Adesso costruire la pace nella sicurezza

by 
Piero Fassino

Dopo la tregua sul fronte libanese, anche per Gaza si è finalmente arrivati ad un accordo che prevede cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi rapiti da Hamas in cambio di scarcerazione di detenuti palestinesi, rimozione degli ostacoli all’inoltro degli aiuti umanitari necessari alla popolazione palestinese. Un accordo invocato da tempo dal mondo intero. E se è del tutto lecito chiedersi se non si poteva sottoscriverlo più tempestivamente risparmiando tanti lutti e sofferenze, non va eluso l’interrogativo posto dal premio Nobel Walzer, un uomo di pace, se un accordo sottoscritto mesi fa avrebbe consentito davvero la sconfitta di Hezbollah e la caduta del regime di Assad.

In ogni caso l’accordo adesso c’è e il primo obiettivo deve essere la sua piena e tempestiva applicazione, scongiurando il rischio di ripensamenti o scarti interpretativi che ne compromettano l’esito. E che l’accordo sia esposto a rischi lo si è visto fin dalle prime ore della sua sottoscrizione.

L’applicazione dell’accordo richiede di essere accompagnato da un robusto piano di sostegno alla popolazione palestinese: la guerra ha ridotto in macerie migliaia di abitazioni, così come infrastrutture essenziali come ospedali e scuole. I continui spostamenti di popolazione hanno prodotto un enorme numero di sfollati. Il ritorno ad una normalità di vita non è assicurato di per sé dal cessate il fuoco se non si mette in opera una adeguata azione umanitaria e di ricostruzione. 

 L’applicazione dell’accordo pone altresì immediatamente il tema di chi assuma l’amministrazione di Gaza. E se è certo positivo che Abu Mazen abbia immediatamente dichiarato che l’ANP è pronta a quella responsabilità, è altrettanto vero che è indispensabile un’amministrazione che garantisca sicurezza. E molti interrogativi si pongono: l’attuale leadership dell’ANP avrebbe la forza per gestire Gaza (da cui, non dimentichiamo fu cacciata con la forza da Hamas) e Hamas accetterebbe una amministrazione ANP o la contrasterebbe? E se l’accettasse, lo farebbe per fruire di un tempo per riorganizzare la propria attività militare o per imboccare la strada di una evoluzione politica? Anche per questo appare indispensabile una presenza internazionale che affianchi l’ANP nel contribuire ad un’amministrazione di Gaza solida e sicura.
 Ciò che accadrà a Gaza è rilevante perché il suo assetto potrà divenire paradigma di come avviare il percorso di una soluzione stabile di pace e sicurezza. Se “2 popoli/2Stati” continua ad apparire l’unica soluzione in grado di soddisfare le aspirazioni e i diritti di israeliani e palestinesi, è altrettanto vero che la strada per raggiungere quell’obiettivo è impervia e piena di ostacoli.

Dopo il 7 ottobre nulla è come prima. Nella società israeliana quel massacro ha provocato un enorme trauma, al punto che, perfino tra chi ha creduto e sostenuto per anni un accordo di convivenza con uno Stato palestinese, si è insinuato oggi il dubbio sulla sua sostenibilità. E la guerra di Gaza, con il suo grande numero di vittime civili, ha scavato un solco profondo di rancore, odio, desiderio di vendetta alimentando il diffondersi tra i palestinesi, soprattutto tra i giovani, di sentimenti e umori radicali. Si è così fortemente incrinata la condizione indispensabile per un processo di pace: un minimo di reciproca fiducia e affidabilità. In altri termini per perseguire una soluzione dai pace condivisa e sicura occorre costruirne condizioni che oggi non appaiono esserci. E la prima condizione è che le leadership israeliane e palestinesi si riconoscano e accettino una soluzione di convivenza di due Stati, opzione fin qui negata da Netanyahu e dai settori radicali palestinesi.
 Per rimuovere gli ostacoli ad un percorso di pace va dunque attivato un impegnativo lavoro di tessitura e decisivo diventa l’impegno della comunità internazionale che non deve ripetere quel che troppe volte è  accaduto: attivarsi nei momenti critici per poi ripiegare in atteggiamenti passivi. Oggi più che mai è necessario che la comunità internazionale e i suoi principali attori mantengano una attiva presenza, assistendo e accompagnando le parti nella applicazione degli accordi, sostenendo le attività umanitarie, devolvendo le ingenti risorse necessarie alla ricostruzione, promuovendo la ripresa del dialogo politico necessario ad aprire la strada ad un accordo di pace condiviso.

 Peraltro un’attiva azione internazionale è necessaria per connettere la soluzione del conflitto israelo-palestinese ad un assetto stabile della intera regione. L’elezione del Presidente Aoun può offrire al Libano l’opportunità di uscire dalla instabilità di questi anni. E i rivolgimenti siriani richiedono un’azione che sostenga e accompagni Damasco nella realizzazione di una stabilità fondata sul rispetto del pluralismo politico, religioso e etnico. E se, come si è visto in questi mesi, la presenza americana è considerata decisiva sia da israeliani che da palestinesi, non meno decisivo è un pieno coinvolgimento dei paesi arabi - in primo luogo di Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Giordania - per garantire la nascita dello Stato palestinese e al tempo stesso facendosi garanti che l’esistenza e la sicurezza di Israele non siano più messi in causa.

 In questo scenario anche l’Unione europea è chiamata ad assumere un ruolo attivo, uscendo dalla afasia di questi mesi, tanto più ingiustificata per chi è il principale partner commerciale di Israele, il principale sostenitore finanziario dell’ANP e il principale contributore alla missione Unifil in Libano.
Insomma, se dobbiamo sperare che gli accordi mettano fine ai conflitti armati, si deve essere consapevoli che passare dalla guerra alla pace richiede volontà, determinazione, impegno e assunzione di responsabilità.