Una nuova Politica di vicinato per un ruolo strategico dell’Unione nel nuovo ordine mondiale

Paolo Gozzi
ex funzionario della Commissione europea

Fino al 24 febbraio 2022, la locuzione “junior partner” era fondamentalmente utilizzata nel linguaggio economico, per indicare un socio di minoranza. Al più, l’accezione era estesa alla politica, con riferimento ai partiti minori di una coalizione. Improvvisamente, questa espressione diventa d’uso corrente per spiegare uno degli esiti forse meno attesi del protrarsi dell’aggressione russa all’Ucraina: l’emergere in piena evidenza della subalternità di Mosca a Pechino. Con il proprio esercito costretto a scavare trincee difensive in quel territorio che pensava di conquistare quasi senza colpo ferire, e con un’economia indebolita dalla spesa bellica e dalle sanzioni occidentali, la Russia si è trovata costretta a servirsi dei canali commerciali rimasti aperti, segnatamente quelli con l’India e la Cina. Ma in commercio se il venditore è in difficoltà, l’acquirente spunta condizioni molto vantaggiose; e i cinesi in particolare hanno saputo sfruttare assai bene la debolezza russa, assicurandosi rifornimenti energetici a prezzi stracciati. In realtà però il risultato più significativo lo hanno conseguito rovesciando il potenziale paradigma ricattatorio per cui chi può aprire e chiudere il rubinetto delle materie prime controlla il mercato. In questo caso è evidente che è la Cina a detenere la chiave degli scambi con Mosca (e a questo punto della sopravvivenza politica di Putin): la consacrazione del senior partner nei confronti del junior.

Definita questa gerarchia, è più facile per Xi Jinping immaginare un nuovo ordine mondiale. Diventato Presidente della Repubblica popolare cinese vent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sulla fine della storia, non ha evidentemente mai creduto ad un mondo unipolare. E il modo in cui ha colto l’occasione della disastrosa conduzione russa della guerra in Ucraina per imporre di fatto un vincolo di sudditanza a Mosca indica che egli non crede nemmeno ad un mondo multipolare. La contrapposizione è tra Oriente ed Occidente, tra Cina e Stati Uniti. Il mondo è bipolare e solo due sono le potenze egemoni, portatrici di Weltanschauung antitetiche.

Sembrerebbe quindi che a quasi ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, si riparta dallo schema geopolitico che allora prevalse. In realtà, se alcune analogie possono essere facilmente individuate (sistemi politici contrapposti, modelli di sviluppo economico e sociale divergenti, competizione tecnico-scientifica), le situazioni sono molto diverse, compresa la presenza di due entità globali di rilievo: i BRICS e l’Unione europea.

Dei BRICS è stato detto che potrebbero svolgere un ruolo simile a quello che fu dei paesi non-allineati. Il paragone non regge. Al momento della creazione del Movimento nel 1955, i tre membri principali erano la Iugoslavia, l’Egitto e l’India, paesi poveri, economicamente arretrati, abili nel ritagliarsi uno spazio di visibilità politica a livello mondiale, ma incapaci di incidere su qualsivoglia evento determinato dalla volontà delle due superpotenze. Nel 2006, Brasile, Russia, India e Cina (cui si unì più tardi il Sudafrica) gettarono le basi per un vasto progetto volto, tra l’altro, a contrastare il ruolo internazionale del dollaro. Alcuni anni dopo decisero la costituzione di una “Nuova Banca per lo Sviluppo” intesa a scalzare l’egemonia del Fondo Monetario Internazionale. Sono ambizioni che non possono essere catalogate come irrealistiche, considerato che i BRICS rappresentano un terzo del prodotto interno lordo e oltre il 40% della popolazione mondiali.

Non si può poi sorvolare sul fatto che due membri fondatori dei BRICS sono Cina e Russia, senior e junior partner del polo che si contrappone agli Stati Uniti. Di “non allineato” i BRICS non hanno quindi proprio nulla e la loro forza economica e demografica è destinata a pesare significativamente nel confronto a tutto campo di un nuovo mondo bipolare.

In questo quadro globale ancora in via di definizione, in cui sembrano esservi spazi assai ampi per correzioni di rotta e riposizionamenti, per l’Unione europea appare scontata l’adesione al campo statunitense, inevitabilmente in funzione di junior partner, almeno sul piano strategico-militare.

Dobbiamo quindi considerare puramente velleitaria la spinta di Emmanuel Macron per il perseguimento di una autonomia strategica dell’Europa nei confronti degli USA? La risposta è certamente sì se si fa riferimento alla politica di difesa, ma può essere molto più sfumata se si prende in considerazione la soft power europea, l’arma che ha consentito all’UE di conseguire i più significativi risultati della sua storia.

Poiché il fulcro del futuro confronto bipolare sarà (più di quanto già non sia) nell’indo-pacifico, l’Europa si troverà di fatto in posizione decentrata e pur assicurando il massimo appoggio all’alleato statunitense, avrà agio di gestire con ampia autonomia i rapporti con i paesi limitrofi.

Da anni ormai, con la Politica europea di vicinato (PEV) l’UE ha sviluppato uno strumento di soft power nei confronti dei paesi di prossimità. I risultati sono stati a dir poco deludenti e l’invasione russa dell’Ucraina ha in qualche modo certificato il fallimento dell’approccio, basato su uno slogan che conteneva una promessa dimostratasi irrealizzabile: la condivisione di “tutto fuorché le istituzioni”. Resta il fatto che da una nuova PEV bisogna ripartire, cominciando dall’analisi delle ragioni che hanno inficiato il successo di quella attualmente agonizzante.

Concepita e varata come naturale complemento della politica di allargamento che nel 2004 ha portato all’ingresso nell’UE di dieci nuovi Stati membri, la PEV si è concretizzata sull’onda del dibattito sulla Wider Europe, lanciato nei primi anni 2000 dalla Commissione Prodi proprio in vista dello sconvolgimento geopolitico che l’imminente allargamento avrebbe prodotto. In realtà però, le radici della PEV affondavano in almeno due iniziative varate negli anni precedenti. La prima concerneva i paesi dell’ex Unione sovietica avviati verso l’indipendenza e che sarebbero confluiti nella “Comunità di Stati indipendenti”. Si rattava del programma TACIS (Technical Assistance to the Commonwealth of Independent States), lanciato già nel 1991 per assistere la transizione verso l’economia di mercato e promuovere la democrazia e lo stato di diritto. Il secondo (1995), denominato Processo di Barcellona rivolto – in un certo senso specularmente – ai paesi terzi mediterranei, con l’obiettivo di promuovere gli scambi economici, la cooperazione e il dialogo con l’Unione europea.

La storia seguente di questa politica è quella di un’assenza di chiarezza nella rotta da seguire, tra approcci unitari (lo “Strumento europeo di vicinato e partenariato” istituito nel 2006 applicato a tutti i diciassette paesi partner: Algeria, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Egitto, Israele, Georgia, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Moldavia, Autorità palestinese, Russia, Siria, Tunisia e Ucraina) ed altri differenziati per regioni più omogenee, che hanno portato ad esempio alla creazione del “Partenariato orientale” da un lato e dell’Unione per il Mediterraneo dall’altro (2008). Va inoltre ricordato che praticamente con tutti i diciassette paesi esistono accordi individuali di partenariato, di cooperazione o di associazione.

In tutti i casi, nell’attuare la politica di vicinato, l’UE si è posta fin dall’inizio in una prospettiva assistenziale, nonostante l’attenzione ad utilizzare la dizione “paesi partner”: in una comunicazione del 2006, la Commissione precisa che il “nuovo strumento finanziario (…) migliorerà notevolmente la qualità della nostra assistenza e fornirà fondi più consistenti”. Ora che la Russia ha scatenato una guerra in Europa, si ha gioco facile a ricordare che proprio la prospettiva assistenziale aveva suscitato ben più di qualche perplessità a Mosca, la quale non ha mai voluto essere coinvolta nell’attuazione della PEV, insistendo affinché i rapporti rimanessero nel quadro del vecchio accordo di partenariato e cooperazione (1994-1997).

Questi sono gli elementi di cui non si potrà non tener conto per il varo di una nuova politica di vicinato. Un’Unione europea pronta a dare supporto al suo partner americano impegnato in un confronto (si spera non militare) il cui fulcro è per noi agli antipodi, dovrà rivolgersi ai paesi suoi vicini con l’assertività che le ha fatto finora difetto. La chiave di volta sarà la capacità di concepire ed attuare una politica che sia di sostegno e non di assistenza, di condizionalità fatte rispettare e non di condiscendenti paternalismi. La convivenza con una nuova cortina di ferro ad oriente e la gestione di una complessa situazione migratoria a sud sono le sfide ma anche i compiti che attendono l’Unione europea all’interno del nuovo ordine mondiale. Istituzioni e Stati membri non possono più tergiversare: anche su questo i cittadini europei potranno giudicarli nel 2024.