Nagorno-Karabach, una guerra che riguarda anche noi

by 
Piero Fassino

Nella percezione di una larga parte di opinione pubblica italiana ed europea il Caucaso è un luogo remoto nel tempo e nello spazio. Al più lo si individua come la regione dell’arca di Noè, terra di periodiche invasioni di popoli nomadi delle pianure asiatiche, luogo di continui conflitti etnici e religiosi estranei alla vita del nostro continente.

La realtà, come spesso accade, è assai diversa dalle percezioni.

Il Caucaso non è un posto remoto e sconosciuto. Incastonata tra Russia, Iran e Turchia è una regione dell’Europa sudorientale, là dove Europa e Asia si incontrano con il carico della loro storia e delle loro civiltà. Un crogiuolo - come nei Balcani - di popoli, culture, religioni, lingue e alfabeti. Area strategica per la stabilità e la sicurezza del continente europeo, percorsa dai gasdotti e dagli oleodotti che dai grandi bacini energetici del Caspio e delle nazioni euroasiatiche trasferiscono all’Europa gran parte del petrolio e del gas che alimenta produzione, consumi e vita delle nostre società.

Entro la fine del 2020 dovrebbe entrare in funzione il TAP, Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che dal Mar Caspio e attraverso Georgia, Turchia, Grecia e Albania porterà in Italia quel gas essenziale per diversificare la dipendenza energetica del nostro Paese e massimizzarne la sicurezza. Un progetto geoeconomico concepito come parte di quella governance multilaterale della globalizzazione che oggi è messa in crisi dalla scelta di grandi players internazionali - gli USA, la Russia, la Turchia, la Cina - di perseguire proprie strategie al di fuori di qualsiasi concertazione.

È in questo scenario che si colloca la guerra in Nagorno-Karabach, regione del Caucaso appartenente all’Azerbaijan, ma abitata in maggioranza da armeni che nel 1991 - all’indomani della dissoluzione dell’URSS e della proclamazione di indipendenza dell’Azerbaijan - contestarono la sovranità azera e, con il sostegno dell’Armenia, diedero vita ad una autoproclamata Repubblica indipendente. Atto a cui l’Azerbaijan reagì cercando di riconquistare la regione con le armi in una guerra che coinvolse anche l’Armenia. Da allora il conflitto non ha trovato soluzione, dando luogo periodicamente a focolai bellici, fino agli scontri armati di queste settimane. Senza che la mediazione internazionale attivata sotto egida OSCE con la costituzione del Gruppo di Minsk sia riuscita in trent’anni a produrre alcun esito.

Anzi, anche questo conflitto - come in Libia, in Siria, in Yemen - è terreno di intervento di attori esterni: nel sostegno politico e militare turco all’Azerbaijan ritroviamo un altro tassello dell’espansionismo neo-ottomano di Erdogan; la Russia, forte di una cospicua presenza militare in Armenia, rivendica il suo ruolo di “potenza garante” degli assetti della regione; la presenza di gruppi terroristici e milizie mercenarie jihadiste getta una luce ancor più sinistra sul conflitto e può rafforzare quel radicalismo islamico operante da anni in Cecenia, Daghestan e Baschiria e sensibile all’influenza del mondo sciita e di Teheran. Per non dimenticare che l’intervento di Ankara nel conflitto rinnova nel popolo armeno la memoria delle sofferenze e delle tragedie della terribile persecuzione subita un secolo fa ad opera turca.

Con la guerra in Nagorno-Karabach il Caucaso appare così un laboratorio doloroso e tragico del passaggio dal multilateralismo ad un “multipolarismo conflittuale” ovvero una situazione internazionale caratterizzata dal contrapporsi di diverse polarità  e dal sovrapporsi di egemonie politiche (Russia,Turchia, Iran), competizioni economiche per il controllo dei flussi energetici, storiche conflittualità religiose (l’Azerbaijan islamico, l’Armenia cristiana). Gas e fede sembrano la miscela esplosiva di questo conflitto simbolicamente rappresentato dalla natura degli obiettivi militari: cattedrali e gasdotti.

Per tutte queste ragioni quel che accade in Nagorno-Karabach non può essere ridotto ad un conflitto etnico locale. Quella guerra riguarda l’Europa che deve agire per sedarla prima che sia troppo tardi. Il cessate il fuoco raggiunto il 10 ottobre per permettere agli schieramenti di recuperare i propri caduti e consentire lo scambio dei prigionieri sta già conoscendo continue violazioni e nuovi scontri armati. Che la Russia abbia interposto i suoi buoni uffici per il cessate il fuoco è certamente un passo utile, ma non sufficiente a evitare il riaccendersi della guerra. C’è bisogno di un salto di qualità dell’azione internazionale: il Gruppo di Minsk, l’OSCE e l'Unione Europea agiscano con determinazione per far tacere le armi e restituire parola alla politica e per una soluzione politica condivisa che assicuri pace e sicurezza ad una regione troppo martoriata dalla storia. E per questo obiettivo anche l’Italia - che è membro del Gruppo di Minsk - è chiamata a far la propria parte.