento fiscale per eseguire il proprio programma serve a imporre maggiore sobrietà - e soprattutto può privarlo della possibilità di farsi bello con costosi programmi -graditi al pubblico- che non si ha nessuna intenzione di pagare con nuove tasse, rinviando il “redde rationem” ai governi futuri. 

Anche per questo motivo, l’idea di imporre un limite invalicabile a questo escamotage ricompare immancabilmente in tempi di guerra, quando si ha ragione di credere che l’elettorato esiterebbe a sottoscrivere la partecipazione a un conflitto armato. Così accadde a partire da quando gli Stati Uniti, nel 1917, si videro coinvolti nel conflitto europeo che stava diventando mondiale, e nuovamente nel ’41 ed ogni anno successivo durante la seconda guerra mondiale. Il legame con la guerra era così scontato che alla fine del conflitto il plafond congressuale per il debito pubblico fu subito ridotto. In seguito, durante la guerra in Corea negli anni ’50, il governo -sicuro della compattezza dei cittadini nell’opporsi all’estensione del comunismo in Asia- preferì invece finanziare quel conflitto con l’aumento della pressione fiscale.

Ma la tentazione di differire lo strumento fiscale era ben radicata. Del resto, dopo Bretton Woods la consacrazione del primato economico degli USA ne aveva confermato la capacità ad indebitarsi a basso costo, rendendo fluida la provvista di quanto necessario allo scopo di eseguire quanto veniva deciso, e il deficit -già ridotto nel 1946- rimase a lungo al di sotto del livello di quell’anno.

La sua funzione politica però restava intatta, mentre il Congresso scalpitava per un maggiore e più dettagliato controllo sulla spesa pubblica animato dall’aspirazione del Partito Repubblicano di contenere la crescita del governo federale, che è percepita come un danno alla rilevanza degli Stati. L’esercizio del plafond del debito forniva indubbiamente una maniera per esercitare questa autorità, ma non senza un costo elevato per il paese: l’incertezza che lo scrutinio parlamentare gettava sui piani del governo, mentre ne conteneva la capacità di spesa poteva infatti aumentare il costo dell’indebitamento. Negli anni di Obama, la minore credibilità che ne risultò condusse nell’estate del 2011 a un crollo dei mercati finanziari e a un successivo sovrapprezzo sul debito pubblico.

Nel tempo, questo braccio di ferro tra i due partiti sul tema del debito pubblico si è trasformato da un concetto tecnico ortodosso, connesso col buon funzionamento del sistema finanziario nazionale, a un espediente per esercitare pressione politica da parte di una componente del Congresso nei riguardi dell’altra. Oggi è evidente la natura politica del dibattito su questo tema, e anche a rischio di un clamoroso “default” l’interazione tra i partiti è cospicuamente collegata alla ricerca di maggioranze ibride che -una volta assicurata una miscela di concessioni reciproche- possa votare l’attesa estensione del debito pubblico sotto tale minaccia, concludendo con un pacchetto di emendamenti destinati a proteggere gli interessi elettorali dei parlamentari il cui voto deve assolutamente essere assicurato. Un buon terreno per ottenere promesse per le rispettive circoscrizioni elettorali.

E’ questo un sistema sano e difendibile? Nessuna rilevante forza politica del paese lo difende; tutte però vi sono legate dalla necessità di presentare al pubblico elettorale un “libro dei sogni” piuttosto che un sobrio, severo bilancio pubblico federale rispondente agli stessi principi che presiedono a quelli delle aziende e delle famiglie che compongono la nazione. Se le necessità di quest’ultima impongono una spesa maggiore, occorre evidentemente una fiscalità corrispondente.

Impossibile? Il dilemma è allora se ridurre la spesa al di sotto delle ambizioni, o aumentare le tasse, e ciò significa scegliere chi tassare. Il problema è che i Democratici non vogliono tassare ulteriormente la classe media, che da sola contiene metà della popolazione americana, e i Repubblicani si rifiutano di tassare il ceto più favorito, che paga tassi irrisori- quando paga.              

Ora, al termine delle trattative testé concluse tra la Casa Bianca e la leadership Repubblicana della Camera, impersonata da Kevin McCarthy, entrambi i negoziatori hanno separatamente proclamato vittoria, ma stanno ancora affrontando lo scrutinio dei rispettivi gruppi parlamentari per varare un provvedimento legislativo in tempo utile per passare senza danno la data presunta di esaurimento dei crediti autorizzati (prevista per il 5 giugno). Poiché ogni voto guadagnato a sinistra può determinare la perdita di un voto a destra e viceversa, è in corso ora una attenta e pressante opera degli staff rispettivi per raggranellare una maggioranza composita.

La sensazione è che McCarthy (nominato leader della Camera con una stentata maggioranza)  abbia giocato al limite delle sue forze; ma nella realtà, nessuna delle due parti può concedersi il lusso di dichiararsi vincitrice: né i Repubblicani, né i Democratici hanno abbastanza voti per far approvare il documento finale con i soli voti della loro parte, ed occorre creare una convergenza bipartitica ad hoc, una specie di flash majority, e che il passaggio al Senato (che ha una maggioranza Democratica) sia abbastanza fluido e solerte da restare nei tempi indicati dal Tesoro. 

A Washington intanto, ad entrambi gli estremi del Mall, non si è finito di lavorare senza sosta ….