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Politica

Come si fa la Corte in America

12 July 2022
Francesco Olivieri

Un lascito di Montesquieu è, notoriamente, il concetto della separazione dei poteri, a tutela della libertà e dello Stato allo stesso tempo. Il più prezioso contributo di questa tesi del filosofo francese è probabilmente quello di aver sottratto il potere giudiziario al dominio del sovrano, pur lasciando a questo il potere di grazia. Nel modo che si è sviluppato in America durante questo paio di secoli di esperienza, l’indipendenza del sistema giudiziario è sfociata nella facoltà della Corte Suprema di pronunciarsi con verdetti che non solo affermano il giudizio definitivo di un caso giuridico, in questo come una Corte di Cassazione, ma affermano con altrettanta autorità la dottrina che conduce al verdetto, sulla forza della Costituzione e dei precedenti giudizi della stessa Corte (“stare decisis”). I giudici non sono una casta, come potrebbe essere in altri sistemi, e sono un piccolo numero, nominati a vita - salvo la condanna attraverso la procedura di “impeachment”, tentata una sola volta nella storia, oltre un secolo fa, e senza successo. Di fatto, i nove giudici - una volta vestita la toga - lasciano il mandato solo per dimissioni o al termine della loro vita.

Guardiani della Costituzione, nel tempo non hanno potuto esimersi dal prendere partito dirimendo le massime questioni giuridiche della nazione, quando la loro espressione giuridica arrivava in tribunale e di lì risaliva fino alla Corte Suprema - che peraltro non è tenuta a intervenire, e lo fa a suo giudizio insindacabile. Insomma, la Corte sceglie i casi da dirimere, le sue conclusioni non possono essere smentite, e i giudici stessi nel loro mandato sono insindacabili: sulle loro spalle pesa, perciò, una responsabilità senza pari che accompagna la loro grande indipendenza; mentre esistono Corti Supreme anche negli Stati, non godono delle stesse prerogative.

Un effetto di questa grande libertà assicurata ai magistrati della Corte è che mentre il confine tra potere esecutivo e potere giudiziario è netto, quello col potere legislativo lo è di meno. Dato che le prerogative della Corte sono così estese, considerando che la legislazione degli Stati e della nazione nel suo insieme viene chiamata in causa regolarmente per individuarne e correggere le lacune nei riguardi della Costituzione, la linea tra decidere un punto di diritto o invece decidere un punto politico può divenire fragile e prestarsi ad escursioni in un campo che non è più solo di rispetto della legge.

Questa osservazione vale in entrambi i sensi. I Nove possono essere tentati di pronunciarsi per correggere un eccesso di potere dell’amministrazione o dei corpi legislativi statali, ma possono anche trasferire ai casi a loro sottoposti una visione in cui partecipa un sentimento etico personale di dove debba trovarsi la giustizia in un caso determinato. Quando l’orientamento filosofico dei giudici è prevalentemente di un colore o di un altro, si avranno verdetti che non saranno esenti da pecche di questa natura. Tanto più forti sono la convinzione morale dei magistrati e il loro attaccamento alla verità, che avranno nutrito per tutta la vita, tanto meno saranno disposti a negoziare, così che ne possono derivare posizioni dogmatiche, chiuse alla critica.

Questo è ciò che accade quando la delicata costruzione delle Corte viene sovvertita dalle manipolazioni degli altri poteri. Nominare i magistrati alla Corte, prerogativa dei Presidenti in carica, si presta all’esercizio di una opzione politica: la ratifica delle nomine da parte del Senato dovrebbe quindi servire a evitare la manomissione da parte dal Capo dell’esecutivo, e al tempo stesso anche fornire ai prescelti l’occasione per chiarire i loro orientamenti sui grandi princìpi, per salvaguardarne l’essenza e la continuità. Così oggi, quando si scopre che i più recenti tra i nuovi assunti alla Corte hanno votato in massa per rovesciare un verdetto che ha imperato per mezzo secolo, dopo aver solennemente dichiarato di voler rispettare il principio-guida dello “stare decisis”, si crea sgomento nel constatare che alla prima occasione hanno voltato gabbana. La Corte non ne esce bene, ed è guerra. La reazione popolare guarda anche agli effetti devastanti che potrà avere l’applicazione dello stesso principio in altre fattispecie, ad esempio in materia di identità di genere. Ne consegue che si moltiplicano ora le pressioni perché Biden reagisca aumentando il numero dei giudici (che non è fissato dalla Costituzione e può essere deciso dal Congresso con una legge ordinaria), per poi riempire la Corte con magistrati di opposto orientamento - cosa che appare illusoria, perché Biden non dispone di questo genere di maggioranze in Congresso, e anche perché sarebbe un atto politicamente incendiario. Se avesse la solida base parlamentare che sarebbe necessaria per un simile disegno, non avrebbe bisogno di eseguirlo: basterebbe passare in Congresso nuova legislazione, aggirando le obiezioni della Corte.

Ancora una volta emerge il fatto che esiste un divario tra la volontà della nazione quale espressa attraverso processo elettorale, e la preferenza dei cittadini quale emerge dalla ricerca e dai sondaggi che approfondiscono i principali temi dell’attualità politica: i numeri proprio non corrispondono.

Sono gli americani contrari alla regolamentazione del possesso delle armi? No, il 60% ritiene che il diritto a detenere armi non debba essere assoluto.

E per l’aborto? Di nuovo, il 60% pensa che debba essere consentito nella maggioranza dei casi.

Ma allora i dettami della Corte Suprema? Si scopre che dopo questi ultimi verdetti solo il 25% della popolazione ha oggi fiducia nella Corte, un crollo ulteriore dal minimo dello scorso anno (quando era il 36%). Simili statistiche si trovano anche in materia di preghiera nelle scuole, e via discorrendo. L’espressione politica della popolazione non ricalca, di gran lunga, la loro preferenza, e quando in una democrazia questo avviene in materie che toccano i diritti fondamentali del cittadino il fatto è imbarazzante.

Il problema è che il sistema creatosi durante i primi 240 anni della repubblica stellata era impostato per garantire un posto confortevole a Stati grandi e piccoli insieme, Stati con diversa matrice culturale, passati coloniali diversi, risultanti dalle differenti miscele di tutte le diverse sfumature europee più il legato degli innumerevoli africani, che sono arrivati senza bagaglio ma non senza cultura. La condizione per riunire tutti sotto la stessa tenda fu di dare proporzionalmente un po’ più di autorità agli Stati più piccoli, che rischiavano di sentirsi schiacciati dai vicini, pur senza trasferire loro più potere in assoluto. In pratica, questo accorgimento offriva un migliore equilibrio, al prezzo di un compromesso sul valore comparato del voto dei rispettivi cittadini. Il peso non rigidamente proporzionale di questi ultimi nelle istituzioni nazionali è avvertibile nella ripartizione dei seggi del Senato, in cui la California con 40 milioni di abitanti vale come il Wyoming che ne ha mezzo milione. I tre più popolosi stati, assieme, hanno circa 100 milioni di abitanti (quasi un terzo del Paese) ma solo sei senatori, lo stesso numero dei tre meno popolosi Stati che sommano 2 milioni di abitanti.

Dopo oltre duecento anni il vantato crogiolo, in cui tutti i metalli si fondono per formare una lega più forte e più preziosa, lascia ancora oggi vedere tutte le sue multicolori venature. È un bene che sia così, perché la ricchezza umana del Paese riposa sulla sua diversità; ma complica dannatamente le cose quando si guarda alla necessità di fornire un governo nazionale compatto e senza crepe.

È evidentemente difficile conciliare la necessità di tenere insieme una nazione così vasta, assicurando una voce a ciascuna entità, senza intaccare quella dei gruppi più numerosi.

Questo ragionamento non vale ovviamente per la Camera del Rappresentanti, il cui numero è fissato ed oramai immutabile, ma la cui ripartizione viene aggiornata sulla base del censimento decennale, e garantisce in quella Camera una rappresentanza proporzionale. Questo non è un fattore da poco; ma è il Senato la sede esclusiva per la ratifica delle nomine di governo decise dall’esecutivo, comprese quelle di ministri, ambasciatori e -cruciale- i magistrati della Corte Suprema, nonché sede per giudicare il Presidente in caso di impeachment; e naturalmente la legislazione ordinaria presuppone comunque il suo accordo.

Se si guarda per esempio l’elezione Presidenziale, occorrono 770,000 texani o 715,000 californiani per ciascun seggio di quel Collegio Elettorale che consacra il candidato vincente, ma solo 194,000 del Wyoming o circa 200,000 del Vermont. Il Distretto di Columbia -sede della capitale- non è uno Stato e non ha perciò alcuna rappresentanza nel Senato, pur avendo più abitanti del Vermont o del Wyoming. Per lo stesso motivo, benché il Distretto abbia un rappresentante elettivo nella Camera, questi non ha diritto di voto – al pari dei rappresentanti dei cinque territori d’oltremare, residui di altrui colonie del Pacifico e dei Caraibi, compreso Puerto Rico che conta più abitanti di venti degli Stati continentali.

In altri termini, la necessità consacrata dai fondatori di mitigare il divario demografico per cementare meglio la nuova nazione inevitabilmente comporta oggi una disuguaglianza che si traduce in un prezzo per gli Stati più popolosi, ma comporta anche sacrificare il principio “un uomo, un voto”, e questo ha conseguenze.

Allontanarsi da questo principio conduce a una disparità tra potere di governo e responsabilità nei confronti del popolo. Per quanto circoscritta sia questa disparità, essa erode alla base il concetto di democrazia: chi è disposto ad accettare che la propria voce sia sistematicamente trascurata a vantaggio di quella altrui?

Gli strumenti demoscopici odierni sono lontani dalla perfezione, ma anche scontando il margine d’errore forniscono il ritratto di una democrazia che copre le proprie vergogne, ma lo fa in un modo che non sfugge all’attenzione. Una autentica democrazia quanto a lungo può resistere alla discrepanza tra il volere del popolo e l’operato dei suoi rappresentanti? 

La Costituzione fissa le norme della nazione, e indica come queste possono riflettere la realtà del momento ed anche evolvere seguendo il cammino del futuro; indica perfino come si può emendare la Costituzione stessa, con un difficile percorso che però è stato percorso già trentatré volte. Tocca ai tre poteri di Montesquieu porvi rimedio, assieme e non in contrasto, per ridare al Congresso, e quindi alle altre emanazioni dello Stato, la possibilità di ribadire oggi l’equilibrio tra la volontà della nazione e la norma che la esplicita, di cui custode è appunto la Corte Suprema.

I sondaggi di opinione non sono vangelo, ma quando insistono a constatare profonde discrepanze tra la voce dei cittadini e la sua traduzione in legge dello Stato è forse tempo di prestarvi attenzione.

Non sarà facile rimontare la corrente: queste discrepanze nascono dall’accumulazione, nel tempo, di piccole deviazioni trascurabili, ma hanno da un bel po’ cessato di essere innocenti.

Un sistema bipartitico come quello statunitense corre sempre il rischio che all’alternanza più o meno regolare dei partiti si sostituisca la predominanza sistemica di uno sull’altro: e in una democrazia come quella americana, di solito si determina una reazione, una revisione delle priorità e delle politiche, magari un cambiamento di direzione nel cercare l’elettorato cui rivolgersi.

Qualche anno fa la demografia del Paese ha posto simili quesiti al partito Repubblicano, che ha appunto reagito con simili strumenti. Fin qui nulla di inconsueto, se non fosse che allo stesso tempo ha messo in atto una strategia radicale che riunisce vari elementi in un insieme coordinato, che si è rivelato micidiale. Elementi principali erano l’ostruzionismo totale al Congresso per evitare che il partito al governo potesse poi vantare dei successi legislativi; la massima priorità alla conquista delle giurisdizioni statali, da cui dipende la condotta delle elezioni anche nazionali; la costruzione di alleanze con correnti politiche sinora ritenute estreme, o scarsamente conciliabili con l’etos americano; aprire le porte all’influenza del grande capitale nel processo elettorale; e soprattutto la conquista, ormai compiuta, della Corte Suprema, per creare una spuria legalità di cui il sistema aveva bisogno e, per inciso, il controllo di una fonte indiretta di legislazione. Ciascuno di questi elementi ha avuto il suo peso, ma l’insieme ha generato un sistema che è difficile inquadrare ancora tra quelli democratici, perché mina alla radice la parità di condizioni tra i partiti. E il controllo della Corte Suprema da parte di una parte politica, qualunque essa sia, non può fare a meno di imbavagliare la sola ultima sede per contestare il sistema odierno, e riformarlo.

Unica meno una: le elezioni si terranno, e potranno non essere eque, ma possono ancora essere vinte da chi crede nella democrazia più che nel partito, e lo scandalo suscitato dal recente drammatico riorientamento della Corte può ancora determinare una forte reazione elettorale, e i prossimi ventiquattro mesi ce lo diranno. Saranno mesi di incertezza e di crescente tensione. È ben vero che ogni democrazia riposa in ogni nazione su un patto tra i cittadini, potenzialmente diverso da ogni altro, così come diverse sono le storie dei popoli che ne fanno parte.

Non è intuitivo però concepire come la capacità di interpretare la volontà del popolo possa essere salvata in un sistema che così palesemente rinuncia a collimare la politica del Paese con la preferenza della nazione.